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Autore: Astry_1971    31/07/2014    0 recensioni
Aveva fantasticato sulle sue città popolose, le ricche foreste e le enormi distese d’acqua, illuminate dalla gigantesca sfera di fuoco che volava nel cielo. Aveva cercato di immaginare il colore azzurro dell’immensa cupola che proteggeva quel mondo e che diventava nera e punteggiata di piccole fiaccole quando il sole si nascondeva dietro le montagne. Aveva sognato di vedere gli animali con le ali che galleggiavano tra la terra e il cielo. Non solo lui, tutti avevano fatto quel sogno, almeno una volta, ed ora il sogno stava per realizzarsi.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Cap. 1 (Antefatto)


Il giovane Anedjib si guardò attorno: centinaia di persone, tutte quelle che lo avevano seguito nel suo folle viaggio, erano accalcate l’una contro l’altra nello stretto passaggio. S’udivano urla di bambini, uomini che incitavano a fare in fretta, lo scalpicciare dei calzari sulla pietra, e un odore nauseabondo di muffa misto a sudore e sporcizia gli pungeva le narici.
Il cunicolo era completamente buio: la luminescenza che rischiarava il mondo sotterraneo li aveva abbandonati non appena varcato l’ingresso della galleria.
“Ci siamo, ci siamo quasi!” gridò qualcuno con la voce rotta dall’affanno.
Era così, infatti: dopo giorni di cammino in un labirinto di gole, grotte popolate da creature mostruose, sconfinate pianure coperte di crosta lavica, quando ormai erano ridotti allo stremo, finalmente la speranza si era riaccesa.
Quello era il luogo dove, secondo i suoi calcoli, la Porta si sarebbe spalancata permettendo loro di raggiungere il mondo della luce. Anedjib li aveva guidati alla ricerca del mondo descritto nelle leggende e nei racconti di chi era giunto in quel luogo di tenebra attraversando la soglia magica, i pochi ai quali la grotta del sonno non aveva cancellato la memoria, il mondo che lui aveva sognato di vedere fin da bambino.
Aveva fantasticato sulle sue città popolose, le ricche foreste e le enormi distese d’acqua, illuminate dalla gigantesca sfera di fuoco che volava nel cielo. Aveva cercato di immaginare il colore azzurro dell’immensa cupola che proteggeva quel mondo, e che diventava nera e punteggiata di piccole fiaccole quando il sole si nascondeva dietro le montagne. Aveva sognato di vedere gli animali con le ali che galleggiavano tra la terra e il cielo. Non solo lui, tutti avevano fatto quel sogno, almeno una volta, ed ora il sogno stava per realizzarsi.
In quel punto la barriera che li separava dalla superficie era più debole ed era certo che sommando la sua energia con quella di suo fratello Ay e degli altri Discendenti sarebbe riuscito a spezzare l’antico sortilegio che li teneva prigionieri da generazioni.
Anedjib appoggiò la schiena alla parete di roccia cercando di regolare il respiro reso affannoso dalla lunga marcia.
La tunica bianca che indossava come tutti gli appartenenti al suo rango era strappata in più punti e i piedi scalzi erano coperti di piaghe.
Gli dolevano tutti i muscoli. Si guardò le mani: le unghie erano spezzate e la pelle era coperta di graffi.
Non era stato certo un viaggio facile. Per fortuna, nonostante i pericoli che avevano dovuto affrontare, se l’erano cavata, pur se con qualche ferita e molto spavento.
Era stata una pazzia portare con loro donne e bambini, ma come avrebbero potuto convincerli a rinunciare a quel viaggio e alla prospettiva di tornare a vivere alla luce del sole?
Piccoli rivoli di sangue continuavano a scivolargli dalle nocche mescolandosi con la sporcizia. Si pulì la mano sulla stoffa della tunica e sospirò, osservando un gruppo di bambini che si trascinava appoggiandosi al muro come avessero cento anni. Si fece forza drizzando le spalle doloranti, mentre cercava di immaginare quanto potessero essere stremati loro.
Non avevano potuto fermarsi, neppure per poche ore: i Segugi li avevano quasi raggiunti.
Anedjib sapeva che, se avessero fallito, sarebbero andati incontro ad una morte certa.
Attraversare la soglia era proibito. Quelli che avevano tentato non erano riusciti nell’impresa, e a nessuno di loro era stato permesso di sopravvivere e quindi di raccontare ciò che avevano visto attraverso la barriera, alimentando così la leggenda di un sole distruttivo, in grado di incenerire chiunque non fosse nato sotto i suoi raggi.
Il terrore di morire arsi dall’enorme sfera di fuoco, aveva tenuto prigioniero per secoli il popolo delle città sotterranee.
Le labbra del giovane stregone si piegarono in un sorriso quando una donna cercò di farsi largo tra la folla spintonandolo. Anche lei indossava la tunica bianca e aveva un bambino in braccio. Giunse a tentoni ad attirare l’attenzione di un uomo alto che teneva una torcia in mano.
Sentendosi afferrare lui, un altro Discendente, si voltò di scatto, e la luce tremolante gli illuminò il viso pallidissimo.
“Dammi il bambino!” gridò l’uomo, cercando di superare il frastuono della folla. “Dammelo, o finirete entrambi schiacciati.”
“Dov’è Kahel?” domandò apprensiva la donna, mentre i suoi occhi passavano in rassegna centinaia di volti che apparivano e sparivano illuminati dalle torce.
“Non lo so, era davanti a noi con sua moglie e il bambino. Dobbiamo proseguire, li ritroveremo all’uscita.”
Sì, si sarebbero ritrovai tutti all’uscita, e sarebbero stati tutti vivi. Pensò Anedjib fiducioso, con l’entusiasmo tipico della sua giovane età.
Era certo che chi aveva alimentato quelle paurose leggende doveva avere ben altre ragioni per non voler risalire in superficie che non una stupida superstizione. La legge spietata, che condannava all’oblio tutti coloro che dal mondo della luce finivano laggiù attraversando accidentalmente la soglia, e alla morte quelli che tentavano di nascondere ai segugi i figli del sole nella speranza di ricondurli al loro mondo, era solo frutto della paura. Forse gli Dei avevano sigillato le porte secoli prima intrappolando il suo popolo in un limbo oscuro, per timore dei figli della luce, quegli stessi uomini che secoli, millenni prima si erano inginocchiati davanti al loro potere?

La mano di Anedjib cercò quella della donna che gli stava accanto: una graziosa ragazza il cui abbigliamento stonava decisamente rispetto a quello degli altri.
Aveva una stretta gonna blu che le arrivava fin sotto al ginocchio, stivaletti di pelle nera e una camicetta bianca con il colletto di pizzo. I capelli biondi erano acconciati in uno chignon.
Vittoria era una figlia della luce, ed era la donna di cui si era innamorato e per la quale aveva deciso di intraprendere quel viaggio.
Anche lei era arrivata nel mondo sotterraneo varcando la soglia per caso, come altre centinaia di uomini e donne inconsapevoli e senza alcun potere, che si erano ritrovati, loro malgrado, nel sottosuolo, in balìa di un mondo ostile, bloccato nel tempo.
Anedjib era rimasto folgorato dalla sua forza, dalla sua volontà di tornare a casa.
Il desiderio di lei era diventato il suo, come se lui stesso non potesse più fare a meno del calore, della luce e dei colori di un mondo che riusciva solo immaginare.
Per lei si era unito a quel gruppo di uomini che cercavano di tornare alla superficie, li aveva aiutati con le proprie facoltà a trovare la porta e, entusiasta, aveva trascinato con sé anche suo fratello Ay e altri Discendenti che, come lui, desideravano vedere finalmente il sole.
Erano partiti portando con sé sogni e speranze.
Avevano rischiato tutto, rinunciato a famigliari e amici. Abbandonando anche molti figli della luce ai quali la grotta del sonno aveva strappato i ricordi: troppo pericoloso informarli del loro tentativo, il viaggio era già abbastanza rischioso senza doversi preoccupare di eventuali traditori e spie.
Le piccole dita di Vittoria tremavano. Lei abbozzò un sorriso incerto, sforzandosi di apparire coraggiosa.
“Ce la faremo, ormai siamo arrivati.” La rassicurò il mago.
Si morse il labbro, mentre un brivido gli percorreva la schiena: e se si fosse sbagliato? Se ad attenderli non ci fosse stata nessuna porta?
Anedjib scrollò il capo e decise di ignorare quel pensiero.
Sollevò lo sguardo; suo fratello Ay era poco più avanti. Aiutava una vecchia e un bimbo che lei chiamava Diego e che non doveva avere più di quattro anni. Forse era suo nipote. Anche lei era una figlia della luce, giunta lì vent’anni prima, o quaranta. Il bambino probabilmente era nato lì.
Era facile riconoscere i figli del sole: avevano una carnagione più scura rispetto a chi, come lui e Ay, apparteneva a quel mondo da molte generazioni. I loro volti erano, infatti, di un pallore quasi spettrale per non aver mai visto il sole. Nel suo caso il candore era reso ancor più evidente dalle pupille nere come la notte che creavano un insolito contrasto.
Anche i capelli erano scuri e lunghi, raccolti dietro la nuca da un laccio.
Suo fratello Ay era più basso, lui l’aveva sempre sbeffeggiato per questo. Aveva capelli corti e ricci, e una barba ben curata ne rendeva più affilato ed elegante il mento.
Dei due fratelli, il maggiore era quello che somigliava di più al loro padre, anche come temperamento: Ay era stato sempre quello più avventato.
Fino a quel momento, fino a quella follia.
Il giovane stregone rabbrividì al pensiero che, se avessero fallito, proprio il loro genitore sarebbe stato fra quelli chiamati ad emettere la condanna, e non avrebbe esitato a pronunciarla.
La loro famiglia sedeva nel Consiglio da generazioni; loro stessi, un domani, sarebbero stati chiamati a farne parte. Erano rimasti in pochi a conoscere i segreti dell’antica magia e quei pochi avevano il diritto di dominare sugli schiavi.
Ma lui non ambiva a governare in quel mondo di eterna notte dove solo i morti avrebbero dovuto stare. Anedjib voleva andarsene.
Forse non avrebbe mai rischiato una simile impresa se non fosse stato per Vittoria. Non avrebbe tradito la volontà dei Sapienti, per salvare gli abitanti di un mondo che non aveva mai visto, se lei non fosse entrata così prepotentemente nel suo cuore.
Ormai desiderava solo trascorrere la vita con la sua compagna in un mondo illuminato dal sole.
Si era unito agli schiavi e ai rivoltosi e li aveva guidati fin lì. Ora non restava che attraversare una soglia.
Anedjib si staccò dalla parete e riprese la marcia continuando a stringere la mano della donna che amava.
Poco distante un altro uomo urlò.
“Siamo giunti al passaggio, che l’astro ci illumini!”
Ci furono grida di esultanza, molti cominciarono persino a cantare.
Anedjib aiutò Vittoria a superare un dislivello del terreno, poi afferrandosi alla parete di roccia si issò per raggiungerla.
Davanti a loro si aprì uno spiazzo, il soffitto era basso e claustrofobico, e ben presto la folla che seguiva i due uomini si riversò in quello spazio, colmandolo come un onda di marea.
“Ed ora che facciamo?” domandò Vittoria.
Lui le prese la mano e se la portò alle labbra. “Guarda.” Rispose, con un sorriso carico di dolcezza.
La folla si divise, dal gruppo si staccarono una decina di uomini, indossavano tutti una tunica bianca e tutti erano ugualmente pallidi.
I Discendenti, compresi lui e Ay, si disposero in cerchio, appoggiati alle pareti. Il resto della folla rimase nel mezzo.
I Maghi sollevarono le braccia e, spalancando la bocca, iniziarono ad emettere un suono grave e prolungato.
Un’insolita brezza prese a soffiare nella grotta e corpi delle persone al centro iniziarono a perdere consistenza.
Anedjib guardò Vittoria e sentì il cuore balzargli nel petto. Non aveva mai provato una simile gioia.
“Il passaggio si apre.” Mormorò con voce rotta dall’emozione.
“Presto, tutti verso il centro, entrate nel passaggio.” gridò Ay e, prendendo per mano Vittoria, spinse anche lei verso il punto che aveva indicato.
La folla venne come risucchiata nel nulla. Uomini e donne continuavano a camminare verso il centro della caverna, ma lo spazio non si riempiva mai, sembravano attraversare un muro invisibile.
Anche Anedjib fu trascinato dalla marea umana e si ritrovò nel mezzo. Di fronte a lui stavano Vittoria e Ay. Anedjib lo guardò mentre con il braccio cercava di proteggere la ragazza dalla calca e gli sorrise, ma qualcosa nella sua espressione gli cancellò il sorriso dal volto, come una folata di vento avrebbe cancellato un’orma sulla sabbia.
“Ay!” gridò. “Ay, che vuoi fare?”
All’udire le sue grida, Vittoria si voltò verso Anedjib. Vide l’uomo di cui era innamorata tendere il braccio verso il fratello che, invece, aveva sollevato il suo stringendo in mano una pietra luminosa.
“Ay, no! Li ucciderai tutti.” Alle sue grida ormai si erano sommate quelle di altre cento persone. Nessuno aveva capito quello che stava per succedere, ma la disperazione nella voce della loro guida li aveva gettati nel panico.
“Ay, ti prego, sei mio fratello!” lo supplicò.
“Lei è mia.” Disse gelido l’altro e gettò al suolo la pietra che si frantumò in decine di schegge lucenti, uniche stelle in quel mondo senza cielo.
Le pareti della grotta furono scosse come da un terremoto. Un boato riempì le loro orecchie precipitandoli nell’orrore.
“Vittoria!” Il più giovane tra i due fratelli tese il braccio tentando di afferrare le dita che solo un istante prima aveva baciato e che ora, lo sapeva stava per perdere per sempre.
Suo fratello stava trascinando Vittoria via da lui. Verso la luce, verso il mondo che tutti loro avevano sognato di vedere.
Avevano studiato gli antichi libri, le leggende. Per anni avevano preparato la loro fuga, mentre l’amore per quella donna venuta dalla luce si fortificava. Lei era l’ispirazione, i suoi racconti, i suoi ricordi, li avevano portati a quel giorno.
Non poteva perderla, non voleva tornare al suo mondo di oscurità.
Il corpo della ragazza, di Ay e di tutti quelli che si trovavano all’interno del passaggio si allontanavano sempre più, mentre gli altri che non erano riusciti a raggiungere la soglia furono scaraventati indietro.
Folle d’amore Anedjib si gettò contro il fratello contrastando la forza che invece lo spingeva lontano. Si aggrappò alla sua tunica sperando di essere trascinato con lui dall’altra parte.
Sollevò lo sguardo e vide Vittoria e tutti quelli che avevano raggiunto l’uscita mentre venivano investiti da una luce accecante.
“Il sole, è il sole.” S’udì gridare.
Ma fu solo un istante, poi tutto tornò buio.
Ay si voltò, Vittoria era dietro di lui, la sua mano tesa cercava di afferrare quella di Anedjib, tuttavia non tentò di fermarla, il suo sguardo era stato attirato da quel raggio di sole immediatamente scomparso, e la sua espressione divenne feroce.
“Il passaggio si chiude.” Ruggì in preda al terrore. “Torniamo indietro! Dobbiamo tornare indietro!”
Afferrò Vittoria per un braccio e la spinse di nuovo verso il proprio fratello, ma la mano di lei non raggiunse mai quella tesa dell’altro, le sue dita divennero scure e rigide come roccia. Tutte le persone che si trovavano all’interno del passaggio e si erano accalcate dietro di lei subirono la stessa sorte. La soglia chiudendosi stava tramutando lo spazio in bilico fra i due mondi in pietra imprigionando la gente al suo interno.
“Noooo!” Il grido agghiacciato di Anedjib rimasto fuori si sommò al frastuono della grotta che aveva iniziato a franare.
Era paralizzato dall’orrore, gli occhi fissi sulle dita di lei. Era come se una colata di fango le avesse ricoperte e poi si fosse seccato rendendole rigide e screpolate.
Le urla degli scampati gli riempivano le orecchie.
Una donna era caduta in ginocchio davanti alla montagna di corpi tramutati in pietra, un enorme pilastro roccioso in cui erano ancora riconoscibili volti e mani tese. Come fossero lava fuoriuscita dalla bocca di un vulcano invisibile e immediatamente solidificata.
La povera disperata aveva le braccia allargate e continuava a ripetere una litania di nomi, come una macabra cantilena.
Anedjib la riconobbe, era la stessa che poco prima parlava di rivedere suo figlio all’uscita. Ora l’aveva trovato, lui, e anche il neonato e suo padre, erano tutti lì, parte di quel macabro monumento a perenne ricordo della sua follia.
Un’altra donna le si avvicinò, era molto più giovane, il suo bambino appena nato legato alla schiena. L’afferrò per le spalle.
“Non puoi fare più niente, sono morti, dobbiamo andare o moriremo anche noi.”
La sollevò quasi di peso, trascinandola con sé, mentre dal soffitto continuavano a piovere sassi e polvere. La folla si era accalcata all’ingresso dello stretto cunicolo che li aveva condotti fin li in cerca di un nuovo mondo. Si udiva gente che urlava, bambini che piangevano, qualcuno gridava il nome di un familiare sperando che non fosse fra quelli intrappolati nella pietra.
Intere famiglie erano state separate nella confusione.
Il giovane mago si alzò, incurante dei detriti che continuavano a cadergli accanto.
Camminò intorno al pilastro di corpi. In tutto quel rumore, una voce lo attirò.
Anedjib si asciugò gli occhi con la manica della tunica. La polvere mista alle lacrime aveva formato una poltiglia scura sulle sue guance che in parte si trasferì sulla stoffa lasciandogli sul viso un insolito disegno.
Tutt’intorno dalla roccia fuoriuscivano volti con le bocche spalancate, fissate nel loro ultimo grido disperato, e mani tese verso la salvezza che non avrebbero mai raggiunto.
Un paio di braccia sporgevano più delle altre, come se qualcuno avesse tentato di gettare qualcosa al di fuori di quella trappola mortale. Abbassò lo sguardo e riconobbe Diego, il bambino che aveva visto pochi istanti prima con sua nonna. Piangeva seduto in terra proprio ai piedi della donna che gli aveva salvato la vita.
Come un automa l’uomo si chinò e lo prese in braccio, stringendolo con più forza di quanto fosse necessaria mentre il soffitto della caverna continuava a franargli addosso.
Fino a quel momento non aveva nemmeno tentato di ripararsi in qualche modo. Solo per pura casualità due grossi massi non lo avevano schiacciato, eppure lui sembrava non essersene neppure accorto.
Appena il bambino si aggrappò spaventato al suo collo, istintivamente Anedjib lo avvolse col braccio e si piegò in avanti per proteggerlo, ma non si unì al fiume di uomini che correva verso l’esterno.
Rivolse ancora uno sguardo ai volti incastonati nella roccia, osservò una ad una quelle pietre fatte di carne e intrise di sangue che non avrebbe dovuto essere versato, chiedendosi perché improvvisamente non provava più nulla, né odio per ciò che suo fratello aveva fatto, né colpa, rimorso per la sua follia e la sua presunzione.
Era come se anche il suo cuore fosse stato pietrificato nel passaggio, lasciandolo vuoto, privo del dolore, della paura e persino della pur minima volontà di reagire.
Non c’era più nulla per cui lottare, nessuna porta da raggiungere. Vittoria non c’era più. Si era fidata di lui ed ora era morta.
Se non avesse avuto in braccio il piccolo Diego che continuava a piangere, si sarebbe semplicemente lasciato colpire dai massi che continuavano a piovergli intorno rischiando di seppellirlo in quella grotta assieme alla donna che amava.
Ma la paura e la volontà di vivere della creatura innocente, che continuava ad aggrapparsi disperato al suo collo, lo indirizzò verso l’uscita, anche se sapeva che non ci sarebbe stata salvezza per loro lì fuori.
Di certo anche gli altri ne erano consapevoli, ma l’istinto, il terrore di restare sepolti nella grotta era più forte della ragione e li aveva spinti forse verso una morte peggiore.
Le pareti del cunicolo continuavano ad oscillare tanto che più volte Anedjib si ritrovò scaraventato contro la pietra.
Le grida degli uomini davanti a lui si facevano sempre più distanti ed ora il rombo del terremoto le attutiva quasi completamente. Poi la terra smise di tremare e le grida, al contrario, si fecero più acute.
Le sue braccia si strinsero ancora di più attorno al bambino che ora aveva smesso di piangere.
Era ormai all’imboccatura del cunicolo, la polvere dei crolli in un primo momento gli impedì di vedere ciò che stava succedendo all’esterno.
Poi i suoi timori divennero certezze: i segugi li avevano raggiunti e, con loro, c’era un esercito di uomini chiusi in armature simili a corazze di animali che in quel mondo potevano solo immaginare, ricoperte di scaglie e ornate con corna e teschi di metallo.
La gente terrorizzata uscendo dalla caverna era finita proprio tra le braccia dei soldati.
Fu una mattanza. I figli del sole furono i primi ad essere uccisi, gli altri, catturati, avrebbero seguito la stessa sorte dopo un ridicolo processo.
Impietrito di fronte a quella scena, Anedjib non tentò nemmeno di salvarsi. Le ginocchia si piegarono e lui cadde a terra. Il piccolo Diego sempre aggrappato al suo collo, pareva spaventato più dalla confusione che dalla consapevolezza di ciò che stava accadendo.
Anedjib chiuse gli occhi e restò in attesa che qualcuno lo colpisse. Sentiva i tonfi dei corpi che, accanto a lui, cadevano uno dopo l’altro. Molti non avevano neppure il tempo di urlare.
Poi qualcosa di caldo gli imbrattò la guancia.
Anedjib guardò in basso: occhi celesti lo fissavano, come schegge di vetro incastonate in quello che solo lontanamente ricordava un volto umano, un volto femminile. La lama aveva inciso un profondo taglio all’altezza del naso, prima che un secondo colpo più preciso recidesse dal corpo la testa intera.
Un conato di vomito risalì la gola del mago. D’istinto il suo sguardo si posò sulla forma indefinita li accanto, così somigliante ad un cumulo di panni scuri. Il corpo si era accasciato su se stesso, mentre il mantello che la donna indossava, gonfiandosi durante la caduta, si era allargato nascondendone pietoso il cadavere.
Anedjib la riconobbe: era la giovane che portava il neonato sulle spalle, ma il bambino non c’era.
Non fece in tempo a domandarsi dove fosse che una mano rude gli strappò dalle braccia il piccolo Diego e altri due uomini lo rimisero in piedi con altrettanta grossolanità.
Lui non aprì bocca, non disse una sola parola. Avrebbe voluto urlare, pregarli di non fare del male al bambino, ma sentiva che se lo avesse fatto, loro glielo avrebbero ucciso davanti agli occhi.
Seguì con lo sguardo l’uomo che l’aveva portato via, lo osservò mentre lo consegnava ad una donna. Il pensiero che l’avrebbero risparmiato gli riempì la mente e gli gonfiò il cuore. Gli sembrò di galleggiare in un sogno. Vittoria, il tradimento di suo fratello, tutti quei morti. Per un attimo furono sostituiti da un unico pensiero: Diego, chiunque fosse quel bambino, sarebbe sopravvissuto. Solo quello gli importava. Doveva aggrapparsi a qualcosa, una ragione che giustificasse il fatto che il suo corpo continuava a respirare e che il cuore continuava a martellargli nel petto quando avrebbe solo voluto strapparlo via.
Lasciò che i soldati lo incatenassero e li seguì assente. Era pronto ad affrontare la sua punizione. Era pronto a raggiungere la sua Vittoria.
  
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