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Autore: Columbrina    31/07/2014    1 recensioni
[Anna Williams, secondo il mio punto di vista]
[Giusto un po' di cosette cambiate]
[Pre e during Tekken Tag Tournament II]
Potrebbe chiamarsi tranquillamente Anna Williams e i suoi uomini:
Insomma, facendo un resoconto della mia vita, le uniche persone di spessore che vi appartengono sono:
Un boss accigliato, posseduto, che odia suo padre, suo figlio, il suo fratellastro, l'altro suo fratellastro, un robot, quello scienziato allupato, il suo mercenario, una povera sottoposta, un orso, un panda, un canguro umanoide, un tronco di legno, la sua ex, la nipote della sua ex e penso anche quella ragazzina che sta dietro suo figlio...
Un nipote allupato, che si porta in giro un cuoco fallito e un gallone.
E lui, a cui non riesco ancora a trovare una collocazione precisa nella mia vita, ma ci appartiene e, se non fosse per quella strana mania per il colore viola, potrebbe anche avere un senso ai miei occhi. Ci sto perché entrambi odiamo i nostri fratelli e, bene o male, sto al gioco. Potrei definirlo, il mio rapporto occasionale più ricorrente.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Kazuya Mishima, Lee Chaolan, Nina Williams, Steve Fox
Note: Missing Moments, OOC, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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Brevi stralci dei pensieri di Anna Williams

 
 
Piccole note prima di iniziare: Volevo scrivere una KazuyaJun, ma stanotte ho pensato intensamente ad Anna Williams, un personaggio che, sinceramente, non avevo mai preso molto in considerazione. Non che mi dispiacciano i conflitti tra le sorelle Williams, ma preferisco di gran lunga concentrarmi sulle vicende familiari dei Mishima, che fanno spavento a Beautiful per quel che mi riguarda. Ad ogni modo, ho pensato ad Anna Williams e il suo rapporto con gli uomini.
Lei e Nina sono, sicuramente, le femme fatale di Tekken, ma tra le due, è Anna ad avere dei modi di fare più civettuoli e predisposti al flirt, dunque risente maggiormente della preferenza che suo padre aveva nei confronti dell'avvenente sorella maggiore. In chiave un po' OOC, non lo nascondo, ho scritto dei probabili pensieri di Anna nel rapportarsi ai suoi uomini al di fuori della guerra, tre  in particolare, che non può fare a meno di rapportare al padre, che le ha lasciato un vuoto incolmabile: Kazuya, il suo capo; Steve, suo nipote e, a differenza del canon videoludico, lei è perfettamente a conoscenza della parentela; Lee Chaolan, che non ha una vera e propria catalogazione nella sua vita.
Scritto in prima persona: partiamo dal presupposto che questo tipo di narrazione non è il mio preferito da leggere, ma mi piace scrivere dal punto di vista dei personaggi, immedesimandomi completamente in loro (del resto, mi sembra anche il più ideale, dal momento che mi concentrerò solo sulle esperienze vissute da Anna).
 
La storia è ambientata, teoricamente, nel periodo precedente e durante Tekken Tag Tournament II, che identifico come una sorta di torneo "appendice" del Tekken vero e proprio, che si fa per intrattenere gli spettatori mentre aspettano il prossimo Iron Fist.
Ho apportato un piccolo cambiamento narrativo in questa prima parte di storia, che contiene il prologo e il primo capitolo (quindi i successivi, saranno più brevi): Anna, nel secondo Tekken, era una sorta di alleata di Kazuya, una guardia del corpo per meglio dire, ma dopo il secondo torneo si è mantenuta su piano neutrale, non schierandosi né per la Zaibatsu né per la G - Corp; diventa collaboratrice di Kazuya in Tekken 6; in questa storia, invece, Anna è collaboratrice di Kazuya sin da quando ha vent'anni (non ho scritto la parte del sonno criogeno, ma è implicito e mi sono sempre tenuta vaga sul lasso di tempo passato tra un ricordo e l'altro, giusto per non creare confusione con gli eventi canonici del gioco) e gli è incondizionatamente fedele.
 
Buona lettura!
 

 


A primo acchito, può sembrare che io stia buttando giù queste righe per pura goliardia, ma credo non ci sia nulla di meglio da fare quando hai una giornata di ferie dal lavoro e nessuno con cui parlare. Il tutto è reso ancora più triste dal fatto che, in dispensa, c'è solo una scatola di cioccolatini che non viene certamente da uno spasimante e, nel mio frigorifero, c'è solo una bottiglia di vino rosso, rigorosamente francese, che potrebbe essere mio alleato nel combattere la solitudine, ma desisto perché preferisco usarlo per brindare sulla tomba di mia sorella.
Oh, quello sarà davvero un grande giorno.
La diletta Nina Williams, che mio padre non mancava mai di elogiare, indifesa come un agnellino sotto tutti quei metri di terra e letame dove la farò seppellire: sì, letame, così nessuno oserà avvicinarsi alla sua tomba; per il suo puzzo, lo stesso che non può fare a meno di condannare il mio povero olfatto da quando siamo nella culla. Che poi, non credo che Nina sia la persona con più amici del mondo...
Ricordo ancora le parole di mia madre, pronunciate in chissà quale eccesso di zelo materno (o di alcool, chi lo sa), dove diceva: "Una sorella è l'unica cosa che non se ne andrà mai".
Fantastico.
La mia vita è una condanna, una maledizione e mi chiedo cosa posso aver fatto io di male; magari, ho fatto un torto ai piani alti quando ero un embrione, ma ero ancora incapace di intendere e di volere, quindi, tecnicamente, sono esente da qualunque punizione: invece, mi è capitata la peggiore.
E credo sia questa folle bramosia di vendetta verso mia sorella che prosciuga tutte le mie energie e non mi rende appetibile agli uomini: non fraintendiamo, orde di uomini si prostrano al mio cospetto e, diciamoci la verità, non hanno tutti i torti... Nessuno riuscirebbe a portare un cheongsam con così tanto stile, però... Gli uomini mi trattano come se fossi la loro botta e via, l'ennesimo nome da aggiungere alla lista dei rapporti occasionali. Da sbronza, ci ho riflettuto su questa cosa e credevo che fosse dovuto ai miei modi di fare così civettuoli e melliflui; al fatto che indosso abiti succinti e agito costantemente il seno o il sedere con fare sensuale, ma ho scartato queste ipotesi all'istante...
La colpa è sempre della maledizione che mi affligge costantemente, che non è affatto da identificarsi in Nina, ma nella predestinazione: io, sin da quando sono uscita dal grembo della mia sciagurata madre, sono destinata a vivere in una crisalide di dannazione, di sfortune e di insuccessi, senza che, da piccola neonata indifesa, potessi fare nulla per scongiurare questa condanna che mi è stata sentenziata in cambio di una bellezza statuaria. Probabilmente, la colpa di tutto è da dare a mia madre: dopo il pasticcio combinato con Nina, avrà desiderato una figlia finalmente bella, da poter essere fiera nel dire che era sua. Sì, è l'unica spiegazione.
E non sono nemmeno sbronza.
Comunque, se le cose sono davvero andate così, credo che invierò una lettera minatoria ai piani alti per trovare una soluzione: o fulminano all'istante mia madre oppure riducono sensibilmente la presa del mio sex appeal sugli uomini.
Avvenenza e anagrafe, purtroppo, discordano su molte cose: nonostante abbia l'aspetto appetibile di una procace ventenne, uno stupido pezzo di carta dice che sto diventando vecchia. Anno dopo anno, inesorabilmente. E, sapete, anno dopo anno, cambia anche la diversa prospettiva che hai della vita e, se prima mi recava forte soddisfazione nell'essere costantemente corteggiata da quegli uomini che mi hanno riservato più attenzioni di quante mio padre me ne abbia riservate fin quando è morto, ora mi sento un inutile pezzo di carne che marcisce se tenuto troppo a lungo fuori dal frigorifero.
Mi piacerebbe indossare il bianco, per una volta, che credo sia un colore che metta in risalto i miei contrasti cromatici. Magari un abito più principesco, che non mi costringa a respirare a malapena, solo per un giorno almeno. E vorrei riappacificarmi brevemente con Nina solo per chiederle cosa si prova ad essere portatrice di una nuova vita... Non nego che mi sia venuto un colpo quando ho scoperto di avere un nipote, ma è stata l'ennesima prova di quanto poco so della vita della mia stessa sorella.
Quindi, quanto so di cosa veramente desidero?
Voglio davvero questo lavoro alla G - Corporation? Che ci guadagno da un conflitto generazionale tra un vecchio bavoso, un figlio ferito nell'orgoglio e un nipote taciturno?
Voglio davvero questa rivalità con mia sorella? Ha davvero senso ora che mio padre è morto? Ha davvero senso e basta? Non conosco nemmeno mio nipote... Più o meno. Ma questa è un'altra storia, che credo scriverò nero su bianco così da liberarmene definitivamente.
Voglio essere un pezzo di carne? Una femme fatale dalla vita vuota? Una semplice bambola di fine porcellana?
Insomma, facendo un resoconto della mia vita, le uniche persone di spessore che vi appartengono sono:
Un boss accigliato, posseduto, che odia suo padre, suo figlio, il suo fratellastro, l'altro suo fratellastro, un robot, quello scienziato allupato, il suo mercenario, una povera sottoposta, un orso, un panda, un canguro umanoide, un tronco di legno, la sua ex, la nipote della sua ex e penso anche quella ragazzina che sta dietro suo figlio...
Un nipote allupato, che si porta in giro un cuoco fallito e un gallone.
E lui, a cui non riesco ancora a trovare una collocazione precisa nella mia vita, ma ci appartiene e, se non fosse per quella strana mania per il colore viola, potrebbe anche avere un senso ai miei occhi. Ci sto perché entrambi odiamo i nostri fratelli e, bene o male, sto al gioco. Potrei definirlo, il mio rapporto occasionale più ricorrente.
 
Partiamo dal principio.
Ho preso a lavorare come collaboratrice di Kazuya Mishima quando ero una ventenne, quando aspetto e anagrafe andavano ancora d'accordo, per intenderci, eppure non sono mai riuscita a leggere quella piccola ruga che solcava il centro della fronte, generata dalle folte sopracciglia perennemente accigliate, sia per espressione sia per confarsi al baleno di malvagia follia che brilla nei suoi occhi fino ad arrivare al ghigno sottile della sua bocca impassibile. Non nego di essermi presa la mia bella sbandata al tempo.
E, quando per vezzo, portavo le scartoffie nel suo ufficio e mi chinavo per raccoglierle, mi guardava il culo con un certo interesse. Lo fa ancora, ogni tanto. E non so come sentirmi a riguardo, ad essere sincera: non è né il primo, né l'ultimo a farlo. Eppure, lo fa in un modo tanto discreto che non mi sento per nulla oltraggiata da quello sguardo, solitamente così accigliato e severo, che prende a scrutarmi in una maniera diversa dal solito.
Nei primi tempi, sfruttavo con la mia solita malizia questa sua piccola "debolezza" e, quando dovevo mostrargli in modo più ravvicinato una strategia d'azione, ricordo che poggiavo sensualmente la mano sullo schienale della sua poltrona, sfiorandogli debolmente la pelle da sopra tessuto di lino pregiato delle camicie che non esitava mai ad indossare; inarcavo la schiena in modo da non risultare sgraziata, con il peso del corpo concentrato su una delle anche, differentemente destra o sinistra in base alla mia posizione rispetto a lui; quella manovra era tale che il mio seno aderiva perfettamente all'incavo tra collo e spalla e la mia voce riusciva a soffiargli debolmente nelle orecchie, tanto che le mie labbra erano vicine. Ricordo che respirava profondamente ogni volta che parlavo. Lo faccio ancora, ogni tanto.
Credevo avremmo fatto sesso da un momento all'altro, ma tutto andrò avanti per talmente tanto tempo che mi dimenticai di vivere, ogni giorno, nell'attesa. La faida con mia sorella fu un ottimo diversivo, lo è sempre stato, in realtà, quindi non ci pensai ulteriormente.
Ad un tratto, prese a vestire esclusivamente di nero e non capii subito questa sua svolta cromatica, passandoci su ogni qual volta che il mio corpo fremeva alla consapevolezza di essere guardata, spogliata con gli occhi, desiderata; pensavo, nella mia testa, che il colore delle camicie non avrebbe avuto più importanza. Ci passai sopra anche quando scoprii che Kazuya aveva un figlio avuto da una donna del secondo torneo, quell'ecologista che vestiva solo di bianco e di nero, per specificare - forse - il fatto che, nella sua vita, esistevano solo due scelte da fare e un'unica strada da percorrere. Lei ha scelto la dannazione, per quel che mi riguarda.
Ah, ironia della sorte, il conflitto generazionale è salito a quota tre vertici con il figlio di Kazuya, che è salito a capo della Mishima Zaibatsu e ha una grossa taglia sulla sua testa, nonché il gene del male, come se fosse stato concepito dal diavolo. Altra ironia della sorte? Mia sorella lavora per lui.
Ma questa è un'altra storia.
Con gli anni che passavano e la scala del conflitto che diventava sempre più grande, il nostro smise di essere un rincorrersi nelle reciproche disinibizioni e divenne un rapporto strettamente professionale. Io non potevo avere alcuna pretesa nei suoi confronti, né volevo averla, quindi stetti alle condizioni, sebbene la tensione sessuale iniziasse a scemare. Gli rimasi completamente fedele, comunque, al punto che ho tradito la fiducia di una persona alla quale credo di tenere molto, anche se non so ancora in che particolare modo. Ho sempre fatto lo stesso anche con mio padre: nonostante il suo amore sconfinato per Nina, gli sono sempre rimasta accanto, amandolo incondizionatamente, piangendo davanti alla sua tomba.
Per l'ennesima volta, dunque, non sono stata ripagata.
Già, perché, nonostante tutto, c'era un dubbio che mi assillava da molto e dato che sentivo che Kazuya me lo doveva, gli feci una domanda con fare indiscreto, diretta come uno schioppo. Stavamo tornando al quartier generale in un'auto nera, grande, che sapeva del profumo che mette solitamente Kazuya, un odore inebriante che pareva quasi soggiogarmi; ero seduta di fronte a lui, che teneva gli occhi concentrati sul mondo vetrato che scorreva dal finestrino; non si accorse che lo stavo guardando con uno sguardo maliziosamente incuriosito, con la piega delle labbra leggermente verso l'alto e lo sguardo vispo, come quello di una procace adolescente che vuole sapere l'ultimo pettegolezzo.
"Dovrei farti una domanda" esordii, in un modo quasi smanioso, al punto che lo distolsi subitamente dalla sua prolifica contemplazione.
"Quale?" chiese, in modo un po' brusco, ma che si confaceva perfettamente al cipiglio accigliato che non perdeva mai, almeno davanti ai miei occhi.
La domanda riguardava una mia curiosità circa la natura del rapporto di Kazuya con quella donna dalla quale è nato Jin, il frutto del male, della carne e dell'amore, una convergenza talmente contraddittoria dal far credere che, in fondo, un sentimento reciproco di fondo doveva esserci. Non che fosse una curiosità scaturita da una qualche, nascosta gelosia, quanto piuttosto dal mio desiderio di comprendere perché il ricordo di quella donna lo turbasse così tanto.
Di questo ancora non me rendevo conto, comunque, quindi gli feci semplicemente la domanda, con fare civettuolo.
"Volevo solo sapere com'è che non ti sei rassegnato a fare il padre. Voglio dire, tuo figlio sembra ce l'abbia con te non solo perché l'hai condannato con la maledizione dei Mishima, ma anche perché hai abbandonato sua madre... Non è così?".
Lo incalzai a rispondere con un suono sommesso provenire spontaneamente dalla mia bocca, che somigliava vagamente a un "Mh" insinuante qualcosa che, in cuor mio, credevo di sapere.
Il mio sguardo era attentamente posato su ogni ruga, ogni fibra del suo corpo, per captare qualsivoglia esitazione che potesse rispondere al mio interrogativo, dissipare ogni curiosità. Ma Kazuya era impassibile come al solito, al punto che riprese a contemplare le luci caleidoscopiche e soffuse della città; fece solo crollare il peso del corpo sullo schienale in pelle nera, che cricchiò, e respirò profondamente, come esasperato.
"Non osare più fare tali insinuazioni" mi seccò lui, con lo stesso fare severo, brusco, quasi borbottante, che l'aveva caratterizzato sin dal primo giorno in cui lo incontrai.
Io, comunque, non mi scomposi, quindi decisi di abbandonare il mio corpo sullo schienale, facendo attenzione a non farlo scricchiolare per non turbarlo ulteriormente e, imitandolo, osservai quegli spicchi soffusi di luce riflettersi nei miei occhi come tanti fuochi d'artificio visti al microscopio.
Nei giorni e, dunque, negli anni successivi, per il fatto che non aveva voluto darmi alcuna risposta, rimasi nella mia ignoranza, in cui coltivai la teoria più ovvia, che Kazuya l'avesse abbandonata; in altri momenti, mi venne da pensare anche che l'avesse posseduta con la forza, ignaro di qualunque responsabilità; idee che si affastellavano confusamente su un interrogativo che non trovava risposta. Sapevo, comunque, che questa ragazza, Jun Kazama, era morta, uccisa da un'entità maligna, pianta solo dal figlio e dimenticata da Kazuya.
Ma io gli rimasi vicino anche in quel frangente.
E arriviamo, dunque, a oggi. Vorrei tanto essere nuda, ubriaca e nella macchina di uno sconosciuto perché quello che è successo ha dell'incredibile.
Neanche pochi giorni fa, hanno annunciato l'inizio del secondo torneo Tekken Tag (a cui, ovviamente, parteciperò con un degno alleato. Magari la mia sorellina è interessata. Paradossalmente, l'Aikido combinato con le sue discrete arti omicide sono un'ottima accoppiata) e i botteghini sono in subbuglio già da ora; non solo per il torneo, ma per un ritorno misterioso che mi ha lasciata esterrefatta. E sono poche le cose che riescono a turbarmi.
Convocata nell'ufficio di Kazuya, gli stavo esponendo l'ennesimo piano d'azione per sfruttare le pedine del torneo ai fini degli interessi della G - Corporation, al fine di gettare ancora più fango sulla Mishima, habitué insomma. Entrambi ci stavamo ascoltando con passività, senza trovare sufficiente stimolo al fine di rendere quelle macchinazioni cospiratorie un po' più interessanti; non dovevamo necessariamente fare sesso (non l'abbiamo fatto in tutti questi anni, figuriamoci ora), quindi ho deciso di ricorrere a un vecchio asso nella manica che rispolvero ogni tanto.
Quindi, mi sono posizionata strategicamente alle spalle dello schienale della sua sobria poltrona, rigorosamente di pelle nera, con la gambe sinistra in avanti per tenermi in equilibrio e concentrare il peso in modo che non sembrassi un'oca sgraziata, intenzionale anche per il fatto che il vestito scivolava in modo da mostrare un lieve lembo delle calze retate che mi piace indossare quando vado a lavoro, come quando la geisha desta piacere nel cliente che sta intrattenendo mostrandogli un barlume del proprio polso. Stavolta, però, ho quasi varcato un confine inesplorabile: le dita, che hanno sempre sfiorato la schiena da sopra il tessuto morbido delle sue camicie, stavolta erano poggiate sulle sue robuste, maschie spalle e le percorrevano, con disarmante lentezza, fino all'incavo del collo; lui era, però, impassibile, quasi disinteressato, ma del resto vi ero abituata e, sinceramente, non mi dispiace che reagisca in modo così discreto. Del resto, non sono sicura neanche che abbia più un cuore, un'anima umana.
Me ne sono accorta quando non ha reagito in alcun modo alle mie parole che sfioravano il suo orecchio, alle mie labbra dipinte di rosso scarlatto all'altezza dei suoi zigomi tesi e ai movimenti dei miei corti capelli castani appena pronunciati, in modo da solleticargli leggermente il volto imberbe. Ma lui non parlava nemmeno, non mi ascoltava, sembrava in allerta, come se si sentisse minacciato. E io ancora non capivo.
In un fatidico istante di silenzio, però, si è avvertito un urlo spaventato, attutito solo dalla porta e che quindi doveva venire dal corridoio che dà sull'ufficio di Kazuya. Pare che abbia detto: "Non si può entrare qui. Signore! Signore!".
Non ho fatto in tempo a mettermi in guardia che la porta si è aperta, cigolando lievemente, il che rendeva il tutto ancora più inquietante in una maniera suggestiva, come se uno spiraglio di luce stesse invadendo l'oscurità che perpetrava nel buio ufficio del capo della G - Corporation, nonostante le sfumature azzurrine e verdastre degli schermi dei macchinari presenti.
I miei occhi mettono a fuoco la figura di una donna, il cui bagliore rancoroso negli occhi tradisce un certo livore in un'espressione apparentemente calma, pacata, come in completa simbiosi con un mondo tutto suo e pieno di luce. Era quello strano alone di mistero che la rendeva affascinante perfino ai miei occhi, che altrimenti avrebbero visto l'ennesima donna asiatica sulla trentina, dai capelli color della pece e occhi scuri, che mi ricordano quegli insulsi, inespressivi, ma comunque beati, di Jun Kazama, la partecipante del secondo torneo che fece perdere la testa a Kazuya. Sarò narcisista, ma mi riesce difficile immaginare cosa lui possa averci trovato in lei, perché non era, a quei tempi, la stessa donna ferma sulla soglia della porta, a scrutare null'altro che il volto fermo, accigliato di Kazuya.
Non ho detto niente, forse ero addirittura incredula, ma le mie dita non erano più sulla sua spalla ed esitavano a ritornarci, come se sapessi che l'unico confine che mi era concesso valicare in sua presenza era stargli vicino, come un cane da guardia; avevo le spalle ritte e la schiena alta, eppure il mio volto era accigliato a propria volta, con le sopracciglia che quasi sfioravano le palpebre e solo uno spiraglio che si apriva tra le mie labbra, che volevano tremare (lo ammetto), perché in quell'infinitesimale istante, lei mi seguì con lo sguardo: ero intimorita non perché stavo palpando il suo ex amante, ma perché c'era davvero qualcosa nel suo sguardo che pareva lacerare ogni centimetro della mia carne, ogni ostacolo lungo il suo cammino, ogni insinuazione io o chiunque altro facessimo. Ero ancora più intimorita dal fatto che Kazuya era impassibile, come se sapesse già da tempo che sarebbe tornata.
"Anna..." esordì Kazuya, sepolcrale: "Vai fuori e aspetta direttive".
Esitai giusto il tempo di prendere un respiro e obbedire agli ordini del mio capo, chiudendo le mani in due pugni che, come ancore, gettavano metaforicamente ogni mia forza di volontà a terra, pronta a essere schiacciata dalle suole di colei che rappresenta la vera e, forse, unica debolezza di Kazuya Mishima.
Ed eccomi qui, a casa. Questa bella casa, finanziata da un conflitto generazionale. Questa bella casa arredata riccamente, ma dal frigorifero perennemente vuoto. Il suo brusio, inoltre, è un sadico tentatore, che custodisce la mia bottiglia e me la sta offrendo su un piatto d'argento, pregandomi di scolarla tutta d'un fiato, ripensando a quanto sia stronzo il mio capo, a quanto sia ingrato, a quanto sia folle... Bevendo un bicchiere ad ogni sua ignobile qualità. E, credetemi, una sola bottiglia non sarebbe sufficiente. E nemmeno due, credo.
Se ci fosse mia madre, mi direbbe sicuramente di lasciare questo sporco lavoro, di dedicarmi alla pratica dell'Aikido da professionista magari, di trovare finalmente un uomo che possa riempire quella parte di cuore che nessuno, nemmeno mio padre, ha potuto colmare in modo da farmi sentire viva, libera, meno rancorosa nei confronti di tutti, specie di mia sorella. Alla fine, non me ne importa né di G - Corporation né di Mishima Zaibatsu, né del Gene Devil, né di quegli stupidi conflitti generazionali che ci condurranno dritti all'Apocalisse: l'unica mia ragione di vita è rendere impossibile la realizzazione della felicità di mia sorella.
Vivere così fa ancora più schifo, quindi risponderò sempre e solo sì alle direttive di Kazuya, che brillano sul mio display e mi avvertono che è ora di mettersi all'opera.
Ricordati che mi devi tutto, Mishima.

 

 
 
 
 
 
 
 
Altre due chiacchiere dell'autrice.
 
E questo è il rapporto che intercorre tra Anna e il primo - non letteralmente - uomo della sua vita: il suo boss, che la pagherà pure una miseria (nella mia testa, Kazuya è un gran taccagno) e non vuole soddisfare gli appetiti sessuali di questa povera donna, ma che rappresenta un punto fermo nella sua vita, in qualche modo.
Dunque, rigiocando a Tekken Tag Tournament II in questi giorni, ho messo come Tag Pairing Anna e Kazuya (andando contro la mia fedelissima e fortissima KazuyaJun) e una loro interazione prevedeva una sorta di ballo sensuale della procace Anna dinanzi a un'impassibile Kazuya, che comunque sembra continuare a scrutare le movenze del corpo animato a perfezione dagli animatori pervertiti. E qui è scattata la scintilla: ora, nonostante io sia una fedelissima sostenitrice del Kazujun, mi ha intrigato pensare a cosa potesse esserci dietro il classico rapporto professionale tra Anna e Kazuya, minato - oltre che da evidenti instabilità mentale da parte di entrambi - dall'odio nei confronti della sorella da parte di lei e l'odio nei confronti del mondo da parte di lui, ma anche la presenza silente di Jun Kazama, ex amante del bel Mishima, che rappresenta - ad oggi - davvero la sua unica debolezza (pensate al finale di Tekken 5, dove non esita un istante a squarciare la gola al tanto amato nonno Jinpachi. Insomma, per tutte le volte che l'ha avuta davanti, Kazuya non l'ha sfiorata di un centimetro... Magari, lasciate perdere Unknown), l'unico spiraglio che lo tiene legato alle poche briciole d'umanità rimaste.
E, prima di Tekken Tag Tournament II, ho ipotizzato anche un possibile incontro tra Mama Kazama e il Boss della G - Corp perché, poi, l'incontro sul campo di battaglia era troppo un cliché e Kazuya non è così debole da lasciarsi intenerire da uno sguardo dolce e un paio di tette (che ti fanno il culo, però) e, già che ci siamo, mettiamoci in mezzo pure Anna, l'unica donna con la quale sia stato visto Kazuya dopo Jun (se escludiamo, tutte quelle che uccide, ha ucciso, ucciderebbe). In quest'incontro, non ho ancora le idee chiare su cosa possano dirsi Jun e Kazuya, quindi l'ho lasciato volontariamente sospeso, dato che avrei potuto tranquillamente scriverlo (Orecchio alla porta, un po' di licenza creativa e magia da fanwriter e si va sicuri!).
 
Ad ogni modo, il prossimo capitolo sarà incentrato su un incontro fortuito che Anna avrà con il suo nipote preferito. Ricordiamoci che lei è consapevole della parentela... Lui, credo proprio di no.
 
Alla prossima and get ready for the next chapter!
   
 
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