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Autore: Some kind of sociopath    06/08/2014    2 recensioni
Anno 1769: Haytham E. Kenway, dopo il suicidio dell'amico Jim Holden e la morte della sorella Jenny è tornato a Boston alla ricerca di Tiio. Lei è sopravvissuta all'incendio del villaggio, nonostante il figlio non lo sappia, e Haytham ha intenzione di ricucire la sua famiglia, quella che non è riuscito ad avere nella propria gioventù. Ma non ha messo in conto gli altri Templari, il suo vecchio Gran Maestro Reginald Birch e la piccola e fastidiosissima Confraternita degli Assassini...
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Il testo dei primi due capitoli è stato rivisto e modificato. Mi farebbe piacere sapere che cosa ne pensate al riguardo e quale "versione" preferite, ;)
 
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Achille Davenport, Altro personaggio, Connor Kenway, Haytham Kenway
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
Capitoli:
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Good morning, mama,
You know I’m going down this big road by myself.
Good morning, mama,
Oh, I can’t wait to go to the place of the damned.
– Raphael Gualazzi, Welcome To My Hell.
 
«Se tu fossi più intelligente, magari avresti sogni più intelligenti.» (Mastino)
– Joe Abercrombie, Il sapore della vendetta.
– Cazzo, che male!
Roteai gli occhi, affondando nuovamente gli speroni nei fianchi del cavallo che affondava fino alle ginocchia nella neve. – Piantala di lamentarti, Thomas – esclamai esasperato. – Già c’è questo maledetto tempo a rompere i coglioni, ti ci metti anche tu?
Dalla prima mattina aveva cominciato a nevicare, ma sembrava che nell’entroterra della frontiera non avesse mai smesso. Fiocchi di neve grossi come noci ma decisamente più leggeri danzavano attorno a noi nell’aria densa di vapore e imprecazioni. Thomas cavalcava quasi sbracato, i palmi delle mani premuti sulle tempie per scacciare il mal di testa. – Per te è facile parlare! – ringhiò, fulminando tutti con un’occhiata assassina. – Non ti sta esplodendo il maledetto cervello. Cazzo.
Lanciai una parolaccia a mezza voce e smontai da cavallo. Quella dannata bestia, presa da una delle scuderie pubbliche di Boston per quasi cinquanta sterline, non voleva saperne di andare avanti, quindi avrei dovuto strattonarla a forza o abbandonarla lì, e la strada verso New York era ancora troppo lunga. – Diavolo – brontolai affondando gli stivali nella neve con un gradevole scricchiolio. – Non potevamo prendere una nave?
Dal suo cavallo, un enorme destriero nero che doveva essere nato per la guerra, London mi scoccò un’occhiata bieca. – Con questa tempesta? Fammi il piacere. – S’affrettò a voltarmi le spalle per dare di sprone, ma continuò a blaterare. – Avremmo speso un sacco di soldi per convincere il capitano ad arrivare prima, quindi saremmo rimasti bloccati in mezzo al mare per il vento. Magari finiti in qualche secca, e sarebbe stata la fine. Per non parlare dei pirati. – Mi corsero i brividi lungo la schiena al ricordo di quel Perez e della sua dannata ciurma di ammutinati. Come se il freddo non fosse già abbastanza pungente. Raffiche gelide penetravano le carni come coltelli affilati, s’insinuavano sotto i cappotti e rendevano gli uomini rigidi e insofferenti, me compreso. Dall’ultima sosta, avvenuta poche ore prima per un misero pranzo, London aveva assunto un brutto colorito giallastro, malaticcio, ma faceva del suo meglio per proseguire. Avevo visto tanti uomini crepare per i venti gelidi che spiravano dal mare del Nord, ma di certo non sarebbe andata così. Almeno finché l’Assassino non fosse sceso da cavallo, motivo per cui London restava ben saldo in sella, lasciando che gli enormi zoccoli dello stallone facessero il lavoro sporco per lui.
Chiunque ci avesse incontrati, persino una giubba rossa, ci avrebbe lasciato passare senza troppe preoccupazioni, poiché sembravamo più che altro un disperato trio di mendicanti: Thomas che imprecava senza sosta, governando il destriero solo con lievi spinte dei talloni, London, preoccupato solo di stringere i denti per arrivare alla fine della cavalcata, e io, a chiudere il corteo trascinando il cavallo come in una commedia di quart’ordine. Probabilmente neanche dei banditi avrebbero mai pensato di farci del male. “Perché, questi hanno dei soldi?”, avrebbero pensato, e avrei dato loro ragione.
La grande Confraternita degli Assassini in tutto il suo splendore, signori e signore. Ricordavo bene il momento in cui mi avevano salvato dalla forca, caricandomi su un carro con grande organizzazione e rapidità, ma già allora, dall’insolito numero di uomini persi in quel maledetto salvataggio, si potevano scorgere le prime falle nell’organizzazione. Reginald mi aveva istruito sulla storia degli Assassini, e avevano avuto i loro periodi di splendore, come in Italia, per esempio, o alle radici della loro cultura, in Oriente, a Masyaf. C’era stato un declino costante e inarrestabile, da allora, costellato di stragi, uomini morti, altri reclutati e uccisi in squallide missioncine destinate a portare Washington esattamente dov’era ora, a capo dell’Esercito Continentale. Come se fosse servito a qualcosa. Come se potesse mai servire a qualcosa! Maledetti imbecilli.
– Quanto manca? – ansimai scrollando gli stivali coperti di neve. Un po’ d’acqua gelida scivolò lungo la calzatura, facendomi irrigidire ulteriormente i piedi per il freddo. – Sapete, mi hanno già amputato un dito, dover farmi mozzare anche un piede andato in cancrena per questa cazzo di neve mi sembra un po’ troppo.
London sospirò, rizzandosi appena sulle staffe per vedere qualcosa oltre quel muro interminabile di alberi scheletrici. Il cielo, di un grigio così candido e pesante da sembrare bianco, era un tutt’uno con il suolo, e quei tronchi spiccavano come macchie su un foglio di carta intonso. Anche notare noi sarebbe stato piuttosto facile, ma non interessavamo a nessuno. Sarebbero venuti a cercarci solo per consegnarci personalmente la medaglia al valore per l’idea più stupida del mondo, e avrei indicato loro London, in quanto unica mente pensante e guida durante il viaggio. Che si tenga la medaglia. Io sono un tipo modesto. – Abbiamo guadato il Connecticut un’ora fa. Siamo quasi a metà strada.
Il sole, una macchia indistinta nel cielo, stava già cominciando a calare verso ovest, dritto davanti a noi. – E meno male! – strepitò Thomas, sputando a terra. – Non ce la faccio più. Dio! Sono ore che cavalchiamo in questa cazzo di terra senza incontrare una sola anima, e io sto morendo dal…
– Se pensavi di incontrare puttane anche qui, Hickey, hai sbagliato viaggio. – Il tono di London era acido come non mai, e sputò quelle parole contro Thomas voltando solo il capo nel guardarlo.
– Prova a ripeterlo e ti apro il culo! – gridò Thomas in risposta con immotivata aggressività. – Vorrei vedere te, con questo cazzo di male…
– Avevi solo da bere meno.
– E tu avresti solo da bere di più, coglione!
– Thomas! – sbottai senza riuscire a trattenermi. – Vuoi piantarla? Piantatela tutti e due. Gesù, mi sembra di andare a passeggio con due ragazzine. Litigare non serve a niente. Portiamo a termine questa faccenda e torniamo a Boston in attesa di notizie. – Scoccai istintivamente un’occhiata di intesa a Thomas. Durante una pisciata appena oltre il fiume Charles gli avevo riferito tutte le bugie raccontate a London.
Mi aveva risposto grugnendo e continuando a bestemmiare. Non avevo saputo bene come prenderla, ma mi fidavo più di lui che del bastardo incappucciato che ci precedeva. Ho per caso scelta? – Ci servirà un ponte, giusto? Siamo ancora troppo a nord – dissi per rompere il ghiaccio. La lettera del generale Cornwallis, ancora intatta e sigillata, pareva pesare nella tasca interna della redingote, all’altezza dello stomaco. – Chissà se Tyler ce l’avrebbe fatta.
Hickey arricciò le labbra. – Non sarebbe riuscito nemmeno a mettere piede fuori Boston senza farci beccare o essere sbranato da un puma, te lo dico io – sussurrò così che solo io lo sentissi. E meno male. Allora non sei del tutto stupido, Tom.
– No. Useremo una lancia e percorreremo il fiume verso sud, fino al forte.
Sbuffai e scoppiai a ridere per quel ridicolo abbozzo di piano. Persino Connor – Connor, buon Dio, non so se mi spiego – avrebbe escogitato qualcosa di meno patetico. – Uhm, quindi utilizziamo un’imbarcazione per un tratto che potremmo percorrere agevolmente a cavallo e ci facciamo il culo per miglia e miglia attraverso mezzo metro di neve. Che logica incrollabile.
Thomas ridacchiò e London volse appena il viso verso di me, fulminandomi con un’occhiata bieca, la cornea giallastra e iniettata di sangue. – Preferisci fartela a nuoto? – sibilò acido, tornando immediatamente a guardare dinanzi a sé. – Io non ho alcun problema in proposito, Kenway. – Emise un lento sospiro e il fiato si condensò in una nuvoletta candida come la neve che ci circondava, poi allungò il collo verso l’orizzonte, stringendo le redini tra le dita. – Non è questo il momento di discutere. Il sole tramonterà e voglio arrivare all’Hudson il prima possibile. Con questo tempo… – si strinse nel cappotto, tremando come una femminuccia.
Feci schioccare la lingua con scherno. – Andiamo, London! – esclamai montando sul cavallo mentre grosse gocce di neve sciolta scivolavano lungo il mio polpaccio, allagando gli stivali. Alla faccia della qualità britannica. Lo raggiunsi al passo: il suo sguardo vagava sospettoso all’orizzonte, alla ricerca di qualche grana da evitare o della strada più agevole. Strizzai gli occhi, cercando di distinguere qualcosa all’interno di quel maledetto tappeto bianco e senza fine. Maledetta neve. – Non mi dirai che hai paura di qualche brigante.
Non si voltò nemmeno a fucilarmi con lo sguardo. Un po’ offensivo, da parte sua. – Non sono i briganti a preoccuparmi, dato che in tre portiamo addosso più armi di un intero manipolo di soldati, è la neve. Non mi sembra che tu sia esattamente il miglior cavallerizzo dell’Esercito Britannico, Kenway. – L’angolo della sua bocca si sollevò appena, e per una volta fu lui a schernire me.
Per sua fortuna, non sono mai stato un uomo permaloso. Sospirai, chinando lo sguardo sugli zoccoli del cavallo. London aveva ragione. Solo chi aveva percorso in lungo e in largo quelle lande desolate poteva rendersi conto di quanto il terreno fosse impervio e insidioso. Io stesso, durante la spedizione di Edward Braddock, ero caduto da cavallo in più occasioni, sbalzato in avanti ogni qual volta quella dannata bestia inciampava in una radice o un sasso più grosso degli altri. Inoltre, be’, non riuscivo a condurre un ronzino senza doverlo ridicolmente trascinare per le redini, al contrario di Tom, che sembrava quasi spassarsela. Governava il proprio destriero facendo solo una lieve pressione con le ginocchia sui fianchi, il tutto mentre si dedicava alla propria attività preferita, ovvero continuare incessantemente a lamentarsi per quel maledetto mal di testa. Almeno può tenere le mani in tasca. Avevo trovato un paio di guanti mozzati alla locanda, ma nonostante ciò il freddo aveva reso le mie dita insensibili e il mio umore più irritabile che mai. Stringevo la mascella così forte da non percepire nemmeno il tremore dei denti. – Aumentiamo il passo – stabilì London affondando gli speroni nei fianchi dell’animale.
Lo imitai d’istinto, e immediatamente quel dannato cavallo partì al galoppo verso ovest, verso il sole, come se non ne potesse più di arrancare nella neve e avesse bisogno di liberarsene, di scalciarla via in una fontana di goccioline ghiacciate, esattamente come stava facendo. La nuvola bianca ricoprì ulteriormente Thomas di neve, facendogli lanciare contro di me un altro paio di bestemmie. Mi sarebbe piaciuto rispondergli a tono, ma ero troppo impegnato a serrare le dita attorno alle usurate cinghie di pelle e a evitare di essere lanciato oltre il collo della cavalcatura. Abbassai lo sguardo sulla neve che schizzava via da sotto gli zoccoli mentre il vento gelido e i fiocchi grossi e vaporosi colpivano le mie guance senza pietà, facendomi lacrimare gli occhi e battere i denti con più forza.
Qualche poeta da strapazzo – o forse gli stessi Assassini – avrebbe scritto nelle sue fottute memorie che la sensazione provata in groppa a un cavallo lanciato attraverso la frontiera, più veloce del vento, era una sola, inequivocabile e sacrosanta: libertà, nella sua forma più pura.
Be’, non prendete mai per vere le parole dei poeti. È vero che la sensazione provata in groppa a un cavallo lanciato attraverso la frontiera, più veloce del vento, era una sola, inequivocabile e sacrosanta: panico, ecco di cosa si trattava. Nella sua forma più pura. Un terrore animale e istintivo che serrava le viscere e asciugava la lingua, oltre ad aumentare incredibilmente la voglia di pisciare. Tutto quell’essere sballottato su e giù dalla sella mi faceva sentire come se la vescica stesse per esplodermi. E provocava anche un gran male ai gioielli di famiglia.
Thomas Hickey mi affiancò quasi immediatamente, continuando a inveirmi contro, le redini strette in una sola, nuda mano e il cappello sventolante nell’altra. – Figlio di puttana, non crederai di essere più veloce di me!
È già tanto se credo di poter arrivare vivo al tramonto, maledetto stronzo. – Ti faccio vedere io chi è Thomas Hickey – dichiarò con la mascella serrata, calandosi teatralmente il tricorno sul capo. Affondò gli speroni nel fianco dell’animale, e se devo essere franco ammetto che non poteva importarmi meno di chi fosse arrivato prima a… a cosa, eh? Se London pensava davvero di farci attraversare un altro centinaio di miglia in poche ore, si sbagliava di grosso. Sapete, non esistono solo i bastardi fortunati come lui. Ci sono anche quelli che devono trascinare il cavallo attraverso la neve.
Thomas, completamente teso sul collo della cavalcatura, era proprio sul punto di superarmi. Non capisco perché avesse tanto a cuore queste stronzate, ma era sempre Hickey, per cui avevo smesso di pormi domande sulla sua moralità o i suoi bislacchi modi di fare. Agisse come gli pareva. Bastava che non mi spezzassi l’osso del collo.
– Cazzo! – lo sentii gridare, e per poco non caddi da cavallo: vidi solo un grosso ramo nodoso davanti alla faccia, e feci appena in tempo a piegarmi, aggrappato ai finimenti e con il cuore che batteva forte in gola.
Mi voltai, il respiro affannato. Tom non era stato altrettanto rapido. O meglio, era riuscito a schivare il ramo, ma aveva strattonato le redini con troppa forza e gli zoccoli del suo cavallo slittavano sullo strato di neve compatto – quasi ghiaccio – come i piedi di un pattinatore inesperto. Bastò poco per sbalzarlo giù dalla sella, mollemente trascinato in mezzo alla neve, con un piede infilato ancora nella staffa e le braccia raccolte per proteggere la testa. Gesù, credevo che Thomas sarebbe morto, ma dovetti benedire quella soffice coltre di neve, altrimenti uno dei miei uomini – un altro – a quest’ora avrebbe già usato il suo permesso speciale per l’ingresso nell’altro mondo. Maledetto imbecille, lui e il suo orgoglio.
Strattonai le redini lentamente, non avendo alcuna intenzione di fare la sua stessa fine, e lasciai che il cavallo rallentasse pochi passi dopo. Dovevamo aver percorso un miglio, o uno e mezzo, ma la strada per l’Hudson era ancora lunga, decisamente lunga. Vidi London raggiungere Thomas e dargli una mano mentre facevo del mio meglio per obbligare il cuore a rallentare. Tremavo come una foglia e avevo lo stomaco in subbuglio, quindi i miei compagni di viaggio non si stupirono trovandomi piegato in due a vomitare la misera colazione di quel mattino in un cespuglio d’arbusti coperti di neve. – Capo – grugnì Tom con una mano alla fronte. Nonostante tutto, doveva aver preso una bella botta, e dall’attaccatura dei capelli ruscellava una lenta striscia di sangue. – Tutto bene?
– Magnificamente – sibilai reclinando il capo. Idiota. – Dio mio, London, sei sicuro che non fosse tutto un complotto per ammazzarci lungo la strada?
L’Assassino scrollò le spalle senza degnarmi di una vera risposta e diede una pacca sul fianco del destriero scuro come la notte, guardandosi intorno. – Dobbiamo avanzare fino al tramonto, almeno. Non abbiamo tempo da perdere.
Thomas sbuffò. – Si può sapere che cazzo di fretta hai? – sbottò poggiandosi con noncuranza al tronco di un albero. – Gli inglesi non hanno alcuna intenzione di liberare il nostro vecchio amico Charles, quindi direi che possiamo prenderci un po’ di…
– Non voglio correre rischi – gli abbaiò contro London.
Scoppiai in una roca risata, indicando con un cenno prima me stesso e poi Hickey. – Tu non vuoi correre rischi. Io e quest’altro idiota potremmo anche spaccarci tutte le ossa e morire orribilmente precipitando giù da un burrone, a te non potrebbe fregarne di meno. – Mi passai una manica sulla bocca, tirandomi su ed evitando di scorgere la macchia di vomito giù, in mezzo ai rami secchi. – Anzi, forse non aspetteresti altro. È stato un incidente, Connor. Ad Achille potresti anche non dire niente e brindare semplicemente con lui, che bella scenetta da famiglia felice.
Sospirò amaramente. – La vuoi smettere, Kenway? Voglio soltanto riportarvi a Boston, dove posso tenervi d’occhio senza impazzire o rischiare di finire con una lama nel collo.
Hickey scoppiò a ridere alle sue spalle. – Un colpo di genio, Assassino.
L’altro roteò gli occhi, guardandoci come se avesse a che fare con dei casi disperati. – Montate in sella. Non voglio diventare cibo per lupi qui, in mezzo al niente.
– Concordo – dissi mentre m’avvicinavo barcollando al mio cavallo. – Meglio un bel colpo di moschetto in pieno petto da qualche simpatico soldato britannico.
London scosse la testa con rammarico e lasciò che ricominciammo il viaggio al passo.
 
Iniziavo a pentirmi di aver dato retta a Cornwallis, a dirla tutta.    
La neve, che era stata abbondante e soffice per tutta la giornata, si era velocemente trasformata in una pioggerella fina e fastidiosa, di quella che impregna i vestiti e li appiccica al corpo, rendendoti difficile ogni movimento, provoca dolorosi spasmi al collo e fa gocciolare il naso come neanche la peggiore delle influenze. Il cielo e la terra si confondevano tra loro, trovare quale fosse più grigia e cupa era un’impresa, e se il nostro umore non era stato un granchè con la neve, provate a immaginarlo con la pioggia. Con quella dannatissima pioggia.
Non sapevamo quanto avessimo percorso, ma il sole non si decideva a tramontare – Cristo santo, sembrava che il tempo si fosse fermato –, quindi continuavamo ad avanzare imperterriti verso ovest, senza seguire i sentieri, aggirando le colline quand’erano troppo scoscese e superando quelle più basse e dai declivi dolci al trotto. London apriva il gruppo, ma sapevamo tutti che certe volte era confuso quanto noi, in quella landa desolata. Si guardava intorno, tirava su col naso, cercava di trovare il sole basso nel cielo e riprendeva la marcia dando una scrollata alle redini. – Amico – gli dissi a un tratto, – sei sicuro che l’ovest sia da quella parte?
Ecco, già Thomas aveva cominciato a sogghignare. Rovinava sempre tutto. – Kenway – sbuffò l’Assassino in un lamento, – piantala. Quello è l’ovest.
– Be’, mi piacerebbe essere d’accordo con te, ma non riesco a vedere il sole. Dov’è? – Mi portai con il cavallo accanto al suo, una mano sugli occhi per schermarli dalla pioggia e sfotterlo ulteriormente. – Questo posto è disorientante.
– Già. – Mica mi disse dove stava il sole, però. – Kenway, questo è l’ovest. Ne sono sicuro. E comunque ci fermiamo tra poco. – Tirò su col naso e socchiuse gli occhi, esausto. Sembrava ancora più malaticcio di quando eravamo partiti, e non c’era di che biasimarlo. Quel tempaccio avrebbe potuto mettere a terra un intero reggimento dell’Esercito Britannico. Non sono mai stato cagionevole, ma devo anche ammettere che le marce nella repubblica olandese mi avevano rafforzato, in qualche modo.
Anche Thomas se la cavava piuttosto bene. Si lamentava per le piaghe da sella circa ogni tre minuti, sputava costantemente a terra e malediceva ogni uomo, donna e bambino che camminasse ancora sulla terra, ma almeno gli erano passati i postumi della sbornia. Altrimenti, Dio!, forse sarei stato anche capace di ammazzarlo con le mie mani.
Stavamo attraversando un tratto di frontiera identico a tutti gli altri e il buio era già calato da una buona mezz’ora quando trovammo il posto perfetto per fermarci a riposare.
– Porca puttana! – Forse dovrei dire che lo trovai.
Gli zoccoli di quella dannata bestiaccia scivolarono su un mucchietto di neve inumidita, ma non sciolta del tutto, e l’animale prese a slittare per qualche metro sul terreno fangoso. Strattonai le redini, quasi in preda al panico, ma quello rispose con un sonoro nitrito e un calcio che per poco non mi sbalzò via dalla sella. Ripoggiò le zampe a terra, continuando a scorrere in avanti mentre il mio cuore batteva come un mendicante senza speranza contro le porte di Westminster, e un attimo dopo affondava fino al fianco nel terreno.
Credevo che la gamba sinistra quasi esplodesse per il dolore. Non era affondato nel terreno, no, magari. Ci avrei ricavato solo una dannata macchia sui calzoni, niente di più. No. Quel dannato bastardo aveva trovato una grotta, una spelonca o un riparo roccioso di qualche tipo.
Come lo sapevo? Be’, avevo il polpaccio schiacciato tra una parete di roccia tutta spuntoni e il corpo scalciante del cavallo, che non la smetteva mai di muoversi e fare pressione. Fu l’unico pensiero razionale che riuscì a conferire, prima di mollare le redini, serrare la presa intorno al ginocchio ed esplodere in un urlo da ragazzina.
Non fate quelle facce. Diavolo, se faceva male. – Che succede? – Non mi stupii nel sentire il tono noncurante di London, maledetto bastardo. Si voltò a guardarmi sprofondare nella terra con lo stesso stupore di un porcaro davanti all’ennesima cagata fresca. – Cosa stai...
– Mi annoiavo – ringhiai tra i denti, le dita spasmodiche strette sul ginocchio per cercare di strattonare la gamba via da quella dannata fossa. – Maledizione. – Sentivo la fronte imperlarsi di sudore freddo. Mentre London mi fissava in un critico silenzio, mi parve quasi di udire il sangue stillato dalla mia gamba ferita schiantarsi sul fondo roccioso delle frotta. Un suono nitido, fermo e privo di eco, ritmico e regolare. La caverna non era un pozzo, dunque. Che fortuna, diavolo!, maledettamente interessante. Gesù. – Hai intenzione di tirarmi fuori di qui?
L’Assassino aggrottò la fronte, smontando da cavallo e avvicinandosi con la consueta calma. Immagino si divertisse molto, quell’imbecille. Per una volta, ero completamente alla sua mercè, impotente. Quando sarebbe capitato di nuovo? Se i ruoli fossero invertiti, gli avrei già pisciato addosso o minacciato di abbandonarlo lì. Questi qui sono troppo seri. I miei simpatici pensieri sugli Assassini furono interrotti da un altro spasmo che mi fece agitare convulsamente il polpaccio, portando ancora dolore. Emisi un sommesso gemito tra i denti mentre London pestava i piedi lungo il bordo sporco di neve fangosa della fossa. – Come ci sei finito, Kenway?
Roteai gli occhi, colto dal nervosismo, mentre le palpebre cominciavano a tremolare sugli occhi lucidi. Mi morsi il labbro, cercando di controllare gli spasmi e il dolore nello stesso tempo. Non avrei mai voluto mostrarmi debole davanti a un membro di quella dannata Confraternita, ma il destino pareva avercela con me. – Vuoi darti una cazzo di mossa? Non posso mica restare qui per sempre. – Anche se ti piacerebbe, ci scommetto.
– Diavolo, capo! – Thomas sbucò da dietro gli alberi scoppiando a ridere, tutto intento ad agganciarsi la fibbia. – Se volevi cagare bastava andare dietro un albero, non era il caso di cercare addirittura una latrina. – Rideva come un matto, quasi piegato in due, totalmente rilassato, grattandosi la testa mentre si guardava attorno alla ricerca del suo cavallo.
– Questa latrina – ringhiai, sforzandomi di sembrare calmo, – potrebbe essere un buon riparo. – Fitte irregolari di dolore continuavano ad attraversarmi il polpaccio dall’alto verso il basso e viceversa, le dita dei piedi già assiderate e contratte per i crampi. – Muovetevi a levare questa bestiaccia e tiratemi fuori. – Infilai faticosamente le dita tra la gamba e la roccia, sfiorando con un singulto la carne viva e agitando le dita insanguinate verso di loro. – Credevate urlassi perché mi mancavate? Sto quasi più comodo qui che su questo dannato cavallo!
London scrollò le spalle. – Be’, allora non ti dispiacerà se ti ci lasciamo – replicò. Reazione un po’ tarda, ragazzo, ma è un passo avanti.
– Fottiti! – strepitai mollando un calcio al cavallo con la gamba sana. – Quale dannato bastardo abbandona un compagno ferito, eh?
Thomas continuò a ridere e si aggiustò il cappotto sui fianchi, come un damerino invitato al più importante ballo dell’alta società. Invece eravamo solo tre poveri idioti in mezzo alla neve. Lo vidi portare il braccio dietro la schiena per estrarre una spada. A dire la verità non era proprio una spada normale o una sciabola. Non avevo mai visto niente del genere. La lama era larga e curva, apparentemente pesante e affilata solo da un lato. Avrebbe potuto mozzare la testa di un uomo, quella roba. O una gamba. Un brivido corse lungo la mia schiena mentre Hickey allontanava London con un colpetto sul torace e alzava la spada sopra la testa. Sollevò un angolo della bocca nel suo ghigno sbilenco. – Mi spiace, capo – grugnì. Lo fissai con tanto d’occhi, incredulo. Troppo atterrito per chiedergli cosa stesse per fare.
– Hickey, mettila giù – sibilò London per me. – Hickey.
– È solo un peso! – Sembrava parlasse di una sacca troppo pesante per essere trasportata agilmente. Era scocciato, noncurante, spietato. E io che mi ero fidato di lui. In quel momento un capo gli avrebbe fatto il culo, urlato che era un traditore e sarebbe dovuto marcire all’inferno, ma io non ci riuscivo. Niente di personale. Non avevo più voglia di gridare contro le persone. Volevano tradirmi, uccidermi, abbandonarmi a sporcare la neve di sangue? Che lo facessero, maledizione! Almeno tutto quel dannato tormento sarebbe finito, e forse almeno dei morti mi sarei potuto fidare ciecamente. – Lo tireremo fuori da quella buca, ci serve un riparo. A pezzi sarà più facile.
Poggiai su di lui uno sguardo stupefatto, nonostante tutto. Le mie palpebre ripresero a fremere per la paura. – Mi spiace, capo – ripeté, e la lama calò veloce come un lampo.
D'istinto girai il capo e serrai gli occhi, le palpebre tremanti strizzate in attesa del dolore.
 
La grossa spada affilata affondò nella carne e una fontana calda e appiccicaticcia investì il lato destro della mia faccia e del mio corpo. Ruscellava verso il basso inzuppando i miei abiti, ma non faceva male. Non ancora. Succedeva, in certi casi, il dolore impiegava un po’ più di tempo a raggiungere tutte le parti del corpo. Probabilmente sarei morto lì, dissanguato, con mezza gamba – Thomas non poteva avermi mozzato nient’altro – in meno, gemendo come un maiale sgozzato. Forse me lo merito.
– Gran brutta macchia. Sarà difficile da mandare via, quella.
Mi accorsi di respirare quasi tranquillamente. Sudavo a profusione. Perché cazzo non fa male? Da quando in qua non fa male, diavolo? Obbligai le palpebre a sollevarsi e vidi Thomas e London intesi a sollevare qualcosa da sopra il mio cavallo. – Dio, quanto pesa! – gemette l’Assassino, affaticato. Tom rispose con una risatina, tirando con violenza le redini verso di sé e facendo scivolare il capo della bestia via dal collo con altri schizzi di sangue.
Facendo scivolare il capo via? – Oh, porca puttana. – Gli aveva mozzato la testa, e la mia gamba destra giaceva integra sull’altro fianco dell’animale, oltre il gigantesco squarcio, i calzoni macchiati di rosso in tutta la loro lunghezza. Dal collo del destriero – se ancora poteva essere definito tale – sgorgavano fiotti di sangue lenti e inarrestabili, le ossa recise di netto quella maledetta arma. – Hai… – Deglutii a fatica per non vomitare. Diavolo, avevo ammazzato Dio solo sa quante persone e per poco non rimettevo davanti a un cavallo decapitato. Un cavallo, perdio. Ma, a mia difesa, era sempre diverso trovarsi dall’altra parte di una spada, e la strizza coglie tutti, senza distinzioni. – Avresti un futuro nella macelleria, se mai questo lavoro ti scoccerà, Thomas.
– Grazie, è un onore. – Scagliarono la testa pochi passi più in là, afferrando l’animale per le zampe prive di vita. – Te la sei fatta sotto, eh? – Fu tanto gentile da non pretendere una risposta. – Leva ‘sta gamba di mezzo.
Abbassai lo sguardo, percorrendo i miei indumenti macchiati di sangue. Un’altra redingote da buttare. Sul dorso delle mie mani erano dipinte piccole costellazioni rosse, i respiri erano dei rantoli affaticati e secchi. Il sangue non mi aveva mai fatto paura o impressione, era il panico per l’essere stato tanto vicino alla fine a stringermi le viscere in una morsa. Essere ucciso da un uomo che si chiamava amico fino a pochi minuti prima non mi pareva esattamente uno spasso. Cominciavo a capire come si fosse sentito il vecchio William, ma quel bastardo era pazzo. Non penso mi ritenesse ancora un amico.
E poi se l’era cercata. Quel pensiero mi stupii: da quando Johnson era morto avevo sempre evitato di rammentarlo, un cadavere sepolto sella frontiera come chissà quanti altri, ma alla fin fine era ciò che credevo davvero. Lui se lo meritava.
Mi venne quasi da ridere. William Johnson meritava la morte per avermi sbattuto in faccia la verità, ma le mie azioni – non verso l’Ordine, non verso qualcuno in particolare, colte nel loro insieme – potevano davvero essere ritenute meno riprovevoli? Tutti quei morti nella repubblica olandese, le guardie di Bridewell, Miko e tutti gli altri uomini uccisi per conto di Reginald… Davanti alla lista delle mie malefatte Thomas Hickey avrebbe potuto scrollare le spalle, ma qualsiasi uomo appena più onesto non avrebbe esitato a darmi un calcio nel culo per spingermi verso i gradini del patibolo.
– Che è, ti stai adattando? – Sentii il piede di Tom spintonarmi sul fianco. – Mi sembrava di aver capito che volessi uscirne.
Mi riscossi da quei macabri pensieri e obbedii, gettando la gamba sana verso l’altro fianco del cadavere. – Lo spingiamo giù, Hickey. – Quella donnicciola di London, che stringeva tra le braccia lo zoccolo del cavallo, rosso in viso, pareva non aver mai sollevato niente che pesasse più di un barile di rum in tutta la sua vita. – Non possiamo estrarlo, peserà mezza tonnellata.
– Se lo buttiamo giù, London, dove dormiamo? Sugli alberi? Sai, non mi sembri tanto in salute da permettertelo. Ehi! – L’Assassino mollò uno scappellotto sulla nuca di Thomas. Certo, certo, andate avanti, magari scopate in mezzo alla neve, e chi vuoi che abbia fretta qui?
– Non fare lo schizzinoso, idiota. – London lasciò andare la zampa con un’imprecazione, poi indicò la malefica arma di Thomas. – Lo lasciamo cadere giù e lo facciamo a pezzi. Poi lo tiriamo fuori. – Le stesse parole usate da lui. Perché detto dagli Assassini suona tutto più stupido?
Thomas si leccò le labbra e portò le mani sui fianchi, un’espressione sognante dipinta in viso. – Magari potremmo mangiarcelo. – Si toccò il ventre con una smorfia. Da quando eravamo partiti non mangiavamo altro che carne secca di pessima qualità, per poi sciacquarci la bocca con un vino da due soldi che sapeva di acqua piovana. L’idea di mangiare qualcosa che, per una volta, avesse un sapore diverso da quello del cuoio, be’, era allettante. Lo capivo.
London scosse  la testa. – Certamente! Costruiamo un grosso spiedo e offriamo la cena a un cacciatore di passaggio che per ringraziarci racconterà come ha ucciso un orso con solo un coltellino da burro e arriveremo a New York pervasi dalla gioia e dal buon… – Un colpo di tosse lo fece piegare in due, scosso e senza fiato, le ginocchia che tremavano mentre della bava filamentosa ciondolava dalle sue labbra. Mi voltai a guardarlo da sopra la spalla e mi parve di vedere una chiazza di sangue sul terreno grigio e fangoso.
Non sarebbe durato a lungo. – Diavolo – brontolai provando a stendere le gambe, – ecco perché non fate mai del sarcasmo su niente. Va contro la vostra salute.
Thomas emise un sonoro sbuffo e scrollò le spalle, sollevando la gamba per caricare il calcio. Con quella dannata spada in mano sembrava un boia o un assassino professionista, non il solito ubriacone con la battuta pronta e la pacca sul didietro facile. Sembrava veramente in grado di uccidere qualcuno, in modo cosciente, di proposito, e non per difendere la sua vita o perché gliel’avevo ordinato io. Tutti i suoi buoni propositi crollavano come miseri castelli di carte quando stringeva in mano quell’arma, perché, a vederlo, si sarebbero dette un sacco di cose su Thomas Hickey, ma che non avesse più intenzione di uccidere qualcuno per divertimento non era una di quelle. Anzi.
– Tieniti forte, capo – disse con un sorriso sghembo. – Non ho nessuna voglia di portarti a spalla.
Sollevai gli occhi al cielo, facendo leva sulle braccia per appoggiarmi al terreno con tutte le mie forze, le gambe doloranti mollemente abbandonate oltre il corpo senza testa del cavallo. Sembrava un centauro, una creatura mitologica brutalmente mutilata. Un brivido corse lungo la mia schiena e Tom affondò la gamba in un calcio. Con una mezza acrobazia, le zampe del cavallo mulinarono a pochi pollici dalla mia testa prima che la bestia si disincagliasse e il cadavere si schiantasse sul fondo poco profondo della fossa. Immediatamente si chinò su di me, afferrandomi per il gomito e tirandomi verso di sé con un grugnito. Il polpaccio diede un gran colpo contro il bordo sbeccato della spelonca, facendomi strillare. – Cazzo, Tom! – sbottai afferrandomi la gamba. Mi stava trascinando sulla schiena sopra lo strato di neve sporca, come un becchino avrebbe fatto con uno qualsiasi dei suoi cadaveri. – E mollami!
London si tirò lentamente su, le mani poggiate sulle ginocchia e il respiro affannoso. Sbuffai, lanciando un’occhiata colma di preoccupazione alla ferita. Appena una decina di centimetri sotto il ginocchio, il calzone si apriva in uno squarcio irregolare e sanguinolento, da cui sporgeva una specie di pezzo di pietra sottile come un ramo, che affondava nella carne e usciva dall’altra parte, non molto in profondità, fortunatamente.
Lo strinsi tra le dita. Avevo sentito parlare di quelle… cose, erano pezzi pietra che crescevano come vere e proprie piante sui soffitti delle grotte. Le alimentava l’umidità, mi pareva, facendole allungare di anno in anno con esasperante lentezza. Stalattiti. Emisi un gemito più simile a un ringhio tra i denti sbarrati. Solo io potevo avere la sfortuna di andare a impalarmi la gamba su un maledettissimo pezzo di pietra appuntito. – Tom – brontolai afferrando la spada corta, le dita che fremevano davanti a tutto quel sangue. – Dammi una mano.
– Ah, adesso vuoi il mio aiuto? – replicò scocciato. Aveva già estratto la pipa e si era appoggiato al tronco di un albero con la massima noncuranza. – Cazzo, quel bastardo non fa niente di niente, a parte lamentarsi e dare ordini. Io devo fare a pezzi un cadavere. Fatti aiutare da lui! – Indicò l’Assassino con un gesto stizzito e bestemmiò a gran voce, affondando un fiammifero acceso nel focolaio.
Scrollai le spalle. Uno valeva l’altro, e in fondo Thomas aveva ragione. Che cosa aveva fatto London per rendere il viaggio più facile? Nulla. Non era di compagnia né proponeva soluzioni comode. Pensava solo a farci tornare a Boston il prima possibile, così non saremmo più stati solo una sua responsabilità. – Mi servirà una camicia – sbuffai. Quel viaggio, come tutto il resto, cominciava a stancarmi. Avrei potuto sopportare una cosa simile da giovane, quando pensavo di aver avuto una vita tutto sommato decente, quando la vendetta alimentava ogni mia mossa. Era un fuoco ancora ardente dentro di me, ma l’inverno cominciava a intaccarlo.
Se mi fossi trovato davanti Reginald, in quello stesso istante, sarei riuscito a farlo fuori? O sarei caduto privo di forze a terra, lasciando che mi schiacciasse definitivamente e mettesse fine a ogni mio vano tentativo di riscossa? Mi strinsi nelle spalle congelate, sforzandomi di cambiare argomento. – Delle bende, cazzo – bofonchiai, dato che nessuno dei due sembrava disposto ad assiderare per me. – Qualsiasi cosa. Non posso viaggiare senza pantaloni, vi pare?
– Le giubbe rosse fuggirebbero a gambe levate. – Thomas aspirò una gran boccata di fumo e rise. – Sarebbe utile.
– Ah-ah. – Roteai gli occhi. – Visto che ti diverti tanto a spese mie, Hickey, ti conviene mettere in mostra il tuo scultoreo fisico e passarmi quella cazzo di camicia. Complimenti.
Sbuffò. – Andiamo, era una battuta! Non starai certo dicendo sul serio, capo!
Mi rigirai la spada corta in mano, menando un fendente nell’aria. – Ti conviene muoverti, o ti ritroverai a raccogliere le tue viscere dalla neve. – Scrollai le spalle. Un esercito che funziona collabora con il suo comandante.
Tranne nel caso di George Washington: l’esercito funzionava benissimo, era il nucleo di comando a essere pieno di idioti. Ma se un esercito mediocre può essere reso perfetto da una buona strategia, per un capo deludente non c’è rimedio.
Lo si può solo far fuori.
Thomas mi lanciò la propria camicia, ringhiante come un cane rabbioso, e si strinse nel cappotto. – Gentile, da parte tua. – Strappai le maniche con un paio di tagli ben calibrati e gli restituì il tronco di stoffa. – Grazie.
– Fottiti – rispose abbottonandola. Sorrisi nel sentire la vena di ira nella sua voce. Sollevò la sua strana arma e saltò all’interno del fosso mentre London arrancava verso di me, le gambe piegate rigidamente e lo sguardo spento.Sembrava davvero un uomo sul punto di morire. Stendendo la redingote sotto di me, sfibbiai velocemente i calzoni, tirandoli giù dalla parte sinistra. Non avevo mai assistito a niente di più ridicolo, nella mia vita. Thomas che tagliava e sminuzzava carne nel suo antro, l’Assassino malaticcio che respirava a fatica, guardandomi con quegli occhietti sempre più privi di vita, e infine io, misera caricatura di un gentiluomo inglese, con i calzoni abbassati nella neve e una spada in mano.
È arrivato il circo. – Tirala fuori, London. – Ruotai faticosamente la gamba, porgendogli la carne sanguinante come un dono. – E fa’ in fretta, per l’amor di Dio.
Si chinò, e non potei fare a meno di notare le palpebre tremanti sulla sclera giallognola, un rivolo di saliva che ancora scorreva verso il suo mento e la patina di sudore freddo a ricoprirgli le guance, la fronte, il naso. Mi fece un cenno d’assenso in cui non colsi alcun significato e strinse le dita tremanti attorno al pezzo di roccia. La parte fuori dalla carne era spezzata, acuminata e tagliente come la lama di un rasoio – Gesù, mi sembrava di non vederne uno da secoli –, probabilmente per merito di qualche fenomeno precedente. Strinsi i denti e risposi al suo cenno, quindi strappò il minerale dalla carne con tutta la propria forza.
Emisi un gridolino strozzato mentre il sangue ricominciava a sgorgare in fiotti rossi e scuri dalla ferita. Stirai tra le mani le maniche della casacca di Thomas e feci del mio meglio per stringerle sulla carne viva. Non avevamo nient’altro a disposizione e la ferita non era poi così profonda. Dovevo pensare positivo. La ferita non era così profonda. Non faceva così male. Potevo andare avanti. Potevo arrivare a New York, poi avrei trovato un medico di qualsiasi tipo.
Cazzo, Ben, per una volta che potevi essermi utile.
– Stringi – sussurrai a London, che immediatamente unì le bende in un nodo, fermando o almeno rallentando la fuoriuscita di sangue. – Andrà bene – dissi, più a me stesso che a lui, mentre infilavo le gambe nei calzoni. – Ce la faremo. Però dobbiamo fermarci. – Sentivo il sangue del cavallo diventare secco e appiccicoso sul lato destro della mia faccia. Dovevo essere spaventoso, ridicolo, grottesco.
Immagino sia ciò che succede a combattere anche quando sai di doverti arrendere. Dannato figlio di puttana testardo, pensò una piccola parte ragionevole rimastami in testa. – Finito, Tom? – sussurrai, stringendo la mano sul ginocchio. Il dolore sarebbe passato, perché passava sempre. Una persona con un minimo di buonsenso avrebbe scelto di cogliere l'occasione, ritirarsi a vita privata e sperare di non essere trovata da nessuno.
La mia non era una questione di buonsenso. Osservai le gocce di sangue imbrattare la neve mentre Hickey scagliava fuori dalla grotta pezzi di carne grandi come massi, lasciando che i pensieri corressero per la loro strada. Reginald mi avrebbe trovato, ci potevo scommettere. Mi aveva braccato quando avevo cercato di uccidere Washington e aveva bisogno di me. Sarebbe stato disposto a tutto pur di varcare la soglia di quel dannatissimo tempio.
Stava combattendo su due fronti, ma mi sembrava ovvio quale gli interessasse di più. Quello che gli era sempre interessato di più, in fondo. Non sperava nel governo, perché sapeva che se anche Charles fosse diventato comandante in capo, alla sua morte sarebbe salito al potere un altro di quei maledetti paladini della libertà e delle belle parole. Il suo piano era di uccidermi, e Lee non era mai stato un gran reclutatore. Chi avrebbe difeso il nuovo comandante in capo dagli attentati? Chi avrebbe stabilito una linea di successione politica tendente verso i Templari se Lee fosse stato l’ultimo di noi? Thomas? Per carità divina. Benjamin? Probabilmente i patrioti l’avrebbero ammazzato prima.
Non restava niente. Per questo gli interessava di più il Grande Tempio, la Prima Civilizzazione e quell’altro mucchio di stronzate.
Tom balzò fuori dal buco con i vestiti, le mani e il viso imbrattati di sangue, legandosi nuovamente la spada alla schiena, sotto la camicia. Un potere con il sapore dell’eternità era di certo più allettante di quello politico, effimero e sfuggente.
Respirai piano mentre Thomas indicava il nostro rifugio con un gran sorriso, risultando decisamente grottesco su quella sua faccia insanguinata. – Prego, signori.
Mi aggrappai al gomito di London, facendo leva per alzarmi in piedi e scaricando con cautela il peso anche sulla gamba sinistra. Poiché la roccia non aveva intaccato l’osso, riuscivo a reggere. Potevo farcela. Passa. Non fa poi così male. Non è poi così profonda. Pensa positivo. – Hai ancora fiammiferi, giusto, Tom?
– Abbastanza per dare alle fiamme tutta New York, capo. – Continuò a parlare, il ghigno sghembo stampato indelebilmente sulle labbra, tirando fuori la piccola scatola e accendendo un cerino tra le unghie. – Non sono mai troppi. Come le donne, o il tabacco. – Lo scagliò nella neve alle sue spalle e rise, falciando qualche ramo umido con la spada. – Forza, accomodatevi nella nostra umile dimora, prima che anche gli altri cavalli decidano di provarla.
Lanciai un’occhiata vuota alla carcassa fatta a pezzi della mia ex cavalcatura, e pensai che in fondo meritava quella fine. – Dannata bestiaccia del cazzo.
– Che hai detto, capo? – Tom raccolse un ciocco di legno e lo infilò nella tasca del cappotto.
Gli feci cenno con una mano di lasciar perdere e scesi cautamente dentro la grotta. Era piccola, decisamente, larga appena a sufficienza per stendere le gambe. Doveva essere già stata utilizzata come rifugio, a vedere l’avvallamento scuro al centro dell’antro, e altre piccole stalattiti pendevano dal soffitto come un macabro lampadario. L’intero fondo era costellato di gocce di sangue, ma sarebbe andata più che bene.
Avrei dormito anche sul ceppo della ghigliottina, stanco com’ero.
Lanciai un’occhiata al cielo bianco sopra di noi, attraversato dai rami artritici che si tendevano come artigli verso il sole. Thomas oscurò la vista per un attimo, scendendo tra noi con le braccia cariche di rami. Mi accorsi solo allora che aveva smesso di piovere.
 
Un po' di carne la mangiammo comunque, ma solo perché London era troppo stanco per mettersi a urlare contro di noi e si era reso conto che lasciando tutto quel ben di Dio in bella mostra avremmo attirato l'intera fauna della frontiera. Thomas sminuzzava nervi, cartilagine e carne con i denti come un cane o un uomo che non vede del cibo da secoli. – Tua madre non ti ha insegnato le buone maniere, Tom? – brontolai gettando un osso alle mie spalle, la gamba ferita tesa davanti a me.
Hickey mi lanciò un'occhiataccia con un pezzo filamentoso di carne che pendeva dal labbro, l'osso puntato minacciosamente nella mia direzione. – Senti un po', gentiluomo del cazzo che non sei altro – ringhiò pulendosi le mani sulla nuda roccia frastagliata alle sue spalle, – tu non hai passato tutta la fottuta notte a scavare fosse per nascondere roba che poteva benissimo essere mangiata. Sei rimasto lì a riposare come un principe mentre io mi facevo sanguinare le mani.
Afferrai la ghirba dalla sacca dei viveri e la sollevai nella sua direzione. – Ma ti ho aspettato sveglio per tutto il tempo – replicai con un gran sorriso.
– Oh, com'è carino da parte tua! Fottutamente gentile! – sbottò lanciando una miriade di sputi. – Io mangio come cazzo voglio, Kenway. Hai capito bene?
Sollevai le mani. – Gesù santo, Hickey, abbassa la voce o credo che dovrò uscire di qui per nascondermi in un cespuglio. – Lo fissai con un sopracciglio sollevato, buttando giù due sorsi di quella robaccia acquosa che gli Assassini chiamavano vino. – Mi sto fottutamente cagando addosso – grugnii nel fargli il verso. Scaraventò l'osso del cavallo verso di me con impeto, spezzandolo contro la parete.
– Sei un bastardo – esclamò sdraiandosi con il cappello sotto la testa. – Un bastardo fin nel midollo. Un fottuto sciacallo. I lupi non ti toccherebbero nemmeno. – S'infilò le dita in bocca, scavandosi tra i denti alla ricerca di Dio solo sa cosa. – Quelle bestiacce non sbranano mai i loro simili. Puoi dormire tranquillo, stronzo.
Reclinai la schiena, puntellandomi sui gomiti per cercare la posizione più comoda per fare un sonnellino. London se la dormiva della grossa in un angolo, accoccolato con il viso rivolto alle fiamme e la giubba ben stretta sopra il corpo. – Sai, capo, da quando siamo partiti il lavoro sporco l'ho fatto solamente io, da queste parti. Affettare cadaveri, seppellirli, regalarti mezza camicia.
– Sei l'unico di cui possa fidarmi, per certe cose. – Poggiai la testa sulla roccia e sbuffai. – E poi devo tenermeli buoni. Gli Assassini, intendo. Il loro Mentore è pazzo, e ovviamente tutti lo seguono.
– Mi suona familiare – disse con una risatina.
Roteai gli occhi. – Oh, zitto. Ti ho mai obbligato a uccidere qualcuno o a scacciare dal tuo letto una puttana solo perché mi stava antipatica? No. – Non potrebbe fregarmene meno, in effetti. – Pensano che i loro mezzi siano gli unici possibili. Non siamo poi tanto diversi da loro, lo so. Ci siamo frammentati, abbiamo molteplici scopi e siamo disposti a tutto per arrivarvi. Abbiamo forza nella collaborazione e sosteniamo le idee utili, non quelle migliori, più gentili o che possono salvare più vite. Quelle più utili. – Un brivido corse lungo la mia spina dorsale poggiata sulla terra. Probabilmente un omicida professionista avrebbe parlato con più scrupoli, più umanità.
Eravamo più di quello. Cospiratori, assassini, stupratori, torturatori e piromani, le peggiori barbarie ci erano concesse solo perché era la nostra coscienza a ordinarci quando fosse necessario smettere. E dentro di noi l'ambizione è sempre stata molto più forte della semplice coscienza. – Che ne dici, Tom?
Mi rispose con un grugnito, tirando un calcio al nulla e girandosi sul fianco, emettendo un lieve russare. Dormiva. – Maledetto idiota. – Mi girai sul fianco, dando la schiena a entrambi i miei compagni di viaggio, e chiusi gli occhi.
Avrei anche potuto augurargli la buonanotte, ma non è poi così solito tra gente come noi. Quante persone hai ucciso, mutilato, torturato o picchiato oggi? Quindici. Proficuo. Tu? Solo tre. Ah. Capisco. Buonanotte. ‘Notte anche a te.
Sorrisi tra me e me, sprofondando rapidamente nel sonno.
 
Soffiava il vento. Un vento caldo, stranamente, perché da che mondo è mondo nella frontiera non fa mai caldo. Nemmeno in estate. Quella landa desolata è coperta da uno strato perpetuo di nebbia che s’insinua tra gli alberi e attenua la vista, rendendo la traversata ancora meno piacevole. Gli uccelli la fendono con il becco e le piume solo nei casi d’estrema necessita, ovvero quando sentono nell’aria l’odore di una bella carcassa pronta per essere fatta a pezzi. Gli animali si aggirano guardinghi finché uno di noi – oppure un puma, un lupo o qualcosa del genere, è indifferente – taglia loro la gola e li fa a brandelli lasciando solo i residui, quella robaccia inutile persino all’ultimo dei disperati.
Un posticino piacevole, la frontiera. Decisamente.
Volsi lo sguardo intorno a me. Quella non era la frontiera. Non era nessun posto che avessi mai visto o di cui avessi sentito parlare. Una piana infinita di nulla. Terra bruciata, crateri frammentari e vuoti in quel polveroso terriccio rosso, che si estendeva fin dove potevo volgere lo sguardo. Il cielo era scuro, pareva notte, il buio squarciato a intervalli irregolari da potenti deflagrazioni di luce verde, arancione e rossa.
– L’Apocalisse. – Mi ritrovai a deglutire rumorosamente, la bocca secca. L’avrei definita esattamente allo stesso modo. – Questo è ciò che accadde. La vita se ne andò, ma noi restammo. Nelle fondamenta. – Sprofondai nella terra così com’era successo quando avevo scoperto quella dannata, piccola grotta in mezzo al gelido nulla.
Attraversai metri e metri di minerale senza alcun danno, come se niente fosse. Strinsi i pugni. Il peso della terra avrebbe dovuto schiacciarmi i polmoni, non avrei dovuto vedere quella desolazione, i miei occhi si sarebbero dovuti chiudere o riempire di sabbia. Ogni secondo che passava aumentava la sensazione di disagio, di trovarmi dove non avrei assolutamente dovuto mettere piede, nemmeno per tutto l’oro del mondo. Mai. Una risata acuì quella sensazione e una cascata di sudore freddo prese a correre giù per la mia schiena. Con quel fottuto caldo. Ancora più inquietante. – È normale, servo della Croce. Hai ragione. Non dovresti essere qui. Nessuno di voi è sopravvissuto a questo. – Mi passai i pollici sulle palpebre, cercando di capire che cosa stesse succedendo. Quella voce mi era familiare, meglio, l’avevo già sentita tantissime volte, ma quella sensazione di gelo al petto m’impediva di riconoscerla. Come se il mio cervello si fosse paralizzato al primo segnale di pericolo. Perché quel maledetto luogo era pericoloso. Molto, anche. Qualunque cosa fosse, nessuno di noi vi era sopravvissuto.
La terra si aprì nella stanza più sobria e al tempo stesso dall’aspetto più regale che avessi mai visto. Il soffitto e le pareti di liscissima pietra nera, così luminosa da rischiarare l’ambiente senza alcun bisogno di lampade. La luce si rifletteva sulle decorazioni dorate e filiformi sulla roccia stessa, e sembrava che quella sala fosse stata costruita per darvi delle feste o banchetti sfarzosi con ospiti importanti, non certo per ospitare i superstiti dell’Apocalisse.
Perché era esattamente ciò che avevo davanti agli occhi.
Una donna in lacrime, il viso affondato tra le mani, emanante una flebile luce bianca, sedeva su una panca di marmo con un lungo mantello calato sulle spalle e i grandi occhi grondanti lacrime, appena visibili tra le dita schiuse. Accanto a lei, un’altra donna sedeva con la schiena dritta, il viso teso e le mani strette a pugno sulle ginocchia, con uno strano elmo calato sulla testa. Osservava l’altra come se la colpa di quanto appena accaduto in superficie fosse sua, ma al tempo stesso sembrava commiserarla. Osservava le pareti alla ricerca di un’uscita, e solo in quel momento capii perché ero entrato dal soffitto. Non c’era nessuna porta. Nessuna via di scampo.
Il terzo era un uomo. Alto e solenne, con l’aspetto reale e avvolto da una forte aura dorata, agitava le braccia nel vuoto davanti a sé e si toccava la lunga barba in continuazione, sbuffando sonoramente e riprendendo a percorrere il rifugio in lungo e in largo. – Non avrei dovuto lasciare che provasse – disse la donna in lacrime con una voce melliflua che ben conoscevo. – Sapevo che non ne era capace. Non ne aveva il potere. Ho lasciato che tentasse. L’ho lasciato morire. L’ho lasciato morire.
L’altra donna si voltò e sollevò il mento, come se tutta quella faccenda non la riguardasse. – Quindi è successo davvero – sussurrò con lo sguardo rivolto all’uomo.  – Abbiamo dubitato tutti, fin quando non è avvenuto davanti ai nostri occhi. Non siamo così diversi da loro. Abbiamo dimenticato nonostante lo sapessimo. Siamo stati scettici. – Anche lei, le sue movenze e la sua voce mi erano familiari. I suoi modi decisi. La riconobbi all’istante. Siccome il terzo si ostinava a ignorarla, Minerva si alzò in piedi e tese un braccio verso di lui. – Non siamo così diversi da loro.
Sembrava mi avessero letto nel pensiero. Templari e Assassini, umani e Prima Civilizzazione. Qual era la differenza, in fondo? Eravamo tutti sulla stesa barca in entrambi i casi. Un nodo mi strinse la bocca dello stomaco. – Siedi, Minerva – proruppe l’uomo con tono pacato. – La tempesta si placherà e torneremo a popolare la terra. Non ripeteremo gli stessi errori. – Abbassò lo sguardo e sembrò quasi rivolgerlo nella mia direzione, piegando le labbra in un sorrisetto. Quella voce… non l’avevo mai sentita prima, ma fu come se una parte della mia mente si sbloccasse. Era la stessa che mi aveva accolto in superficie. Chinai istintivamente il capo di lato e tutti i pezzi del rompicapo s’incastrarono alla perfezione. Giove. Non poteva essere nessun altro. – Si placherà. Si placa sempre.
– Aita è morto ed è solo colpa mia! – Giunone, dal suo angolino, continuò a piangere con la testa bassa. Sembrava non le importasse di nient’altro, ma Giove e Minerva non erano d’accordo con lei. Avevano cose più importanti di cui preoccuparsi.
Minerva emise un grugnito rabbioso, lanciandole una brutta occhiata. – L’hai aiutato, per quanto hai potuto. Ora dobbiamo preoccuparci per i vivi. Per noi. – Afferrò brutalmente Giove per un braccio, strattonandolo verso di sé. – Non possiamo più sbagliare. Dobbiamo impedire loro di prendere il sopravvento. Fare in modo che non sappiano. Se noi… – Giunone scoppiò nell’ennesimo singhiozzo e Minerva pestò violentemente i piedi a terra. Una bambina. – Chiudi la bocca! – sbottò verso la donna. Non sembravano esseri ultraterreni, potenti o superiori. I superstiti sono uguali in tutte le popolazioni, anche tra quelle di migliaia di anni fa. – Cercherebbero di fermare tutto. E non servirebbe. Capiterà di nuovo, non possiamo impedirlo. Non funzionerà niente.
Giove si grattò le guance ispide, quindi sospirò tornando ancora una volta a guardarmi. Quindi sollevò un braccio e tutto si ghiacciò. Minerva rimase immobile in quella posizione, i pugni stretti lungo i fianchi e il viso teso verso di lui, gli occhi sgranati in attesa di una risposta che potesse farle soddisfazione, le spalle di Giunone smisero di scuotersi e lei si bloccò a metà di un singhiozzo. Il pianto le morì in gola senza eco né strascichi. – Finalmente possiamo parlare – disse Giove. La sua voce cavernosa e calda somigliava a quella di Cornwallis, ma era decisamente più inquietante. Come se solo guardandomi potesse infilare una mano nel mio corpo, rimestare le viscere dall’interno, scrutare tutti i miei ricordi, il mio terribile passato, e quindi agire di conseguenza. Mi fissava con rimprovero, sapendo che avrei fatto qualcosa di sbagliato ancora prima che avessi la possibilità di agire. Un genitore scettico davanti al figlioletto combinaguai, ecco come appariva Giove. – Solo io e te. Senza intermediari.
Sentivo la lingua gonfia e secca come un pezzo di legno. Guardare i suoi occhi d’oro, tempestosi e ardenti, metteva soggezione e angoscia. Non riuscivo ad aprire la bocca. Nemmeno una sillaba sarebbe uscita dalle mie labbra, di quel passo. – Non giudicarmi superbo, servo della Croce, ma sto diventando più potente. Loro… – Il suo sguardo impietoso si girò sulle mie due amichette, poi scrollò il capo in un cenno sconsolato. – Non si arrendono mai, non l’hanno fatto nemmeno allora. I miei poteri stanno crescendo. Sono sempre stato in grado di fare di più. Fin dall’inizio. La prima volta…. Quand’è accaduto tutto questo, non ho agito. Ho lasciato alla saggezza e alla fede il compito di guidarci.
– Se un esercito mediocre può essere reso perfetto da una buona strategia, per un capo deludente non c’è rimedio.
Sbattei le palpebre per lo stupore. Ero riuscito a parlare. E con quel tono, per giunta! Usando quelle parole. Un capo deludente. Oddio. Già vedevo il mio corpo esplodere a un suo cenno, schizzi di sangue e secchiate di cervella e interiora a imbrattare quelle mura luminose. Abbassai d’istinto la testa. – Già. Avrei dovuto aiutarle quand’ho potuto. – Puntò l’indice verso di me con aria accusatoria. – Questa volta non ho sbagliato, servo della Croce. Anzi. Entrambe mi credono debole, rinchiuso chissà dove, o intento a pensare soltanto a me stesso in qualche remoto angolo di mondo. Invece mi sono dato da fare. Ho preso l’iniziativa. – Socchiuse gli occhi, azzardando un passo nella mia direzione. La sua intera aura parve tremolare. – Non ti preoccupare. Manca ancora molto tempo. Però non posso permettermi di lasciare che muoiano un’altra volta. Tu mi capisci, no? Certo che mi capisci. – Ridacchiò tra sé e la stretta alle viscere parve crescere d’intensità. – Nemmeno tu puoi lasciarli morire. Non tutti. Stiamo facendo entrambi del nostro meglio, anche se per scopi diversi. Il tuo è nettamente più umano, servo della Croce, ma sei l’unico qui dentro che può sapere cosa si prova ad avere la responsabilità di altre vite sul groppone.
Sollevai appena lo sguardo, incrociando il suo. Nonostante tutto, i suoi occhi avevano assunto una piega dispiaciuta. Era meditabondo, pensieroso, ma quasi gentile. Sembrava davvero disposto a fare del bene. A impedire che l’Apocalisse s’affacciasse di nuovo sul nostro mondo.
Di nuovo. Era terrificante, pensare che la più grande catastrofe che gli esseri umani possano immaginare sia destinata a ripetersi. – Capisci? Non c’è più nessuno di noi. Siamo solo rifiuti, residui, misere briciole di ciò che eravamo nei tempi antichi. Con i pochissimi umani sopravvissuti siamo riusciti a originare una nuova stirpe, ma ora? Morirete tutti quanti se non facciamo qualcosa. E non possiamo permetterlo. – Si lasciò andare sull’angolo della panca, accanto alla statua di Giunone in preda ai singhiozzi. – Ti dico solo di non giudicarmi male, servo della Croce. Tutto ciò che ho fatto e sto facendo è per i posteri. Per garantire la sopravvivenza di un gruppo di persone. Tu puoi capirmi. Tu puoi capirmi.
Mi rivolse un ultimo sorriso paterno, poi fece un mezzo giro su se stesso e sfiorò l’aria davanti ai volti di Giunone e Minerva. L’atto riprese esattamente là dove era stato interrotto, l’una che piangeva ininterrottamente tutte le proprie lacrime e l’altra in attesa di una risposta, stizzita e nervosa. – Generiamo un nuovo popolo, Minerva – sentenziò Giove con fermezza. – Non accadrà che tra migliaia di anni. Abbiamo tempo. – Allungo le grandi dita verso il viso di Minerva e lo sfiorò. Più che esseri umani sembravano immagini. A contatto l’una con l’altra fremevano come fiamme di due candele. – Non permetteremo che soccombano tutti.
L’ennesimo getto di sudore inzuppò la mia schiena. Quel “non tutti” mi stava paralizzando per l’inquietudine. Non tutti. Qualcuno sarebbe morto comunque. Migliaia di anni. “Manca ancora molto tempo”, era la verità?
O di lì a poco saremmo semplicemente morti tutti, bruciati da quelle esplosioni di luce come gli esseri umani della Prima Civilizzazione?
Solo cenere nel vento.
Scattai a sedere con un doloroso strappo alla schiena. I miei vestiti insozzati di sangue secco erano anche impregnati di sudore e sentivo il bisogno impellente di andare a pisciare. Il silenzio era assoluto mentre dalle braci spente saliva un sottile filo di fumo. In quell’angolo di frontiera regnava la pace più completa, allora perché non riuscivo a respirare, come se la terra rossiccia fosse ancora lì a schiacciarmi i polmoni con il suo peso?
Appoggiai la schiena inzuppata alla roccia fresca, le mani serrate intorno agli spuntoni irregolari, il respiro affannato. Avevo decisamente bisogno di pisciare, altrimenti sentivo che l’uccello mi sarebbe esploso con il resto del corpo. Il mio cuore batteva troppo forte, come se volesse fracassare le costole. La neve. Ciò che mi serviva era la neve. Sciacquarmi la faccia un attimo. Svuotare la vescica.
Qualsiasi cosa, bastava che mi togliessi dalla testa l’Apocalisse.           
 
  
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