L’acqua
cominciò a raccogliersi in
gigantesche pozze, a ogni goccia caduta sulla loro superficie
un’increspatura circolare
si allargava agitandone la superficie e poi si perdeva tra i flutti.
Una fitta e sottile pioggia che
minacciava di trasformarsi in aghi di ghiaccio prematuramente, in
considerazione della stagione imperversava sul campo.
L’erba umida si era appiattita sotto i
passi sveltiti degli uomini.
L’accampamento era animato da soldati che
correvano e urlavano ai sottoposti di salvare il salvabile
dall’acquazzone: di
riparare i tendoni squarciati con pezzi di stoffa di fortuna, a volte
strappate
dalle vesti stesse, e di mettere al riparo gli animali che inquieti
scalpitavano e nitrivano ogni qual volta saettava a distanza
ravvicinata una
fascio zigzagante di luce bianca.
Un tuono risuonò come un rimprovero per
la valle, come a voler mettere a tacere il vocio umano, le grida e il
rumore
dell’acqua sotto gli stivali di ferro.
Le pozze si allargavano a tal punto che
entravano anche nelle tende, rendendo la terra umida e fangosa.
In breve tutto l’accampamento, le strade
e molti alloggi, furono invasi dall’acqua stagnante.
Dalla finestrella si riusciva a vedere un
quadrato di nubi illuminate dall’occasionale bagliore di un
lampo seguite da un
boato assordante e inquietante.
Le gocce strisciavano per l’accidentata e
grezza superficie della pietra con cui era stato edificato il capanno
fino a
raggiungere il suolo e andare ad allargare una chiazza di terreno
bagnato.
Anche dal soffitto gocciolava acqua
piovana che strascicava silenziosa sulle assi di legno che reggevano il
soffitto per poi cadere lanciando un lieve barbaglio di luce e atterrando
disgregandosi in mille stille d’acqua sulla fronte del
prigioniero.
Le più grandi si raccoglievano a formare
uno scorso d’acqua che andava a ripulirli il viso dal sudore
percorrendo pigra
i suoi lineamenti, scivolando lungo la spaziosa fronte, raggiungendo le
narici
e poi scendendo sempre più giù fino ad incontrare
il vuoto lasciato dalle sue
labbra semi dischiuse e andando a infilarsi dentro la bocca scivolando
sul
labbro superiore.
Questa volta sembrò avvertirne il
passaggio.
Si leccò la bocca per assaporare meglio
l’unica acqua che avesse bevuto in un giorno.
Aveva il palato secco e gli occhi
impastati dal sonno.
Il suo corpo fu scosso da una violenta tosse; strizzò gli
occhi ancora sonnacchiosi.
Poi li schiuse.
Non cambiò molto; era buio, la pessima
visuale lo portò a credere che fosse notte fonda, ma il
barbaglio dell’ennesimo
lampo lo fecero sobbalzare e scattò in avanti allarmato
venendo però bloccato
da un paio di catene tese.
Strano.
Gli sembrava di essersene liberato da un
bel po’, che la vendetta consumatasi nella foresta fosse
stato solo un sogno?
Istintivamente la mano andò a cercare
l’elsa della spada, trovando però, solo il foro
del fodero.
Cercò con lo sguardo, inquieto, la sua
arma, ma la visibilità era scarsa.
Fortunatamente un lampo venne in suo
aiuto e illuminando ancora una volta l’ambiente gli permise
notare uno scintillio
in un angolo.
Li giaceva, buttata malamente, la sua
spada sanguinolenta, macchiata del liquido vitale delle sue vittime.
Pareva
luccicare colpito dalla luce delle saette.
Vegeta diede un occhiata ai vincoli ad
anelli e gli diede un paio di strattoni per provarne la resistenza.
Una volta assodato che non poteva
romperle con il solo uso della forza decise di passare al metodo
più veloce ed
efficace.
Si mise a fissare intensamente la sua
mano come a volerla bucare col pensiero, con i muscoli delle tempie e
delle
braccia tesi nello sforzo e una goccia di sudore che gli scendeva lungo
la
fronte.
Iniziò, senza allentare i muscoli a
schioccare le dita.
I primi tentativi furono vani e ognuno
seguito da un intermezzo vuoto in cui si mordeva collerico il labbro
cercando
di combattere con la stanchezza e con il nervosismo.
In breve le spaziature che seguivano i
sordi schiocchi divennero più brevi, una vena sulla tempia
stava spasmodicamente
cominciandogli a pulsare.
Uno degli schiocchi produsse una
scintilla, il seguente una manciata di stille di fuoco, il successivo
creò una fiammella
insignificante che, come se le sue
dita
fossero state intrise di rum avvampò sul palmo, sul dorso e sulle nocche della mano.
Avvicinò più che potè il polsi
attendendo
che il fuoco liquefacesse il metallo.
Non essendo
l’effetto immediato tentò di
accostarle ancora di più, ma anche quando i bracciali di ferro furono uniti e il calore più vicino che mai al metallo le lingue di
fuoco che ardevano senza carbonizzargli la carne non scalfivano la lega.
Digrignò i denti contrariato all’idea di
dover aspettare che quei pezzenti gli portassero da mangiare quando la
porta
produsse uno schianto al contatto con la parete..
Presupose che il motivo di tale frastuono
fosse stato un allentamento della serratura e il vento che
aveva
violentemente sbattuta la porta contro il pietroso muro.
Due ombre incappucciate stavano oltre la
soglia ostentando presunzione.
Sentiva le loro risate sguaiate e zotiche
che li accompagnavano mentre camminavano verso di lui.
Celò la fiamma dentro il suo pugno
sperando che la luce delle torce che avevano appiccato eclissasse
quella tenue
della sua mano.
-Ma guarda… si è svegliato finalmente-
disse indicandolo con il pollice e poi regalandogli uno sputo che il
terriccio
assorbì vicinissimo a lui.
La mano stregata gli fremeva, smanioso
quant’era di affondare le sue dita arroventate nel suo collo
e strapparli la
carne della gola con le unghie.
Simulò impotenza costringendosi a
trattenersi e serrando nel suo pugno la fioca fiamma.
Spavaldo e incoraggiato dal fatto che non
reagisse e che si limitasse, per ora, a guardarlo con una
tonalità di
livore nello sguardo, e il modo in cui
stringeva i pugni, che lui interpretò come segno di
ira per la consapevolezza di essere soggiogato alle catene, si avvicinò
ulteriormente arrivandogli a qualche centimetro dal naso.
Tutta la sua visuale comprendeva la
faccia, piuttosto magra, del soldato che aveva avuto la spiacevole idea
di
provocarlo.
-Demone eh?- continuò.
Vegeta si sforzò di ricordare quanto
fossero lunghi i vincoli senza distogliere gli occhi, che rimasero
piantati in
quelli della malcapitata futura vittima, tradendo il disgusto per il
fetido
odore muschiato che emanava.
-Tz-
L’altro stava con la spalla appoggiata
alla porta e si godeva la scena con la mantellina che grondava acqua.
-Poveretto…mi fa quasi pena- disse
all’amico che rise sotto i folti baffi.
Aspettava pazientemente che fosse oltrepassato
il limite del sopportabile; la sua piccola vendetta sarebbe stata
consumata con
più gusto, condita con la soddisfazione
dell’espressione atterrita dell’altro.
-Non ti preoccupare- lo incoraggiò
ironicamente –vedrai che saremo clementi con te e ti
concederemo un trapasso
veloce e indolore- si rivolse di nuovo a lui ritornando vicino come lo
era
prima.
-Scenderai negli inferi senza troppo
dolore e dovrai ringraziare solo me- disse accarezzandosi
l’elsa della spada e
occhieggiando volutamente la sua abbandonata al muro.
La sua voce era un penoso sibilo che
voleva istigargli timore e angoscia, ma prima che potesse aggiungere
ciò che
aprendo la bocca e prendendo fiato si apprestava a dire, cinque unghie
di dita
forti si andarono a conficcargli nel gozzo come se gli stessero
tentando di
strappare la faringe.
Al posto delle irrisorie e scipite
minacce uscì un verso che sembrò quello di un
verro impaurito.
Vegeta avvicinò con studiata e voluta
lentezza la mano stregata fiammeggiante la cui luce scarlatta si
rifletteva
nelle sue iridi nere facendolo somigliare in tutto e per tutto a un
demone.
Il ghigno di compiacimento mise in mostra
i denti già pregustando il piacere della paura altrui.
L’altro aveva smesso quel suo
improponibile e irriverente sorriso per adottare
un’espressione spaurita.
-Lascialo, lo strozzi!-
Un urlo soffocato e acuto deliziò l’udito
di Vegeta, ne voleva ancora, con la stessa intensità con cui
desiderava acqua e
cibo negatoli da due giorni.
-Mollalo lo strozzi!- ripetè.
Solo allora Vegeta sembrò accorgersi
sella sua presenza.
Sollevò il soldato da terra girandolo per
mostrare al compagno della vittima il suo volto esanime di un pallido
blu.
-Finirai come lui, insieme a tutti gli
altri, morti come cani, solo per una mano- sibilò con
espressione impietosa
riuscendo perfettamente nell’impresa di spaventarlo.
Il milite morente trovava ancora la forza
di scuotere la testa e dimenare la braccia per opporsi alla sua presa,
mentre
Vegeta gli soffocava le urla in gola.
Un nugolo di soldati accorse in aiuto
degli impavidi militari
che avevano
più stupidamente
che coraggiosamente
affrontato il principe dei demoni che erano i Sayan.
Otto spade alla gola, un coltello al
ventre, due catene ai polsi e la stanchezza che quasi gli impediva di tenere
vivo il
fuoco che minacciava di ustionare la faccia della vittima erano un
pretesto
sufficiente per ignorare ciò che l’orgoglio gli
suggeriva.
Mollò la gola del soldato che tossì
convulsamente e svenne.
Portarono via il corpo malconcio tenendo
d’occhio Vegeta che indifferente osservava le nuvole perdere
il loro grigiore,
e il restante quadrato di mondo che gli era concesso.
Colui che pareva il capo del gruppetto
che aveva eluso il massacro intimò di voltarsi.
Ostentando durezza nello sguardo si
voltò.
-Domani verremo a prenderti, per oggi non
ti sarà concesso il cibo, non me ne frega se non hai
mangiato per giorni, puoi
anche crepare per quel che mi riguarda, così avremo un
problema in meno-
Vegeta sorrise sardonico e mordace, non
bastava quello a spaventarlo; aveva retto a intemperie peggiori, marce
sfiancanti, privazioni di cibo e acqua insostenibili per chiunque altro.
Il capo se ne uscì borbottando qualche
imprecazione e domandandosi perché la principessa si
ostinasse a
tenerlo ancora
in vita.
***
Il mormorio del vento era l’unica voce
udibile a metri di distanza.
Seduta con le ginocchia raccolte al petto
e cinte dalle braccia nude osservava il campo a distanza.
Con lei, a osservare la vita di uomini
dediti alla guerra o costretti a sopportarla, c’era un
infante.
Si domandava, a distanza di qualche
giorno dalla riunione con i suoi cari, come potessero contadini che non
avevano
impugnato altro che una zappa sostituire i loro strumenti con armi di
tale mole
che richiedevano certo una predisposizione naturale alla violenza ed
esperienza
per essere utilizzate alla meglio.
E al contempo si chiedeva cosa fossero
oltre a combattenti i soldati arruolati e pagati che non vivevano
nient’altro
che di guerra, cosa piuttosto potessero essere se di conflitti non ce
ne
fossero stati.
Dende la osservava di sottecchi senza che
lei se ne accorgesse.
I soldati avevano preso anche la città
nella stessa notte, le famiglie erano rimaste senza tetto si erano
uniti all’esercito e li seguivano mestamente.
I soldati e il re avevano accolto la loro
presenza dispensando loro cariche in cui potessero rendersi utili e
concedendo
carri e cavalli perché non si sfiancassero durante i
prossimi cammini.
Fu una coincidenza fortunata il
ritrovamento di Dende.
-Angelo?-
-Si?-
Bulma da giorni era in uno stato di
apparente pace, si domandava se davvero fosse così o se
l’apparenza fosse
ingannevole.
-A che pensi?-
Distese le gambe e poggiò le mani
sull’erba.
-Ai guerrieri un po’ tristi e infelici
che consolavo-
-Cosa facevi per consolarli angelo?-
Bulma aveva cominciato ad apprezzare il
suo nuovo nome: le accarezzava l’ego e rendeva felice il suo
piccolo amico.
-Tante cose…ero una schiava…lavoravo per
lui…-
A Dende non sfuggì l’utilizzo del
singolare.
-Lui chi?-
-Il mio padrone…o meglio EX padrone-
precisò con una punta di compiacimento.
Dende era ben conscio della fine che i
soldati facevano in guerra perciò la domanda gli sorse
spontanea.
-è morto?- chiese in un sussurro,
timoroso di pronunciare quella parola troppo alla leggera.
Bulma sorrise consolata dal pensiero che
presto l’avrebbe rivisto.
-No Dende, è vicino, molto vicino-
Dende era un bambino intelligente, troppo
intelligente per non porsi delle domande e rispondersi con sagaci
intuizioni.
-Si tratta del demone chiuso nel casale
che ha quasi ucciso quel militare?-
Bulma lo osservò stranita per un attimo,
non era raro che il piccolo manifestasse segni di intelligenza
superiore alla
norma di tutti i bimbi della sua età.
-Si- si risolse a dire lei.
-Eri serva di un demone?-
Forse era questo Vegeta:…un demone...un’anima
vendicativa che si dissetava con il sangue, ma che importava
a lei.
Ora come prima le sembrava solo uno
spirito triste e rabbioso per essere stato usato, per la vita che gli
era stata
portata via, bisognoso delle cure benefiche che l’amore di un
angelo può dare.
Scusate per il ritardo e la continua eccessiva lunghezza dei
capitoli^_^' .