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Autore: alchemist    10/08/2014    0 recensioni
- Così è la prima volta che sei vicino a una donna?
- No, beh... è che senza maschera... sì, insomma...
- Mai senza maschera per il filtraggio?
- Sì. - insomma, le ho detto di sapere anche l’internazionale e ora non riesco nemmeno a parlare la mia lingua madre, ottimo.
- Per me è la stessa cosa. Sembrate più grandi... dal vivo intendo.
Il suo piccolo bracciale si illumina, mandando un bip acuto che mi fa sobbalzare. Lei si ferma un secondo e comanda di aprire il messaggio sul pannello olografico. Faccio in tempo a leggere solo qualcuna della lista di cifre incomprensibili prima che lei lo cancelli con un gesto stizzito della mano: - E’ solo un avviso che mi avverte che l’aria intorno a me non è sterile. - mi spiega senza un motivo
- E non è pericoloso? Non dovreste uscire senza maschera, giusto?
Le sue labbra si piegano in un’espressione sarcastica: - Non dovremmo uscire affatto, per la verità. - riprende a mettere insieme i pezzi. - Ma avevo voglia di sentire com’era l’aria vera, il vento naturale.
Rimango in silenzio. Beh, la capisco benissimo. A quel pensiero trattengo una risata: Dea, non avrei mai pensato che un giorno avrei potuto dire di capire una donna!
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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In questa storia i capitoli sono raccontati a turno dal punto di vista di diversi personaggi, ma solo i due protagonisti principali sono alla prima persona. Per cui, eccovi Res!


*RES* 
20 settembre 2215

 
 
La sirena ci sveglia poco prima delle tre. Scatto seduto e sbatto la testa al letto sopra il mio: e dire che dopo quasi cinque anni dovrei esserci abituato.
Brevi sequenze di tre suoni gracchianti riempiono l’aria dell’enorme dormitorio: tre suoni vuol dire un guasto. Un semplice guasto. Abbastanza grave da farci alzare alle tre del mattino... ma comunque solo un guasto.
Butto i piedi giù dalla branda e li infilo negli scarponi. Mi alzo e finisco contro il tizio che si sta alzando dalla branda della fila opposta e quello che dorme due letti sopra al mio, nel buio, mi cade praticamente addosso.
Ok, basta.
Il tizio che mi è caduto addosso vorrebbe filarsela senza farsi vedere: che illuso, nessuno è tanto bravo. La mia mano scatta fulminea e lo riacchiappa per la maglietta.
Lo fisso in cagnesco, dall’alto.
- S-scusa, amico, non ti avevo visto. – balbetta agitato: è solo un ragazzino, dev’essere uno di quelli appena arrivati, sedici anni al massimo, forse meno. Un peso piuma il cui corpo non ha ancora visto il risultato di questo lavoro. – Davvero, non l’ho fatto apposta! – continua a scusarsi, i suoi occhi fissano intimiditi i miei bicipiti gonfi che potrebbero scagliarlo via con un gesto. Non mi piace spaventare i ragazzini, ma è meglio che i pivelli imparino subito a stare al loro posto o si può finire male in un lavoro come questo.
La sirena si spegne, sostituita dal ronzio che precede gli ordini.
Lascio andare il ragazzo, mettendomi in ascolto.
<> chiama la voce. È il mio settore, il primo che viene chiamato quando succede qualche guaio. <>
Il messaggio viene ripetuto tutto un’altra volta, così che nessuno possa rimettersi a dormire e dire di aver capito male, poi rumori di sottofondo, altri ronzii, e l’altoparlante si spegne.
- Torna a dormire, ragazzino, per stavolta ci pensano i grandi. – dico al pivello ancora impalato al mio fianco.
Avanzo nella penombra, tra le file di letti a castello infilando le braccia nelle maniche della tuta da lavoro che mi pende dai fianchi e me la tiro sulle spalle. Nel farlo assesto gomitate a destra e a sinistra, nella calca, e in cambio ricevendo borbottii e sonnolenti versi di avvertimento, ma in fondo molti altri stanno facendo esattamente la stessa cosa e lo spazio è poco. Alcuni tornano a dormire, gli altri invece camminano nella mia stessa direzione. Stiracchiano le braccia, si grattano il mento e finiscono di chiudersi la tuta; un unico fiume di corpi diretto nello stesso luogo, verso il fondo del dormitorio.
Il bracciale elettronico che ho al polso emette un bip, riconoscendo l’IP del ragazzo che ora cammina al mio fianco: - Res. – mi saluta Thro Fayson: ci conosciamo da anni ormai, abbiamo cominciato insieme, in questo posto. - Ci aspetta un’altra notte di baldoria, sei contento? – scherza lui, ma io non la prendo altrettanto bene, ho sempre fatto fatica a condividere il suo spirito, soprattutto appena sveglio. Thro parla sempre troppo, la sua linguaccia mi ha procurato non pochi problemi, è vero, ma è un bravo ragazzo... e dove non riescono le sue parole, di solito rimediano i miei pugni. O quelli di...
Un altro bip: anche Nite Ritkov ci ha raggiunti e risponde per me alla battuta del nostro compagno di squadra: - Come no! Stiamo proprio facendo le capriole dalla gioia. - dice passandomi un braccio dietro il collo, facendomi piegare in avanti sotto i suoi due metri e trenta d’altezza. Sì, anche a Nite piace parlare appena sveglio e ancora di più il contatto fisico, ma lui è il mio più vecchio amico e ormai ci ho fatto l’abitudine.
I bracciali identificativi hanno registrato che la nostra squadra è al completo, e questo vuol dire che possiamo unirci alle altre squadre, davanti ai portelloni di uscita.
Davanti a noi un’altra squadra di tre elementi già formata si avvicina al portellone di metallo pressurizzato, che collega il grosso hangar in cui dormiamo direttamente con l’esterno. Uno dei manovali si volta, guarda le altre squadre: sono molte, ma solo quelle più sfortunate da essere arrivate alla porta per prime, andranno a lavorare questa notte. La nostra è la seconda e quindi ci tocca la solita fortuna di qualche straordinario non retribuito. Un membro della prima squadra si avvicinano alla porta, mettendo entrambe le mani sulla barra di apertura: - MASCHERE! – ordina e nessuno se lo fa ripetere. Tiriamo su la zip delle tute da lavoro, fino a che il colletto nero ricoperto di plastica ci copre il naso e la bocca. Con una serie di sibili attutiti, le maschere incorporate aderiscono alla parte inferiore del viso di ognuno di noi e si bloccano, cominciando a filtrare l’aria.
Il portellone viene fatto scorrere e noi corriamo all’aria aperta uno dopo l’altro, prima di richiuderlo in fretta e furia con un tonfo. Nonostante la maschera ci permetta di respirare senza beccarci chissà quali malattie, non fa molto per il puzzo tremendo che si respira quaggiù, all’ultimo livello: tutte quelle stronzate che ci dicevano i primi giorni “Ci si abitua!” “Tranquilli, tra qualche mese non ci farete più caso!”... stronzate appunto.
L’unica differenza rispetto a cinque anni fa è che ora sono un manovale dei primo settore e qui nessuno si lamenta più, caso mai ringraziamo di avere le maschere che quelli prima di noi non avevano
“Ringraziate di avere i rampini magnetizzati, adesso!” “Guardare che una volta scarponi ad attrito graduato se li sognavano!” “Vedete di non romperle, tra voi e un bel cancro ai polmoni c’è solo quella maschera!” Il capo direzione lavori non fa che ripetere sempre le solite cose, dalla mattina alla sera... lo odiano tutti, un raccomandato di merda, dicono: è stata sua madre a inventare le maschere e la sua equipe le ha inserite in modo funzionale nel nostro equipaggiamento, circa otto anni fa. Come risultato immediato, il figlio dell’inventrice ha sorpassato quelli che avevano sputato sangue per il posto di capo direzione lavori e gliel’ha soffiato da sotto il naso. Ora è lui a far partire la sirena che ci ha spaccato i timpani questa notte e quelle precedenti, ed è lui a ricordarci che meno errori si fanno alla luce del giorno meno se ne devono riparare poi nel cuore della notte. Sinceramente, non scambierei il suo lavoro col mio neanche per mezzo milione di rett: talmente odiato e sfottuto da tutti... mi stupisco che dopo otto anni sia ancora tutto intero.
Attraversiamo la strada avvolta nella nebbia giallognola che fa sembrare sempre tutto appannato e malato. Da un lato si estendono i dormitori, edifici bassi, non più di due piani, colorati a seconda del tipo di operai che ci passano le notti, dall’altro le viscere tortuose e infinite dell’Alcova:  ovvero ciò per cui ci ammazziamo di fatica ogni santo giorno e non poche notti.
Aspetto che siano entrati tutti e poi li seguo nell’ascensore di manutenzione, chiudendo la grata di sicurezza. Tre delle sei squadre scendono dopo solo quattro piani: cercheranno e ripareranno al più presto i problemi nel condottò d’entrata dell’areazione dell’Alcova, nove uomini scaricati alla base di quel grosso motore ronzante che sarà grande come cinque dormitori. Al livello sette scendiamo anche noi tre insieme alle altre due squadre. Siamo sempre nello stesso motore di areazione, solo qualche piano più su degli altri. Ormai lo conosco bene, la nostra squadra se ne occupa da tre anni.
I settori di lavoro tra noi operai sono tre: primo, secondo e terzo settore.
Il mio è il primo settore: uomini dai ventidue ai trentacinque, i più forti e esperti, in poche parole, i migliori. Il terzo settore è quello dei pivelli, dai quindici ai vent’anni circa, quelli che di solito combinano i casini, quelli che vengono lasciati a dormire fino alla terza sirena, che se suona vogliono dire guai seri; e poi c’è il secondo settore, quello che tutti sperano di non fare mai: è lì che va a finire chi non trova un buon posto in un reparto superiore. Sono i più esperti, certo, ma solo perché lavorano come manovali da... sicuramente da troppo tempo, e nessuno vuole fare il manovale per tutto quel tempo.
Ricordo che eravamo entrati nella FOSM da tre anni quando io, Thro e Nite venimmo fatti avanzare nel primo settore.
Mi piaceva l’idea di non essere più considerato un ragazzino alle prime armi e, anche se non sono uno che esulta come Thro (quel pazzo era uscito dall’ufficio del direttore lavori per ultimo con un sorriso più grande di una casa, aveva urlato, facendosi sentire da tutto il quinto piano “Sì, cazzo! Siamo dei grandi!” e aveva abbracciato Nite stampandogli un bacio sui cortissimi capelli viola cupo. Guadagnandosi un pugno sul naso e un sorriso, che è il modo di Nite per manifestare gioia condivisa e affetto. Io avevo semplicemente dato una pacca ad entrambi: “Dai, vi offro qualcosa.”), ero felice di quella promozione, dell’aumento sullo stipendio e di poter continuare a lavorare con loro a qualcosa d’importante, come il motore per il filtro dell’aria dell’Alcova, ma la poca esaltazione che avevo provato nell’eseguire le nuove mansioni era sfumata subito, ricordando che, di motori come questo, ce ne sono altri diecimila. Per ognuno dei quali lavorano circa 570 uomini l’anno. Non ho mai ragionato su quale enorme numero di individui ne esca fuori.
- Ecco il problema. – Thro indica una trave di acciaio che si è staccata dal sostegno e ha forato un condotto di cinque metri di diametro. Lo squarcio sarà lungo due metri e il fumo giallo-verde che sta riempiendo la stanza non mi dice nulla di buono. - Che vi avevo detto? Ci sarà da divertirsi! - Se solo anche io potessi prendere così un lavoro di saldatura nel cuore della notte...
- Sarà stato uno di quei maledetti ragazzini... una trave di quelle dimensioni non cade per magia. – borbotta uno dell’altra squadra. E io sospiro, senza dire nulla.
- Dai, diamoci una mossa, o qualche donna vorrà le nostre teste! – esclama Nite: ridiamo, ma sappiamo tutti che questa è una possibilità che non può mai essere esclusa.
- Prendo i cavi di traino e salgo su, ci penso io a fissare la trave. – dico.
- Ce la fai da solo? - chiede Thro, dubbioso: mi crede un po’ troppo spericolato. Semplicemente mi fido delle mie capacità e, per quanto i miei amici siano dei bravi carpentieri, io preferisco lavorare da solo.
- Voi pensate ad agganciarlo e a tirarlo su, lo so che le altezze non fanno per voi. - ribatto ad entrambi.
- Ha parlato la bimba del cielo! Dì, sei nato sulla cima dell’Alcova forse? – ride Nite.
- Perché, tu? – lo riprende Thro. – Idiota, siamo tutti nati lassù!
- Già, e un’ora dopo ci avevano già buttato nel fondo dell’inferno. – ribatto io.
Infilo un auricolare, sospiro un “play” e, mentre il lettore musicale mi accontenta, comincio a salire una scala che pare infinita.
 


Salve! Questo è il vero primo capitolo. Scrivendo questa storia sto sperimentando modi di scrivere che non mi sono molto usuali, ma spero riescano a trasmettere quello che voglio al meglio. La scelta di un vocabolario semplice e un po' ripetitivo è "colpa" di questo personaggio, ho voluto rendere che tipo è anche attraverso la scrittura (è una delle cose più difficili che abbia mai fatto) e spero che stia venendo decente.
Se qualcuno sta leggendo, un commentino, please? :)

 
  
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