La corsa infrenabile della staticità
Capitolo I
Ricordo ancora la prima volta che l’ho visto.
Ricordo ogni minimo dettaglio. Ogni minimo respiro, ogni minima sensazione,
ogni minimo pensiero.
Stavo mangiando una pasta al cioccolato e, un cappuccino caldo al solito bar.
Non si muoveva niente, era tutto statico come se il tempo si fosse fermato in
quel piccolo angolo di città. Una calma apparente che sarebbe diventata una
tempesta forte: un uragano. Il mio uragano.
Osservavo le persone camminare assorte, passare veloci, chiedere un caffè e
ripartire. Mi piaceva, e mi piace tuttora, osservare le persone mentre sorseggiano
il caffè, in modo assorto e pensieroso: in quell’istante si prendono una pausa.
Una pausa dalla vita. E mi faccio mille domande su di loro, oh sì, penso di
aver incontrato tante vite cui ho dato una trama. Soprattutto mi chiedo se
erano felici. Se erano felici della loro vita.
Quando le osservo, sono discreta, e presto attenzione hai dettagli, quei
dettagli che nessuno mai osserverebbe, se non io.
A quel tempo ero sola, sola con un cognome troppo grande da portare, un lavoro
che amo, quello di avvocato, ma di cui ero spaventata. Una come me la
incontreresti dappertutto. E questa consapevolezza mi straziava.
I miei capelli sono corvini con sfumature bluastre, ho un viso pulito che ho
imparato a truccare finemente, con un filo di matita, un po’ di mascara e un
velo di fard, dopo i mille consigli e ammonizioni delle mie amiche. A detta loro
ho un profilo regale, dolce, che non passa inosservato come il mio corpo. A quel
tempo non credevo a niente di quello che mi dicevano: perché se avevo una consapevolezza,
era che io non mi piacevo, mi sentivo brutta e poco aggraziata. Pensavo che non
sarebbe stato carino dire a una donna che era troppo brutta. A volte le bugie
sono migliori della verità. A volte menti per non perdere qualcuno, perché sai
quanto la verità faccia male.
Ed io, sì io Hinata Hyuga le menzogne le conosco. Il mio lavoro è dire
menzogne, come nella mia vita.
All’età di ventisei anni compiuti avevo una consapevolezza che mi lasciava
basita: niente sarebbe cambiato dalla mia vita. Io sarei sempre stata la solita
ragazza timida ma aggraziata, la buona amica di tutti che mai, e poi mai,
sarebbe stata felice.
Non c’erano uomini nella mia vita. Ci avevo provato, eccome se ci avevo
provato. Ma i risultati avevano deluso notevolmente le mie aspettative. Dei
pochi ragazzi che avevo avuto, talmente poco da contarli sulle dita di una sola
mano, non ero mai stata la prima scelta di nessuno.
Sapevo di essere quella che ti piace, ma di cui non vai matto, di quelle che
appena arrivano due occhi belli e attraenti, te la dimentichi, di quelle cui
scrivi solo quando hai tempo.
Non ero mai stata il primo amore di nessuno, né l’ultimo. Non ero mai stata
così importante che “Per lei farei tutto”, non ero mai stata il “Ne vale la
pena”, né “Lei è quella giusta”. Ero l’eterna seconda, quella del “Non
abbastanza”. Ero una di quelle che si faceva mille domande su se stessa e che
della sua insicurezza ne faceva un’ arma di autodistruzione. Così non pensavo
agli uomini, o almeno credevo di non pensarci.
Ma pensavo all’amore. Ogni giorno della mia straziante vita pensavo a quel
sentimento così potente, così in grado di stravolgere le vite delle persone.
Un'altra consapevolezza che avevo era che quella luce, quel batticuore, quel
senso di potenza io, non l’avrei mai provato. Mai.
Seduta al mio solito posto, al solito bar, vedevo passare le stesse facce. La
donna vedova che ancora, dopo anni, comprava il giornale del marito defunto. La
bambina che girovaga per il locale, figlia della giovane signora che assorta
beveva il caffè leggendo il menù dei panini, sempre il solito. Il giovane uomo
che leggeva assorto un libro, e che fugace guardava delle liceali chiassose che
mostravano orgogliose il loro fisico acerbo.
La barista appariscente continuava a sfregare di mala voglia un bicchiere ormai
asciutto, soffiando verso il vecchio ceco del bar che le raccontava la solita
storia.
Ricordo che respirai quella calma. Mi era famigliare.
Una folata di vento, improvvisa, così insolita mi fece sussultare.
Entrò qualcuno. Qualcuno che mai avevo visto. Non sapevo che quel ragazzo avrebbe
rotto quella staticità apparente della mia vita. Per quel giorno mi accontentai
di pensare che avesse interrotto semplicemente l’atmosfera del bar.
Entrò così, semplicemente: un sorriso sghembo, l'aria spavalda da uomo
indomabile. Lo osservai, incuriosita e intimorita allo stesso tempo e come
sempre osservo le persone, mi feci delle domande su di lui. Solo che, più lo osservavo
più mi sentivo agitata, più sentivo le mie gote avvampare. Quei capelli giallo
grano sembravano un raggio di sole caduto apposta nella caffetteria, quella
pelle bruciata dal sole sembrava quella di un arabo nobile e solitario. Ricordo
che avvampai e abbassai lo sguardo, per poi rialzarlo, ipnotizzata da lui. E lo
fissai per tutto il tempo, osservando i suoi movimenti, osservando le labbra
che si inclinarono in un sorriso gentile per la barista, ordinando un caffè
espresso alto, finché non si accorse che lo fissavo. Fra
le tante quegli occhi azzurri così ipnotici, stavano fissando me. Sì proprio me
che non avevo nulla di bello o di provocante come la giovane barista che,
incurante di tutto, mostrava il seno.
Intimorita, osservai il biondo, che mi sorrise, con quell’aria sincera,
malinconica e guerriera, mentre con il dito indice si toccò l’angolo della
bocca. Non avevo mai visto nulla di simile. Mai avevo visto un sorriso così.
Mai un uomo mi aveva sorriso in quel modo. Mi fece vibrare l’anima.
Ricordo e arrossii e mi voltai, pensando che una donna più bella di me fosse
passata dietro. Non vidi niente tutto era monotono e calmo come al solito. Ma
non la mia mente, la mia mente scorreva veloce sotto il suo sguardo.
Poi spostai la mano verso la mia bocca, in modo meccanico come a sfidare me
stessa. Sentii qualcosa di viscido sporcarmi il dito che, aderì perfettamente
all’indice. Osservai la piccola goccia di cioccolata scendere lenta, lasciando
una scia scura sulla mia pelle bianca.
Alzai il viso verso l’uomo che, sorrise compiaciuto.
Ricordo solo che avvampai e poi mi rifugiai nel mio mondo, fatto di castelli di
carta.
Oggi mi chiedo una cosa, una cosa che da tanto, forse troppo tempo mi chiedo:
fu colpa mia, o del cioccolato?
Nota dell’autrice
Salve ragazzi! Ormai sarà più di un anno che non scrivo più e questo più che
altro è un piccolo esperimento! Non ho nulla da dire, perché sarà molto breve
come storia, anzi di pochi capitoli!
Lascio a voi la parola! Vi chiedo di essere sinceri e dirmi cosa ne pensate!
Con affetto! Bacioni!
Vostra Hina93