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Autore: beagle26    13/08/2014    6 recensioni
Londra. Elena Gilbert, giovane scrittrice di belle speranze, dopo mille porte in faccia è riuscita a pubblicare con successo il suo primo romanzo.
Il merito è dovuto soprattutto all'intervento del giovane editore titolare della casa editrice “Tristesse”, che tra consigli non richiesti e qualche modifica di troppo, ha portato il libro in vetta alle classifiche di vendita.
Ma cosa succederà quando Elena verrà colta improvvisamente dal famigerato blocco dello scrittore?
AU - TUTTI UMANI
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Caroline Forbes, Damon Salvatore, Elena Gilbert, Elijah, Stefan Salvatore | Coppie: Damon/Elena, Damon/Katherine
Note: OOC, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 2 – TRISTESSE BOOKS
 
 
Happiness hit her like a train on a track
Coming towards her stuck still no turning back
***
La felicità l’ha colpita come un treno su un binario
Che arriva verso di lei che è bloccata, ancora non si volta
 
Dogs Days are over – Florence + The Machine
 
 
 
Emily pedalò verso casa più velocemente che poteva.
 
 
Il vento La brezza della sera le scompigliava i capelli.
 
 
Quando aprì la porta, sua madre era già lì.
 
 
 
Fine capitolo 35
 
 

Premo il tasto cinque con un gesto fin troppo teatrale, affannandomi subito dopo a rincorrere l’icona blu – quella raffigurante un floppy disk – con il cursore del mouse.
Non sia mai che ciò che sono riuscita a produrre nelle ultime due ore vada perso per una stupida distrazione, un calo di corrente o che so io.
Non appena mi sono accertata che il contenuto del documento sia stato archiviato nella memoria del computer (e solo dopo aver salvato il tutto anche su una chiavetta USB e su un hard disk esterno), mi rilasso sulla mia poltroncina girevole, stiracchiando le braccia e facendo schioccare le dita indolenzite dal troppo battere sui tasti, per poi gettare una pigra occhiata fuori dalla finestra.
 
Il tempo oggi è triste e uggioso. Il che, a dire il vero, corrisponde alla situazione meteo londinese nel novanta per cento dei giorni dell’anno.
Non mi lamento, a me la pioggia piace. Ricordo che mia madre mi definiva sempre come una meteoropatica al contrario.
Per qualche secondo ancora indugio nel pensiero dolceamaro di lei.
Chissà cosa penserebbe se mi vedesse adesso. Adesso che ho realizzato il mio sogno, che posso vivere di quello che ho sempre desiderato.
Adesso che non sono più costretta a destreggiarmi fra un Crispy McBacon e una Coca Cola gigante mentre un ragazzino presuntuoso qualunque mi rovescia in mano un sacchetto di penny con i quali intende pagare la propria ordinazione.
 
Sorrido allo schermo del mio Mac.
Ancora un capitolo, uno soltanto. Dopodiché il mio secondo romanzo sarà completo. Il solo pensiero mi riempie di una strana sensazione… Malinconia forse? Ansia da prestazione dopo il successo inaspettato di Lieto Fine? Non saprei dirlo con precisione.
So solo che improvvisamente scatto in piedi come punta da un ago invisibile, agguanto l’innaffiatoio rosa di plastica posato sul davanzale proprio davanti a me e mi affretto verso il lavandino della cucina per riempirlo.
Necessito di tutta l’influenza positiva del mio bonsai portafortuna per poter concludere l’ultimo capitolo del mio romanzo nel migliore dei modi – penso – mentre lo annaffio con cura e controllo che abbia tutte le foglioline al proprio posto.
Conclusa la meticolosa opera di giardinaggio mi lascio di nuovo cadere sulla sedia, facendo scivolare lo sguardo sul pavimento per poi sollevarlo, un po’ timorosa, sulla parete alla mia sinistra.
Il muro della vergogna è ormai sgombro delle mille lettere di rifiuto che lo costellavano come tanti promemoria della mia incapacità come scrittrice.
Non appena Lieto Fine ha raggiunto un numero dignitoso di copie vendute, Caroline ha avuto la brillante idea di fare un bel falò di tutta quella cartaccia, come la chiamava lei.
 
Tutto ciò che rimane di quella che un tempo era una bacheca straripante è una vecchia foto, che mi ritrae in una versione molto più giovane, con i capelli sciolti sulle spalle e una ridicola salopette di jeans, mentre abbraccio l’uomo che ho sempre considerato il più importante della mia vita: mio padre.
In questo momento però non è quell’immagine a catturare la mia attenzione.
I miei occhi si soffermano un secondo di troppo su un insignificante foglio bianco, punteggiato da piccoli caratteri che, da questa distanza, appaiono come tante righe nere e indistinte.
Mi avvicino alla parete, quel tanto che basta per allungare la mano e sfiorare la superficie liscia di quella carta preziosa, lasciando scorrere un dito sull’intestazione.
ABP - Associated Book Publishers.
Tre parole all’apparenza banali, che potrebbero cambiare per sempre il corso della mia vita.
Com’è che si dice in questi casi? Se me lo avessero detto un anno fa non ci avrei mai creduto.
 
 
 
Gentile Signorina Gilbert,
siamo spiacenti di comunicarLe che il Suo romanzo “Le angosce senza fine di mio padre” non è stato preso in considerazione per la pubblicazione. Troviamo che il testo sia poco ispirato.
Ci permettiamo di suggerirLe di effettuare un’analisi più approfondita dei personaggi della Sua opera.
Distinti Saluti

 
Afferrai una puntina rossa fra il pollice e l’indice, scrutando con gli occhi la bacheca alla ricerca di un angolino libero.
Non potevo certo fare a meno di appuntare l’ennesimo suggerimento ricevuto.
Un sospiro frustrato sfuggì alle mie labbra. Quelle parole, cortesi quanto distaccate, mi rimbalzarono in testa come la pallina impazzita di un flipper.
Nel frattempo, la vocina fastidiosa che avevo imparato a conoscere fin troppo bene sembrava volermi salire prepotentemente dallo stomaco, urlandomi di lasciar perdere quella follia una volta per tutte.
 
“Stai zitta!” gridai, sgranando gli occhi quando realizzai di essere completamente sola in casa.
Tutta quella situazione mi stava dando alla testa, era ormai evidente.
Quella mattina però sentivo che qualcosa avrebbe potuto cambiare.
Avevo percepito una strana sensazione quando, qualche giorno prima, rispondendo al telefono, una voce maschile lievemente impacciata aveva pronunciato il mio nome.
 
“Elena Gilbert?”
 
“Sono io!”
 
“Buongiorno. Chiamo dalla Tristesse Books. Si ricorda? Ci ha spedito il suo manoscritto e…”
 
“Vi è piaciuto? No? Vi ha fatto schifo. Voglio dire… lo capirei. Può essere sincero con me, del resto, sono al primo tentativo e…” lo assalii.
 
“Calma, calma. Io non ne ho idea, Elena. È mio frat… voglio dire, è il capo editore che si occupa della selezione delle opere. Io sono semplicemente stato incaricato di convocarla per un colloquio.”
 
“Oh. Oh. Certo. Quando si può fare?”
 
Un colloquio. Era la prima volta che mi capitava.
Le opzioni potevano essere due. Il mio romanzo aveva colpito nel segno o, semplicemente, un editore senza peli sulla lingua aveva deciso di sfogare su di me tutte le sue frustrazioni.
Di persona stavolta, tanto per essere originale.
Non sapevo prevedere cosa mi aspettasse, ma quella voce così garbata al telefono mi incoraggiò a tentare il tutto per tutto. Del resto, non avevo proprio nulla da perdere.
Perciò staccai dalla bacheca il post-it giallo sul quale avevo annotato l’indirizzo e mi diressi a passo svelto verso la porta di casa.
 
La Tristesse  Books, a differenza delle altre case editrici che conoscevo, perlomeno di fama, pareva trovarsi ben distante dai quartieri finanziari della City.
L’indirizzo indicatomi dal ragazzo gentile mi portò in una via piuttosto isolata di Shoreditch, l’ex quartiere industriale dall’aspetto eclettico, dove i grandi magazzini di un tempo erano stati  trasformati in gallerie d’arte, botteghe di abbigliamento vintage e giganteschi negozi di dischi che sparavano musica a tutto volume.
 
Dopo aver recuperato una massiccia dose di caffeina in un bar ricreato all’interno di un vecchio autobus rosso fuoco, una delle tante stranezze di quel quartiere, raggiunsi una piccola porta dipinta di verde scuro sulla Columbia Road.
Fui costretta a ripescare il post-it nella tasca dei jeans per ricontrollare l’indirizzo, accertandomi che fosse quello giusto.
Quella sembrava a tutti gli effetti una normalissima abitazione. Nulla a che vedere con i giganteschi grattacieli tra i quali passeggiavo spesso, masochista come solo io sapevo essere, sollevando il naso all’insù in cerca del profumo dei libri che immaginavo nascondersi oltre le vetrate a specchio.
 
Il mio indice tremò leggermente quando allungai la mano verso il bottone dorato del campanello. Esitai qualche istante, dopodiché lo premetti forte. Riuscii a percepire il trillo arrugginito che si riverberò oltre la porta, seguito da un rumore concitato di passi agitati e voci che si rincorrevano.
 
“Stefan! Vai ad aprire!”
 
“Cazzo Damon, sto finendo di vestirmi…”
 
“Cosa vuoi che gliene freghi al postino se non sei pettinato. Fosse la prima volta! Io ho da fare…”
 
Non feci in tempo ad estrarre nuovamente il foglietto giallo dalla tasca, ormai sicura di aver commesso un errore madornale, che la porta si spalancò di fronte a me.
Un ragazzo alto dai capelli biondo cenere mi osservò da capo a piedi con un’espressione a metà fra lo sbigottito e l’imbarazzato.
Aveva uno spazzolino da denti in bocca e la camicia mezza sbottonata.
Teneva una mano ancora appoggiata alla maniglia, mentre con l’altra reggeva un flacone di gel per capelli, consumato per tre quarti.
 
“Chiedo scusa… ho… sbagliato indirizzo. Cercavo una casa editrice, ma è evidente che devo aver confuso il quartiere. Sono così imbranata…” biascicai, senza terminare la frase e coronando quell’accozzaglia di parole senza senso con una risatina isterica.
Maledetto caffè.
Nel frattempo, quella specie di Ken a grandezza naturale si era sfilato lo spazzolino dalle labbra, ancora corrucciate per la sorpresa. Subito dopo aveva sbattuto le palpebre un paio di volte, rivelando uno sguardo verde pallido ancora piuttosto confuso.
 
“Elena Gilbert?” chiese, con la stessa inflessione del ragazzo gentile al telefono.
Solo allora capii con chi avevo a che fare.
Spalancai gli occhi e sorrisi sincera, mentre lui cercava di ricomporsi e si faceva da parte, invitandomi ad entrare senza aggiungere altro.
 
Quando il ragazzo gentile dagli occhi verdi mi condusse nel salottino che ipotizzai essere la sala d’attesa, facendomi cenno di accomodarmi per dileguarsi un secondo dopo, non potei fare a meno di notare qualche altro particolare bizzarro.
Le pareti erano letteralmente tappezzate di libri, in un’accozzaglia di colori e autori che non avevo mai visto prima di allora. Grandi classici della letteratura si contrapponevano a nomi totalmente sconosciuti.
 
Mi persi a scrutare fra gli scaffali per qualche minuto, fino a che la mia attenzione non fu catturata da altri dettagli inusuali.
Il tavolino di fronte al divano in pelle era ingombro di carte e di quelli che sembravano essere gli avanzi di una cena cinese, con tanto di bacchette affondate in un grumo di spaghetti avanzati dall’aria poco invitante.
Molto strano. Forse qualcuno aveva dimenticato di mettere in ordine dopo una riunione operativa.
Inquietanti erano pure gli strepiti che sentivo provenire dalla stanza adiacente, dove una voce arrabbiatissima stava pronunciando una serie irripetibile di insulti ad un qualche malcapitato.
Non riuscii ad afferrare benissimo la conversazione oltre la porta chiusa, ma non potei fare a meno di augurarmi che quella voce non appartenesse al famoso editore capo dal quale attendevo udienza.
 
Mentre rimuginavo su quell’eventualità, afferrai distrattamente un mucchietto di stoffa nera incastrato tra un cuscino e l’altro del divanetto in pelle.
Cercai di districare quella piccola matassa tra le mie mani. Proprio quando realizzai che si trattava di un paio di boxer, un rumore di tacchi echeggiò sul pavimento di legno.
Stavo ancora reggendo le mutande tra le mani quando due piedi infilati in un paio di tacchi vertiginosi si piazzarono proprio davanti a me.
Sollevai gli occhi timidamente, percorrendo due lunghe gambe fasciate da un paio di pantaloni neri dal taglio elegante, seguite da una svolazzante camicetta di seta bianca e, subito dopo, da una massa di boccoli biondi che emanavano un intenso profumo di vaniglia.
Due occhi azzurri e curiosi mi osservavano taglienti, mentre scattavo in piedi imbarazzata e allungavo una mano per presentarmi.
 
“Sono Elena Gilbert. Ho un appuntamento con… uhm… Mr. Salvatore, credo.”
 
“Oh, il capo. Auguri. Oggi sembra di ottimo umore.” rispose quella, sfoderando un sorriso abbagliante.
Che diavolo ci faceva quella specie di cheerleader in una tale gabbia di matti, tra avanzi di cibo e intimo maschile?
Lei non sembrò far caso alla mia espressione perplessa. Posò una pila di fogli sul solito tavolino per poi stringere calorosamente la mano che tenevo ancora sospesa a mezz’aria come un’idiota.
 
“Sono Caroline Forbes, l’addetta alla contabilità e… una quantità di altre cose. Il capo dovrebbe liberarsi a momenti. Posso offrirti un caffè nel frattempo?”
 
“Sarebbe fantastico.” risposi incerta, tanto per essere gentile.
Pessima, pessima idea.
Il mio nervosismo stava raggiungendo picchi stellari. Quando Caroline si allontanò non ero più sicura di voler davvero incontrare il tizio esagitato dall’altra parte della porta chiusa.
Nella mia mente quell’uomo assumeva sempre più le sembianze inquietanti di un mostro gigantesco.
E poi, chi diavolo aveva mai sentito parlare della Tristesse Books? In tutta la vita non mi era capitato nemmeno una volta di imbattermi in un libro edito da loro.
Vittima del mio istinto di sopravvivenza e decisa a non subire altre inutili umiliazioni, afferrai la borsa che avevo poggiato sul divanetto e mi avviai verso la porta, tentando di fare meno rumore possibile.
Ormai avevo raggiunto l’ingresso. Stavo per attraversare la soglia e dileguarmi nella nebbia quando la porta scura del corridoio si spalancò. Ne uscì una ragazza bionda dall’aria scarmigliata, con il viso rosso e gli occhi gonfi di lacrime.
 
“Non puoi trattarmi così!” urlò, rivolgendosi al misterioso tizio che ancora non usciva dalla stanza.
 
“Certo che posso. Non penserai che metta il mio nome su una porcheria del genere. Puoi  fare di meglio.”
 
La bionda gettò un’ultima occhiata in direzione della voce che aveva parlato.
Il suo labbro inferiore tremava, come se fosse sul punto di esplodere in un pianto disperato. Tuttavia non disse più nulla. Esitò un istante per poi precipitarsi nella mia direzione come una furia, infilando la porta senza degnarmi di un solo sguardo.
Rimasi attonita, incapace di muovermi ma col desiderio sempre più impellente di sparire. Non ce ne fu il tempo. Una figura scura si era affacciata dalla stanza degli orrori, mentre io ancora me ne stavo lì, pietrificata come una statua di sale.
 
“Elena Gilbert?”
 
Il ragazzo, perché di un ragazzo si trattava, guardò a sinistra e poi a destra. Io rimasi ferma, con una mano sulla maniglia e l’altra occupata a stringere… qualcos’altro.
 
“S.. sono io.” farfugliai.
 
Lui piegò lievemente la testa da un lato. Un lampo divertito attraversò i suoi occhi.
Erano di un azzurro indefinibile, tanto che per qualche millesimo di secondo mi persi a fissarne le sfumature. Non mi resi nemmeno conto che nel frattempo lui si stava avvicinando, attraversando il corridoio a grandi passi.
 
“Credo che questi siano miei..” sorrise, curvando appena le labbra solo da un lato.
Realizzai con orrore di star stringendo ancora un certo pezzo di stoffa nera fra le mani.
 
“Cos’è vuoi portarti a casa un souvenir?” continuò, sempre più divertito “Coraggio, accomodati.”
 
 
Vrr Vrr Vrr
 
Il cellulare vibra contro il piano della cucina, illuminando ripetutamente una foto mia e di Care scattata qualche mese fa, al party degli English Fiction Awards.
Eravamo davvero allegre, entrambe un po’ brille, ma per motivi diversi.
Premo con un dito il pallino verde, immaginandomela dall’altra parte, seduta alla sua scrivania con il telefono incastrato tra la spalla e l’orecchio e gli occhi fissi sulla sua calcolatrice.
 
“Ehi.” esordisco.
 
“Buongiorno, mia talentuosa scrittrice. Come sta andando?”
 
“Per la verità benissimo. Ancora un capitolo e la bozza sarà terminata. Penso di riuscire a consegnarla a Damon nei prossimi giorni.”
 
Non appena le parole escono dalle mie labbra si trasformano in autentica consapevolezza.
Mi trovo di fronte a una svolta importante, ma soltanto adesso che l’ho detto ad alta voce me ne rendo conto veramente.
I miei obblighi contrattuali con la Tristesse stanno per terminare. Domani potrei vedere il mio nome stampato su un volume della ABP, quelli bianchi e rossi che popolano le librerie di mezzo mondo.
 
“Allora perché ti sento così giù Elena?” chiede Care dall’altra parte, anticipando la domanda che si sta già materializzando nei miei pensieri.
Non le ho ancora parlato della proposta ricevuta, non so neanche io perché.
Del resto, io e lei ci siamo conosciute proprio grazie a Lieto Fine, e un po’ mi sento in colpa.
Ci siamo sempre dette tutto, e questo segreto comincia a pesarmi.
Ecco spiegata la sensazione fastidiosa che ha iniziato a farsi strada nel mio stomaco, facendomi sentire a disagio.
Una cosa è certa però: non mi dispiace affatto andarmene da quella gabbia di matti che è la Tristesse, una specie di nave alla deriva capitanata da un pazzo egocentrico con cui non voglio più avere nulla a che fare.
A dirla tutta non vedo l’ora.
 
 
L’ufficio di Damon Salvatore, questo il nome dell’editore a capo della Tristesse Books, si rivelò essere una stanzetta disordinata e stipata di libri come il resto di quello strano ufficio.
Più avanti avrei scoperto che quella non era nient’altro che la casa che Damon e suo fratello Stefan condividevano, entrambi troppo in bolletta per potersi permettere gli affitti esosi di un qualsiasi buco nella City.
Me ne stavo seduta sul bordo di una piccola sedia posizionata di fronte alla sua scrivania, anch’essa ingombra di fogli, mentre Damon faceva scivolare lo sguardo su quello che riconobbi essere il manoscritto che io stessa gli avevo spedito qualche settimana prima, accompagnato da un’accorata lettera di presentazione che lo pregava di prendere in considerazione la mia opera.
Avevo investito una fortuna in fotocopie, dopodiché avevo scorso l’intero elenco delle case editrici di Londra spedendo a tutte lo stesso identico plico, nella speranza di ottenere un qualche risultato.
La sedia di legno sembrava scottare. Quel silenzio prolungato e l’aria corrucciata di Damon mi impensierivano non poco. E se avessi ricevuto lo stesso trattamento della bionda di poco prima? Maledizione, dovevo scappare finché ero in tempo.
La tensione del momento non mi impedì di soffermarmi per un attimo su quella massa di capelli scuri, che lui si ostinava a tormentare con le dita senza alzare gli occhi su di me.
I suoi lineamenti erano decisi, lievemente offuscati dalla barba di un giorno che gli velava le guance. Quel suo viso così particolare sembrava dominato dai contrasti. Percorsi con lo sguardo la linea dritta del suo naso, scesi sulle labbra.
Arrossii, sperando che non se ne accorgesse. Era bello. Indiscutibilmente, oggettivamente bello.
Mentre quel pensiero mi attraversava la mente, i suoi occhi freddi come il ghiaccio si sollevarono dal plico per piantarsi sul mio viso. Sobbalzai leggermente.
 
“Veniamo subito al punto… Elena. Ho letto il tuo romanzo. Ci sarà bisogno di un grosso lavoro da parte tua. C’è molto… molto da rivedere. In primis il titolo. Le angosce senza fine di mio padre? Che roba è?”
 
“Veramente…”
 
“A parte questo, ho intenzione di pubblicarti. Di certo non mi aspetto grandi numeri, ma sono convinto che tu abbia del potenziale e… che diavolo fai?”
 
“Io… io… non lo so… stai dicendo che…”
 
Non fui in grado di mettere altre parole in fila. Scattai in piedi, rovesciando sbadatamente il contenuto di una cartellina sul pavimento per la troppa foga, mentre Damon mi guardava come se fossi appena fuggita da un manicomio. Gli occhi mi si riempirono di lacrime.
Potenziale? Io? Per la prima volta in vita mia ebbi la sensazione che qualcuno credesse in me.
 
“Terra chiama Elena. Si  può sapere perché stai piangendo?”
 
“Io… non sono mai stata così felice in tutta la mia vita.” dissi tutto d’un fiato, la vista appannata e il cuore gonfio di emozione.
 
 
 
“Si può sapere perché stai piangendo?”
 
La voce di Elijah mi giunge alle spalle. Solo allora mi accorgo della lacrima che mi sta scivolando sulla guancia solleticandomi la pelle. Ho ancora il telefono tra le mani. È evidente che, chiusa la conversazione con Caroline, mi sono persa in uno dei mei soliti viaggi mentali nel passato.
 
“Oh. Non è niente. Pensavo… beh, lasciamo perdere. Piuttosto, sarebbe ora di rimettermi al lavoro. Questa pausa è durata fin troppo. Ho un romanzo da terminare.”
 
“Brava ragazza.” mi sussurra, senza fare altre domande. Mi lascia un piccolo bacio dietro l’orecchio per poi allontanarsi e afferrare la giacca appesa accanto all'uscio. “Io esco, ho un appuntamento. Ci vediamo più tardi.” aggiunge, controllando la propria immagine riflessa nella specchiera per poi infilare la porta.
 
Sospiro forte, cercando di rilassarmi. Mi posiziono nuovamente davanti al Mac e riapro il documento salvato poco prima.
 
 
Capitolo 36

 
Rimango imbambolata per un po’, fissando il cursore che mi lampeggia negli occhi.
Sfioro la tastiera. Le dita tremano leggermente quando si posano sui tasti.
Frugo nei pensieri alla ricerca di una frase, una parola, una sillaba… qualsiasi cosa.
Ma non riesco a trovare altro che un desolante quanto spaventoso vuoto.
 
 
 
 
Ciao! Oggi sono di poche parole. Innanzitutto un doveroso e sentito GRAZIE a voi, che avete accolto la mia storia così bene. Grazie, grazie, grazie di cuore <3
Spero che questo secondo capitolo vi sia piaciuto e di non aver fatto troppo casino fra presente e passato… nulla, vi auguro buone vacanze (per chi le fa!) e in generale buona estate.
A risentirci presto, qui o su WF.
Un bacione.
Chiara
  
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