Prologo (Scritto da Mamoru Kurosawa) |
Vivo in una città
fortificata, con imponenti
muri bianchi, uomini in
armature argentate in giro
per le le strade del
mercato, cordiali e sempre
gentili con i cittadini che
salutano, non esistono
vagabondi o senza tetto, non
esistono mendicanti che
fanno elemosina o ladri e
banditi. Qui dove tutto è
così sereno e tranquillo, la
preghiera è vita, la
preghiera è parte stessa
dell'uomo. Le donne curano
la famiglia, e mantengono
l'ordine nelle case, i
mariti o i fidanzati
proteggono il loro nido
d'amore e le nuove
generazioni, chi come
soldato, chi come semplice
lavoratore in proprio.
Camminando sotto la luce del sole, il mio soprabito di stoffa leggera e di colore nero, si riscalda come se qualcuno mi abbracciasse in una sera d'inverno, e con amore e premura mi sento come un bambino fra le braccia della madre, una donna che io non ho mai avuto l'onore nè il piacere di conoscere. I miei stivali di pelle battono sui ciottoli della piazza con piccoli e acuti tum, un suono che se ascoltato attentamente, può ipnotizzare e volgere l'attenzione di chi ode su di me. Le vergini fanciulle alle bancarelle per un attimo si dimenticano dei loro doveri, concedendosi un breve istante di piacere nel guardare la mia andatura veloce e sfuggente, che tutta d'un tratto al suono delle campane provenienti dalla chiesa, muta in una corsa frenetica. Ricambio alcuni loro sorrisi con un occhiolino o con una mano, che aprendosi a ventaglio, si porge a mo' di saluto all'altezza del mio volto. Non cerco di illudere nessuna delle presenti, la loro bellezza per me non rappresenta un aspetto che io pongo nei miei interessi, perchè come un fiore, essa è destinata ad appassire e morire. Oggetto di desiderio per molte ma fonte di timori per altri, questa è l'essenza della mia vita, racchiusa in così poche e semplici parole da far invidia perfino al signor Rivo, predicatore di quel Credo, per cui io non nutro tutta questa devozione, che invece gli altri dimostrano con continue preghiere e canti. Il mercato si fa troppo affollato, così allontanandomi dal suo nucleo, arrivo a toccare le mura del privo giro fortificato, che con un salto scalo per metà della sua imponenza, sotto gli occhi increduli e spaventati della gente, arrivando in cima con un altro slancio. Le guardie mi fissano, credono che il mio sia tutto esibizionismo, ma non sono io il responsabile di questa mia natura per metà umana e per metà demoniaca. Nascondo le mie braccia sempre sotto questo soprabito scuro, e nonostante tutti sappiano già cosa io celi con così tanta foga sotto la stoffa, continuo a farlo senza tregua. Le mani sono l'unica parte della mia diversità che io lascio libere di essere ammirate o temute, con il loro colore nero e le unghie più lunghe del normale, appuntite ma non eccessivamente affilate. La superficie rocciosa delle rovine poco lontane dalla città infatti, mi permettono di levigarle, e renderle così meno pericolose; i cittadini devono averlo notato o scoperto, per questo con il passare degli anni, si sono fatti più tolleranti e gentili, accettandomi per quello che sono: una creatura che per tutto questo tempo, non ha fatto altro se non cercare di apparire più umana possibile agli occhi degli altri. La chiesa apre suoi portoni, e le genti accorrono per assistere all'evento festivo del giorno, quello che io non mi sarei mai perso per nulla al mondo. |
La parola a Mamoru: Questo è il mio primo racconto fantasy, forse non brillerà per originalità se proseguirete la lettura dei prossimi capitoli, però devo dire che un racconto che mi ha catturato all'improvviso. Stavo ascoltando il canto di un'opera lirica alla radio, quando la storia ha cominciato a delinearsi nella mia mente, non mi sono fatto influenzare da elementi presi da altri libri, anche perchè se devo essere sincero, non ne ho mai letti di fantasy. Forse non mi uscirà scritto altrettanto bene come per "L'uomo nato da un fiore" ma ogni cosa che io scrivo, per me resterà sempre un piccolo tesoro. |