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Autore: Delilah Phoinix Blair    14/08/2014    6 recensioni
12 febbraio 2014
Il pianeta deve prepararsi ad una Terza Guerra Mondiale.
Tutti sanno che non è pronto, ma che è necessario.
Sarà una lotta per la libertà contro l'oppressione dell'uguaglianza ridotta ai minimi termini: il comunismo, così come lo conosciamo, non è una soluzione accettabile.
In questo fiume di sangue, un soldato e una ragazza troveranno il loro angolo di paradiso in Abruzzo per tenersi a galla l'un l'altra.
Dal testo:
"《Ti amo, piccola Dea.》 Dopo aver pronunciato quelle parole, accostò la fronte a quella di lei. La sua voce era una carezza.《Non con la consapevolezza che questa potrebbe essere l'ultima volta che i miei occhi incontreranno i tuoi. Non potrei amarti come meriti sapendo che la guerra potrebbe strapparmi a te in qualunque momento.》 Lo disse scandendo le parole lentamente, come a volerle imprimere sul cuore di entrambi. Fece una pausa accarezzando dolcemente quella pelle di porcellana con entrambe le mani ruvide e grandi. 《No, ti amo come se potessi davvero farlo per sempre.》
C'era qualcosa che stonava nelle lacrime amare che le piovvero dagli occhi, simili a frammenti del cielo in estate.
La loro estate."
Genere: Guerra, Introspettivo, Satirico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Grazie a DarkViolet92, aniasolary, Lady Angel 2002, Bijouttina, AstoriaGM, irishpoweryaya, PaulLahote, Shinkari che hanno recensito.
Grazie a _KillyourDarlings_, AstoriaGM che hanno aggiunto la storia alle seguite.
Grazie a DeliveredMe che ha aggiunto la storia alle preferite (Solo ora?! Bella migliore amica real che sei! <3)
Grazie a Hanna Lewis e Aniasolary per tutto il sostegno su Facebook.





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Times square can't shine as bright as you.



 
10 luglio 2014
 
Take me out, spin me around,
we can laugh when we both fall down.
Let’s get stupid dancing with cupid tonight.
When I sing out of key,
still play air guitar for me.
Let’s get stupid dancing with cupid tonight,
don’t feel all kind of right.
 
Era ormai già trascorso il primo mese di vacanza, ma Afrodite non si sentiva affatto riposata, anzi. Non riusciva a scrollarsi di dosso quella sensazione di quando rimani per troppo tempo con i muscoli contratti in una posizione scomoda, senza accorgertene, e nel momento in cui realizzi finalmente di non essere affatto rilassata e ti lasci andare, continua ad aleggiare sul tuo corpo una diffusa percezione di indolenzimento sordo e martellante. Da quando aveva parlato con Ryan, il giorno del suo compleanno, Afrodite si sentiva almeno un po' più tranquilla, ma questo non bastava a permetterle di godersi a pieno quell'ultima estate prima della vita vera a cui la fine del liceo avrebbe dato inizio.
Il tempo a Pescara quell'anno non era certo dei migliori e quelle nuvole, seppure chiare, che mitigavano la luce del sole senza rappresentare una vera e propria barriera contro il suo calore, non invogliavano certo a passare giornate intere al mare con le amiche.
Il nervosismo, peraltro, sembrava impregnare la terra stessa, non solo le persone, con la sua ansia latente che prometteva di diventare febbrile non appena il fragile equilibrio di paura e illusione fosse crollato sotto il peso del dolore. La gente iniziava a essere seriamente infastidita dal fatto di non poter avere contatti telefonici con i soldati al fronte, visto che i sudamericani avevano aumentato il ritmo dei tentativi di riprendersi Bogotà e i morti erano ormai all'ordine del giorno.
I telegiornali avevano dovuto accampare la scusa che i governi comunisti tenevano sotto controllo le linee telefoniche non solo locali, e quindi delle loro popolazioni, ma anche transoceaniche, e gli euro-statunitensi non potevano permettersi una fuga di informazioni. La verità era che non avrebbero mai rischiato la divulgazione in patria di ciò che stavano combinando.
Così le cose in Europa non cambiavano molto, tutto ciò che potevano fare era aspettare. Non si sapeva bene cosa, non si sapeva bene fino a quando, ma stavano tutti aspettando.
Visto che da quella sera di pioggia il tempo non si era ancora rimesso del tutto, Afrodite aveva trascorso pigramente gli ultimi giorni a casa, senza niente di davvero interessante da fare.
Giovedì, però, le nuvole decisero finalmente di lasciare un po' di tregua ai pescaresi e il sole potè di nuovo farsi vivo, così come fece anche Ryan.
《Buongiorno, piccola dea!》 lo sentì esclamare Afrodite non appena ebbe avvicinato il telefono all'orecchio.
《'Giorno》 rispose, con la voce ancora impastata dal sonno, tentando di mettersi seduta in quella trappola di lenzuola che era diventato il suo letto.
《Che programmi hai per oggi?》 la sua voce nascondeva un'impalpabile nota euforica.
《In realtà nulla, ho visto che è uscito il sole. Era ora!》 si ritrovò ad esclamare la ragazza, dopo essersi finalmente alzata ed aver accostato il viso alla finestra.
《Esatto, quindi direi che potrei passarti a prendere tra》 fece una breve pausa, probabilmente allontanando il ricevitore dall'orecchio per controllare l'orario. 《mezz'ora?》
《Hai intenzione di rapirmi ogni santa volta in cui il cielo si ricorderà che è estate?》 gli chiese ridacchiando, sapendo perfettamente quale sarebbe stata la sua risposta.
《Come minimo》 commentò lui infatti, interrompendo poi la comunicazione con una risata.
Afrodite dovette vestirsi in tutta fretta, come sempre da quando Ryan aveva preso quella mania di portarla in giro per l'Abruzzo, e salutò il padre con un bacio uscendo praticamente di volata e fiondandosi con trepidazione per le scale, nonostante avesse anche prenotato l'ascensore che però tardava ad arrivare.
Il sole non li aveva ingannati: appena si ritrovò fuori dal condominio i suoi raggi la scaldarono esattamente come la sua luce aveva anticipato attraverso il vetro delle finestre e subito sentì che l'atmosfera prometteva una bella giornata estiva.
Si guardò intorno cercando quell'auto familiare e trovandola quasi subito. Nonostante ormai si stesse abituando alla sua presenza, vederlo lì, appoggiato alla macchina con lo sguardo fisso su di lei come a volerla tenere un po' più vicina anche solo con quegli occhi, la destabilizzava sempre. Si avvicinò quasi trotterellando, ma non lo vide scostarsi per farla salire in auto nemmeno quando si ritrovò ad un passo da lui.
《Non mi fai salire, sottotenente Martins?》 gli chiese in tono giocoso, allontanandosi i capelli biondi dal viso per cercare un minimo di sollievo dal caldo.
Lui per tutta risposta non disse niente, si limitò a staccarsi dalla portiera, ritrovandosi a pochi centimetri dalla ragazza e approfittando di quella vicinanza improvvisa per eliminare ogni distanza tra loro.
《Buongiorno》 le sussurrò sorridendo sulle sue labbra, prima di sfregarle con le proprie. Rimasero immobili dopo quel breve contatto. Ryan non riusciva a distogliere lo sguardo da quelle iridi di un celeste che sembrava volergli leggere dentro ogni cosa con la sua purezza, soprattutto allora che loro ricambiavano quelle occhiate con sbigottimento. Proprio quando stava per raggiungere il posto di guida, Afrodite gli si avvicinò di nuovo, lasciandogli un dolcissimo piccolo bacio sulle labbra e improvvisamente sparì quella sensazione di aver osato troppo che non si era nemmeno reso conto di provare e lui potè davvero trovare la forza per allontanarsi da lei.
Salirono in auto con il volto illuminato da due timidi sorrisi che sembravano urlare: potete dirmi ciò che volete, ma credo di essere felice. Ryan mise in moto subito e si immisero nel lento e fastidioso traffico cittadino.
Impiegarono quasi mezz'ora per uscire dalla città e imboccare la statale. Erano diretti a sud come quando erano andati ai Ripari di Giobbe o a San Vito e il paesaggio circostante iniziava a risultarle familiare. Quel tratto di statale era davvero molto bello: la strada correva parallela alla costa, a tratti nascosta dalla boscaglia folta in quell'estate così umida; improvvisamente poi si apriva il panorama meraviglioso della distesa cristallina del mare, di cui si poteva godere dalla posizione sopraelevata in cui si trovava la strada, mentre a destra si estendevano continuamente campi a diverse colture, tra cui la più frequente era sicuramente la vite, tipica della zona mediterranea. E la parte migliore di tutto era sicuramente rappresentata dall'infinità di papaveri che i due si vedevano scorrere davanti agli occhi a gran velocità e che per questo si trasformavano in vivacissime macchie rosse nel verde dell'erba sul ciglio della strada, ma anche di tanto in tanto fra i campi. Superarono Ortona, poi i Ripari, poi San Vito e Afrodite iniziava ad avere qualche idea su dove Ryan avesse intenzione di portarla.
《Stiamo andando a Fossacesia, vero?》 chiese d'un tratto, voltandosi verso di lei come una bambina che fosse riuscita finalmente a risolvere un indovinello propostole da un adulto.
《Più o meno》 rispose semplicemente lui, sorridendo a quel tono così euforico e teneramente infantile.
《Se non è Fossacesia deve essere Termoli, ma è lontanissima!》 esclamò sbarrando gli occhi.
A quel punto Ryan deviò per allontanarsi dalla costa. Si stavano dirigendo verso un'altura e la ragazza si sporse dal finestrino, stringendo gli occhi per proteggerli dal sole che ormai brillava alto, in modo da riuscire a vedere meglio quale fosse la loro destinazione e la vide: una struttura in pietra rossiccia sulla cima di quella collina. Doveva essere una chiesa perchè riusciva a distinguere tre protuberanze convesse su un lato e potevano essere solo tre absidi.
《Mi stai portando a visitare una chiesa?》 chiese tornando a sedersi composta, con la voce spezzata da una risata malcelata.
《No》 rispose lui, alzando gli occhi al cielo. 《Aspetta e vedrai.》
Continuarono a serpeggiare su un versante della collina, arrampicandosi tra gli alberi tutt'intorno. Alla fine Ryan parcheggiò proprio davanti alla semplice facciata della chiesa, uscendo poi dall'auto.
《Ma questa è la chiesa!》 esclamò lei, seguendolo fuori dall'abitacolo e guardando l'edificio con il piccolo naso rivolto verso l'alto e la bocca semi-dischiusa.
《Sì, è San Giovanni in Venere》 concesse, ammiccando nella sua direzione al nome della dea e provocando nella ragazza una timida risatina. 《Ma non ti ho portata qui per questo.》 La guardava con una strana trepidazione negli occhi.
《E per cosa, allora?》 chiese, la fronte aggrottata.
Ryan si esibì in un sorrisetto birichino, prendendola per le spalle ed aiutandola ad avanzare all'indietro, aumentando ulteriormente i suoi dubbi.
Improvvisamente la fece voltare e le sussurrò all'orecchio, rimanendo dietro di lei, con le mani poggiate sulle sue spalle: 《Per questo.》
Davanti a loro il panorama mozzava il fiato: oltre la distesa di alberi da frutto, ordinatamente allineati nei campi adagiati sul versante est della collina su cui si trovavano, la città di Fossacesia occupava una lunga lingua di terra e la costa concava sembrava voler abbracciare l'enorme distesa del mare. Tirava una leggera brezza salmastra e l'acqua brillava di riflessi argentei.
《E' bellissimo》 fu tutto ciò che Afrodite riuscì a dire, non riuscendo a nascondere l'entusiasmo nel voltarsi verso Ryan.
Lui le sorrise dolcemente, prendendole poi il volto tra le mani. Le posò un leggero bacio sulle labbra, prima di circondarle la spalle con un braccio e continuare ad ammirare la vista splendida.
《Ci facciamo fare una foto?》 chiese gettandole una fugace occhiata per sbirciare la sua reazione.
Afrodite scosse il capo, senza distogliere lo sguardo dallo spettacolo che le si parava davanti. 《Non serve》 mormorò. 《Non riuscirei comunque a dimenticare tutto questo, neanche volendo》 concluse con un'alzata di spalle, posando il capo sul petto del soldato e sentendo, attraverso la stoffa della T-shirt, il cuore cercare di sfondare la cassa toracica.
E allora si sentì un po' meno sola.
Perchè il suo, di cuore, era esattamente nelle stesse condizioni.
 
Alla fine San Giovanni in Venere l'avevano visitata, con un nome così non avevano potuto fare altrimenti, e avevano deciso di pranzare con degli arrosticini comprati ad un chioschetto nella piazza davanti alla chiesa, seduti ad uno dei tavolini che ne formavano l'area picnic. Erano poi ridiscesi dalla collina, percorrendo a ritroso la strada che avevano utilizzato all'andata e, proprio quando Afrodite stava per chiedere dove fossero diretti a quel punto, Ryan rallentò e si insinuò in una minuscola stradina seminascosta dagli alberi in cui l'auto passava a malapena. Afrodite si ritrovò ad aggrottare la fronte, guardandosi intorno con grande curiosità.
《Stai cercando un posto dove nascondere il mio corpo, Stalker?》 chiese ironicamente la ragazza, ridendo seguita subito a ruota dal soldato.
All'improvviso la strada si aprì in un piccolo spiazzo e Ryan vi fermò la macchina senza indugi.
《Siamo soli》 commentò l'uomo, uscendo dall'auto.
《Ma come, la lasci qui in mezzo alla strada?》 chiese lei alludendo alla macchina ed uscendone a sua volta.
《Questo è un parcheggio, da qui alla spiaggia ci si arriva solo a piedi》 chiarì, precedendola verso la strada che, dopo quella sorta di piazzale, si reimmergeva nella vegetazione.
Percorsero ancora pochi metri prima che gli alberi si diradassero e il loro sguardo potesse spaziare fino all'estremo orizzonte. Un trabocco spezzava la visuale con quegli alti tronchi così caratteristici e all'apparenza anche terribilmente fragili, che invece resistevano imperturbabili alla forza delle onde da chissà quanto tempo senza nessuno scoglio a proteggerli, se non qualche masso vicino alla riva che invece di fermare l'avanzata dell'acqua sembrava semplicemente lasciarsi cullare e accarezzare da quel dondolio ritmico di fluidi luminescenti e spumeggianti.
Afrodite rimase senza fiato, osservando quello spettacolo dalla minuscola spiaggia che sorgeva proprio a destra dei tronchi del trabocco.
《Che cosa ci facciamo qui?》 chiese quasi sussurrando, come se avesse paura di rompere quella quiete parlando troppo forte.
《Passiamo una giornata al mare》 rispose semplicemente Ryan, ricominciando a camminare per poggiare le loro cose sui sassi. Erano a malapena le undici e mezza e avevano davvero praticamente tutto il giorno da trascorrere assieme, così Afrodite ricacciò in gola il groppo che era nato al solo pensiero e si incamminò verso gli asciugamani che l'uomo davanti a lei aveva già iniziato a stendere.
Erano lì da soli e Afrodite sentiva una strana sensazione percorrerle la pelle come una carezza elettrica, senza riuscire a capire bene di cosa si trattasse, sapeva solo che erano lì da soli, che lei era stessa supina sul suo asciugamano e che lui le stava affianco, con il capo poggiato ad una mano e il corpo rivolto verso di lei, quel corpo che non riusciva a smettere di guardare, di sfuggita per cercare di non farsi notare.
E loro erano lì, in quel piccolo angolo di natura pressoché incontaminata, da soli a scrutarsi, quasi avessero paura che una qualunque mossa avrebbe potuto rovinare tutto.
Fu Ryan ad avvicinarsi improvvisamente al suo viso per baciarla, quando la tensione era ormai diventata palpabile e riuscivano quasi a vederla aleggiare intorno a loro.
E' strano come la nostra mente di esseri umani cerchi sempre di salvarci dalla pazzia: quando facciamo qualcosa di sbagliato e sappiamo perfettamente quanto lo sia, ma non riusciamo a fermarci, sentiamo quel sudore freddo correrci lungo la schiena o magari il cuore scoppiarci nel petto fino ad impedirci di respirare; ma poi, mano a mano che continuiamo a fare quel qualcosa di pericolosamente sbagliato e dolcemente inevitabile, le sensazioni di malessere vanno affievolendosi, fino quasi a scomparire del tutto lasciandoci più storditi che amareggiati. E siamo salvi, perchè se non avessimo questa straordinaria capacità di adeguarci alle nostre stesse scelte, il senso di colpa finirebbe, in un modo o nell'altro, per consumarci. Perchè siamo noi i più terribili giudici di noi stessi e forse è giusto che sia così. Qualcuno, un certo Blaise Pascal (sì, lo stesso della Pressione, avete capito bene), una volta ha detto di aver capito che tutta l'infelicità dell'uomo sta nel non essere in grado di restare tranquillo in una camera, ma non si può ben capire cosa intendesse se non ci si è mai trovati nella condizione di sapere di aver fatto qualcosa di sbagliato e perseverare in quello sbaglio perchè è l'unica cosa che possiamo fare. E' proprio a questo punto che interviene il nostro eccezionale meccanismo di sopravvivenza e noi semplicemente ci dimentichiamo di quanto quell'azione sia sbagliata, perchè non potremmo comunque cambiare la realtà dei fatti.
Ed era esattamente così che si sentiva Afrodite: c'era stato un tempo in cui aveva saputo quanto tutto ciò che le stava succedendo fosse sbagliato, ma sotto le labbra di Ryan che si facevano passionali contro le sue, tra le sue braccia che la stringevano come a volerla tenere vicino al cuore per sempre, con le sue dita che la accarezzavano neanche fosse la cosa più bella e delicata del mondo, l'aveva dimenticato.
Perchè la realtà dei fatti era che doveva baciarlo, perchè altrimenti aveva la sensazione che non sarebbe riuscita nemmeno a respirare.
Sentiva la bocca calda del soldato cercare con urgenza la sua e una strana euforia aveva iniziato a pervaderla, al punto da non riuscire a trattenersi dal tuffare le dita tra i suoi capelli scompigliati per avvicinarlo ancora di più a sè, per quanto possibile.
Poi d'un tratto si sentì afferrare dietro la schiena e sotto le ginocchia e Ryan la sollevò, dirigendosi piuttosto lentamente verso la riva.
《Com'è? Fai fatica, soldato?》 chiese Afrodite, ridendo e stringendosi di più al suo collo. 《Non riesci nemmeno a sollevare un peso-piuma come me?》 continuò a prenderlo in giro, soffiando quelle parole sulla pelle sensibile dell'incavo della clavicola, mentre l'uomo iniziava ad immergersi a passi larghi nell'acqua fresca di quell'oasi sempre ombreggiata dalle chiome degli alberi che la circondavano.
《In effetti si, bambina》 rispose ridendo anche lui e lasciandola andare improvvisamente tra gli schizzi che avevano ormai iniziato a lambirle la schiena.
《Tu! Brutto-》 iniziò ad attaccarlo lanciandogli tutta l'acqua che riusciva non appena fu riemersa da quel tuffo improvviso, ma nel tentare di avvicinarsi per spingerlo, non si accorse che la roccia su cui poggiava i piedi era di piccole dimensioni e finì per cadere nello spazio tra un sasso e l'altro, scomparendo alla vista in superficie. Iniziò a nuotare e riemerse trovandosi davanti la risata sguainata di Ryan, che tentò di trattenersi solo per prenderla in braccio da sotto le ascelle, neanche fosse stata davvero una bambina, per portarsela vicina, sulla sua stessa roccia. La strinse in un abbraccio, sprofondando il viso tra i suoi capelli bagnati, e potè così notare che l'odore del mare, su di lei, era un'altra cosa.
 
Il sole stava iniziando a calare dietro le cime degli alberi e le ombre si facevano sempre più scure su quel volto  di porcellana che lo teneva incollato a sè. Erano seduti su un sasso abbastanza rialzato rispetto al livello del mare, ma meno di quanto lo fosse quella mattina, le gambe lasciate a dondolare oltre il bordo levigato dall'alta marea che stava ormai arrivando anche quel giorno.
《Dovresti avvisare che non tornerai a cena a casa.》 Ryan ruppe improvvisamente il leggero silenzio che si era venuto a creare, guardando il trabocco che si spingeva nel mare dalla costa.
《Perchè?》 chiese allora Afrodite, dubbiosa.
《Perchè ho prenotato lì》 rispose lui, semplicemente, indicando con un cenno del capo la piattaforma su cui andavano accendendosi diverse luci arancioni e soffuse ed alzandosi in piedi per scendere dal loro punto d'osservazione. 《Si è fatto anche piuttosto tardi, dovremmo avviarci》 concluse tendendola una mano e regalandole un sorriso, per aiutarla ad alzarsi e seguirlo.
Si arrampicarono di nuovo lungo la salita scoscesa che li avrebbe riportati all’auto e raggiunsero piuttosto in fretta lo spiazzo dove l’avevano lasciata parcheggiata. Superarono la Gran Tornino e imboccarono un altro sentiero che Afrodite non aveva notato affatto fino ad allora e all’improvviso, come quella mattina in spiaggia, si ritrovarono sulla costa che cadeva a strapiombo tra le onde placide del mare al crepuscolo. Davanti a loro c’era una sorta di esile portale in legno, con una corda intrecciata in cima in stile molto nautico e al di là di esso si allungava un ponte in legno che portava al vero e proprio trabocco di Punta Cavalluccio. Ryan la precedette su quel ponte e Afrodite non riuscì a nascondere del tutto la sua titubanza nel seguirlo, vedendo un sostegno all’apparenza così fragile
«Bambina, che fai?» le chiese lui, voltandosi e scrutandola con malcelato scherno. «Non vieni?» la rimbeccò.
La ragazza se ne stava ancora sull’orlo del litorale, con la brezza serale che le sollevava dolcemente, quasi fosse stata una carezza, l’orlo del leggero vestitino di cotone verde pastello, che si intonava perfettamente alla vegetazione circostante facendola apparire quasi una ninfa dei boschi, un qualche essere fatato e immaginario.
Sì, perché tutta quella cristallina bellezza, tutta quell’innocenza – Ryan ne era sicuro – non poteva davvero appartenere a quel mondo così squallido.
Tornò indietro, avvicinandosi a lei con lo stesso estatico stupore con cui avrebbe spiato di nascosto una vera semidea nei boschi, e lentamente le prese la mano, assaporando quel momento come se fosse stata la prima volta e tastando la consistenza della pelle sensibile del polso. Se la tirò vicino, costringendola praticamente a fare un passo in avanti sul ponte prima di scontrarsi contro il suo petto ampio.
«Guarda che nuoto molto bene» si pavoneggio sornione. «Anche se questa baracca abruzzese dovesse crollare direi che saresti al sicuro» concluse per provocarla, riuscendo perfettamente nell’intento.
«Guarda che queste “baracche abruzzesi” stanno su da anni» rispose infatti subito lei scimmiottandolo, sulla difensiva.
«E allora andiamo e smettila di fare la bambina fifona» la prese in giro, sfiorandole la punta del naso con un dito e sorridendo apertamente.
«E tu smettila di darmi della bambina» rispose incrociando le braccia al petto.
Ryan per tutta risposta le strinse le braccia attorno alla vita e se la portò ancora più vicina accarezzandole ancora il naso, quasi impercettibilmente, ma questa volta con il suo. In quel momento, con quel viso imbronciato, l’avrebbe baciata fino a consumare le labbra di entrambi, ma si staccò da lei con riluttanza e la condusse per mano lungo la passerella fino ad arrivare al vero e proprio ristorante. Il cameriere, che arrivò subito ad accoglierli, li guidò lungo due pontili che collegavano la piattaforma principale con altre due così piccole da contenere un solo tavolo ciascuna.
«Va bene qui?» chiese Ryan quando furono arrivati alla seconda delle piattaforme, quella più lontana, improvvisamente colto dall’idea che magari lei sarebbe voluta rimanere su quelle più grande, ma la ragazzina era così intenta a guardarsi intorno, a rimirare quel panorama a 360° che si poteva ammirare da quella posizione isolata, che nemmeno lo sentì e lui prese quella curiosità per un assenso, licenziando il cameriere e sedendosi per poterla osservare meglio mentre si beava di quella vista spettacolare.
Mangiarono pesce fresco senza ordinare niente. Funzionava così: il cameriere si informava su eventuali intolleranze e poi portava al tavolo tutto ciò che i pescatori del ristorante erano riusciti a pescare e cucinare in giornata. Il luogo era tremendamente suggestivo, tant’è che Afrodite non sapeva più bene dove guardare, e il cibo era ottimo.
«Sai cosa mi stavo chiedendo?» esclamò improvvisamente Ryan.
Afrodite fece cenno di no con la testa, la bocca piena intenta a masticare con calma per assaporare meglio il sapore di quei piatti deliziosi.
«Come mai tu parli tanto bene l’inglese se i tuoi compatrioti sono così-» l’uomo si interruppe, quasi a voler cercare il termine più adatto. «incapaci?» concluse.
Afrodite proruppe in una fragorosa risata, dovendo però ammettere che gli italiani, quando si trattava di inglese erano davvero terribili.
«Ho seguito diversi corsi sin dalla prima media ed ho partecipato a parecchie vacanze-studio da sola in maniera da essere costretta a parlare inglese» rispose semplicemente, stringendosi nelle spalle.
«Ah, capisco. Quindi sei l’eccezione che conferma la regola.»
«No, dai! Non siamo così male con l’inglese» tentò di difendere gli italiani, ma riuscirono a guardarsi solo per pochi secondi prima di mettersi a ridere. «Ok, d’accordo!» concesse la ragazza. «Siamo davvero terribili» tentò di dire tra le risate, mentre il soldato la guardava, anche lui ridendo, con un sopracciglio che svettava inevitabilmente verso l’alto.
Si fecero le undici di sera senza che neanche se ne fossero accorti, cullati alle loro chiacchiere e dal ritmico suono della risacca in lontananza e da quello delle onde che si infrangevano contro la parete rocciosa a cui era collegato il trabocco.
Era ormai arrivato il momento, anche quella volta, di tornare a casa.
 
***
 
Aime l'Art. De tous les mensonges c'est encore le moins menteur.
 
10 luglio 2014
 
Marco sentiva i suoi passi riecheggiare sul pavimento lastricato del silenzioso patio de Rafael Núñez, presidente (definito da alcuni dittatore) colombiano dell'ultimo ventennio dell'ottocento. Aveva voltato le spalle poco prima  al Capitolio Nacional de Colombia, sede del Congreso de la Repùblica, ma ci era riuscito solo a fatica: lui, che aveva scelto il liceo scientifico G. Galilei di Pescara per iscriversi alla facoltà di ingegneria meccanica e che proprio grazie a quella scuola aveva scoperto la passione inaspettata per l'architettura, era rimasto affascinato da quell'edificio così imponente e si era presentato in anticipo proprio per avere il tempo di fermarsi nella plaza de Bolìvar, il celebre libertador, ed osservare la facciata nord. Sperava che l'arte lo avrebbe aiutato a sentire meno la nostalgia di casa, come un balsamo che avrebbe potuto dargli l'illusione di alleviare il dolore semplicemente distogliendo la sua mente da esso. Il Capitolio era una costruzione di pietra dalle diverse sfumature di crema in stile classicheggiante la cui facciata somigliava ad un tempio esastilo, affiancato da due corpi architettonici tra loro identici e che lasciava intravedere parzialmente il cortile interno a cui dava accesso, in cui si poteva ammirare una seconda facciata nello stesso stile, ma con sole quattro colonne.
Marco aveva poi costeggiato lentamente il palazzo per arrivare sul retro, dove si apriva il patio de Rafael Núñez con la statua di Antonio Nariño, politico colombiano anche lui, vissuto a cavallo tra '700 e '800, che era stato imprigionato per aver tradotto in spagnolo la Declaraciòn de los Derechos del Hombre, la cui pubblicazione era stata proibita dal Tribunal del Santo Oficio de la Inquisiciòn, quando il Sud America era ancora una colonia dell'impero spagnolo e in Francia la rivoluzione aveva già compiuto metà del suo percorso. In questo cortile aveva contemplato dapprima il lato sud del Capitolio, composto da due scalinate successive, strette tra due porticati gemelli e culminanti in una facciata molto simile a quella interna del lato nord, e ora si trovava davanti al cancello in ferro battuto con due stemmi in oro della Repùblica de Colombia, che un tempo aveva protetto il Palacio de Nariño e che invece dall'arrivo degli Euro-statunitensi pendeva mezzo divelto dai cardini in un inerte invito a entrare e a fare di quel palazzo, di quel paese ciò che i vincitori avrebbero voluto.
Il ragazzo percepiva uno strano senso di inadeguatezza nel servirsi di quell'entrata violentata per accedere alla Plaza de Armas. L'aveva sempre vista in foto abbastanza affollata di piccioni e turisti, mentre in quel momento gli sembrava un luogo morto: le fontane che accompagnavano il visitatore con i loro getti verticali per tutta la lunghezza della piazza erano spente e l'acqua stagnante era diventata sporca; la bandiera colombiana era stata ammainata e lasciata a penzolare dall'asta con noncuranza; l'Observatorio Astronòmico, posto all'interno del giardino del palazzo, a destra della piazza, e sede delle prime riunioni dei cospiratori ai tempi della guerra di indipendenza dall'impero spagnolo, un luogo che trasudava libertà e storia da ogni fenditura, era rimasto coperto da piante rampicanti per buona parte delle pareti perchè evidentemente dall'inizio della guerra i giardinieri dovevano aver avuto davvero poco tempo per dedicarsi al loro lavoro e la costruzione era stata lasciata a se stessa, diventando non più un monumento alla libertà conquistata con fatica, ma l'ennesima riprova di quanto ogni sacrificio possa essere spazzato via da qualcuno di più forte.
Eppure in tutto quell'abbandono, il ragazzo riusciva ancora a scorgere l'antica bellezza che pervadeva quei luoghi.
Iniziava a essere tardi per continuare a guardarsi intorno, così Marco fu costretto a liquidare con un solo fugace sguardo El dios de la muerte e Vigilantes, due sculture di arte rispettivamente precolombiana e contemporanea che ornavano l'ingresso alla piazza, ripromettendosi di ritornarci una volta terminata la riunione, e si diresse a passo spedito verso l'entrata del palazzo, cercando di non permettere a tanta eleganza di intaccare la sua determinazione. Si trattava di una facciata dallo stile molto simile a quello del Capitolio, con la differenza che il frontone che sormontava le otto colonne binate recava al centro lo stemma della Repùblica de Colombia.
Credeva di essersi lasciato lo scoglio più grande alle spalle, ma praticamente non aveva ancora visto niente: appena ebbe varcato la soglia del palazzo, sfiorando quasi timorosamente il parquet di cui era rivestito il pavimento, i suoi occhi vennero invasi dalle bellezze che quelle mura nascondevano; mano a mano che si faceva strada tra i corridoi era sempre più colpito dagli arredi, dagli stucchi, dalle cornici, dagli arazzi, dagli affreschi, dai dipinti, dai tappeti, dai lampadari. Il pavimento ligneo creava con le pareti candide un contrasto senza pari e ogni nuova stanza presentava un'eleganza sempre nuova.
Vedere tutta quella bellezza lo destabilizzava se pensava a come tutt'attorno si stesse diffondendo la guerra, quasi fosse stata una brutta pestilenza da cui il mondo non sarebbe mai stato in grado di guarire, che lo portava a marcire al suo interno, mentre sulla superficie la natura e l'arte nascondevano quelle brutture come meglio riuscivano. E ci riuscivano, Marco sapeva bene quanto ci riuscissero, ma a volte la discordia degli uomini trafiggeva la terra così profondamente da permettere a quel marciume di zampillare fuori, come se fosse stato del sangue rappreso su una ferita infettata, sotto forma di miseria, fame, egoismo.
E morte.
Quando finalmente arrivò alla sala destinata alla riunione si rese conto con sollievo di non essere l'ultimo, e cercò di allentare il collo della divisa che indossava e che, nel clima tropicale della Colombia, gli impediva anche di respirare. Pochi istanti dopo il responsabile del suo squadrone iniziò a parlare.
《Domani riprenderemo a muoverci》 disse l'uomo in un inglese brusco, ma allo stesso tempo sfinito. 《Non ci dirigeremo direttamente verso Caracas, è esattamente ciò che loro si aspettano e l'effetto sorpresa è ancora la nostra arma vincente, quindi ce ne andremo a Est, verso il sud del Venezuela, attraverso la foresta amazzonica.》 fece una piccola pausa per squadrarli in volto uno ad uno. 《Non sarà una cosa semplice.》 Si passò una mano sul volto, poggiando poi entrambi i pugni al tavolo che lo separava dai soldati, come a volersi sorreggere. 《Da questo momento, nulla lo sarà》 commentò semplicemente, prima di riacquistare apparentemente il controllo su se stesso. 《Sanno che stiamo arrivando, ma non sanno da dove. Noi faremo il giro largo e li attaccheremo dall'unico punto da cui non si aspetterebbero mai di vederci arrivare: l'Avila.》 si riferiva alla collina che separava la città di Caracas dal mare: era circondata da boschi e poteva davvero essere un ottimo punto da cui iniziare l'invasione, ma arrivarci senza farsi notare, se non quando fosse stato troppo tardi, non sarebbe stato facile.
Marco si guardò intorno ancora, ma questa volta, la prima volta in tutto il giorno, non per ammirare, bensì per scrutare i volti degli altri soldati. Molti nemmeno li conosceva eppure erano tutti nella stessa condizione di non poter decidere cosa fare di se stessi: erano strumenti nelle mani di poteri troppo grandi per poterli comprendere davvero, per poterne capire le reali intenzioni.
E nonostante tutte le bellezze di cui avrebbero voluto riempirsi gli occhi, nonostante le violenze che invece colpivano quegli occhi ogni giorno, non potevano fare altro che abbassare il capo ed eseguire, cercando di restare vivi per loro stessi, non per una qualche causa più grande. Non esisteva più nessun ideale di liberazione o salvezza, c'erano solo dolore e distruzione e ognuno di loro non desiderava altro se non che tutto ciò che li circondava finisse in fretta per poter ritornare ad aprire gli occhi sanguinanti davanti alle loro case.
 
 
 
 
 
NDA
 
Chiedo davvero scusa per il ritardo, mi sento una persona orribile, ho impiegato un mese ad aggiornare, ma mi consola l'idea del "meglio tardi che mai" e quindi ho avuto il coraggio di rifarmi viva hahaha
Il titolo di questo nono capitolo viene dalla canzone che ha ispirato il mio nick, ovvero Hey there Delilah dei Plain white t's. La citazione ad inizio capitolo è il ritornello di Cupid di Daniel Powter che mi sa da morire di estate, mentre la seconda è una frase del mio amatissimo Gustave Flaubert e significa "Ama l'arte. Fra tutte le menzogne è ancora quella che mente di meno."
Non ho tradotto i nomi dei posti che Marco vede a Bogotà perchè mi sono sembrati piuttosto comprensibili anche in spagnolo, ma se invece non lo dovessero essere fatemelo sapere e provvederò ad inserire delle note! :D
I discorsi sul controllo delle linee telefoniche e sulla criminalità sono reali, nel senso che in Venezuela davvero le conversazioni sono registrate dallo stato da quando è iniziata la guerra civile e il tasso di criminalità è altissimo da anni.
Qui avete una foto del trabocco Cavalluccio:

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Anche la spiaggia che Afrodite e Ryan visitano in mattinata esiste davvero e io ci sono stata, ma non sono riuscita a trovare delle foto (nemmeno tra quelle che ho fatto io a suo tempo) quindi purtroppo non potrete fare altro che continuare ad immaginarla, sperando che la mia descrizione sia stata esaustiva :D
Questo è il panorama che si vede da San Giovanni in Venere:

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Mentre questa è la facciata nord del Capitolio:

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Questa è la facciata sud:


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Questo è il Palazzo di Nariño:

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E questa è la loro disposizione:


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Vi comunico, inoltre, che ho creato un gruppo Facebook dedicato alla storia dove pubblicherò anticipazioni, foto e quant'altro :D potete trovarlo qui: Dai limiti del mondo, fino a te.
Detto ciò vi saluto e spero che il prossimo aggiornamento non tarderà così tanto ad arrivare! :D Un bacione a tutti!
Delilah <3
  
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