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Autore: supersara    16/08/2014    4 recensioni
Ho tratto questa OS da una storia vera che parla di un ragazzo omosessuale che vive in una famiglia all'antica e in una piccola città che non lo accetta. Premetto che uso termini come "normalità" oppure "diverso dagli altri", soltanto perché la storia è scritta in prima persona ed è questo ragazzo a parlare così. E' una storia che mi ha toccato tantissimo.
Storia partecipante al contest "Il nuovo esame" di _Aras_
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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IAN
 
 
Il 29 Maggio 2013, Vincent Autin e Bruno Boileau si sono sposati, celebrando il primo matrimonio omosessuale della Francia.

Mio padre sbatté forte la tazza del latte contro il tavolo.

“Che schifo! In che mondo siamo capitati! Dovevano lapidarli quei due, non farli sposare! Merde del genere non dovrebbero esistere!” Sputò con disprezzo il suo parere.

“È una malattia tesoro, non è colpa loro se ci sono nati” Intervenne mia madre lanciandomi uno sguardo furtivo.

Ingurgitai il caffè senza dire una parola. Lei probabilmente sospettava qualcosa, ma finché non le fosse giunta la conferma avrebbe continuato a fingere che fosse tutto normale.

Mi alzai dal tavolo, salutandoli frettolosamente. Stava per cominciare un nuovo anno di scuola. Forse sarebbe stato orribile come il primo o forse no. In entrambi i casi dovevo andare avanti.

Mi sedetti al solito banco, l’ultimo a destra, isolato. Erano tutti eccitati per l’arrivo di nuovo compagno ripetente.

Si chiamava Manuel ed era fra i più popolari della scuola, etichettato come l’anti-professore, era l’autore di tantissimi scherzi e marachelle, le ragazze stravedevano per lui. Si era seduto in un posto centrale ed era circondato da tutti i miei compagni. Quella era la prima volta che avevo l’occasione di osservarlo bene. Aveva i capelli alzati con una generosa quantità di gelatina, di un colore fra il castano chiaro e il biondo, la pelle era scura e gli occhi di un sorprendente azzurro cielo. Le labbra carnose, di tanto in tanto si lasciavano sfuggire un sorriso che mostrava la dentatura bianca e perfetta. Era magro, ma dalla camicetta a mezze maniche si riuscivano a vedere bene le rotondità dei muscoli, probabilmente era uno di quei ragazzi dalla pancia piatta e la tartaruga scolpita. Non era molto alto, ma direi che era perfettamente proporzionato. Insomma, era un gran figo! Non avevo idea che per colpa sua avrei passato dei momenti orribili.

“Hey Manu, lo vedi quello?” Diego gli indicò il mio posto ma io ero troppo preso dagli affari miei per accorgermene.

“È un finocchio! Stai attento!” Continuò.

“Ma va!” Per Manuel, come per la maggior parte degli individui della scuola e in generale della mia piccola città, era inconcepibile.

“Ti dico di sì! Prova a mandargli un bacio!”

Il nostro nuovo compagno si voltò a guardarmi. Per mia sfortuna, proprio in quel momento alzai gli occhi, incrociando i suoi. Era strano che mi guardasse, era una sensazione particolare. Si portò una mano davanti alla bocca e fece il gesto di lanciarmi un bacio. Ricordo che mi irrigidii totalmente e diventai tutto rosso. Un attimo dopo quella reazione, decisi di non fare il fifone e di stare al gioco.

Gli rimandai un bacio allo stesso modo. Lui sgranò gli occhi e si voltò immediatamente. Pensai che fosse imbarazzato ed un’ondata di felicità mi avvolse. Mi bastò davvero poco per innamorarmi di lui.

A ricreazione mi avvicinai al suo banco.

“Piacere, io sono Ian!” Feci porgendogli la mano.

Lui la prese. La stretta era forte e decisa. Parlammo a lungo in quei pochi minuti, sembrava diverso da tutti gli altri: era gentile, simpatico ed affasciante. Alla fine mi feci coraggio e gli chiesi il perché di quel bacio. Lui rispose semplicemente che stava scherzando, poi arrivò la fatidica frase.

“Ian, mettiamo le cose in chiaro: io sono etero, quindi se si parla di amicizia ok. Niente di più però!”

Cercai di mascherare il più possibile la mia delusione. Cosa dovevo rispondere? Improvvisai.

“Ma certo! Non ti preoccupare!”

Era ovvio che la pensasse così, del resto nella piccola città in cui vivevo non avevo mai incontrato persone come me. Mi sentivo diverso, incompreso, terribilmente solo…
Manuel aveva tantissimi amici, era apprezzato, gli volevano tutti bene. Con me era gentile, scherza e rideva tranquillamente. Non ero abituato ad essere trattato come un ragazzo normale, di solito mi scartavano e mi prendevano in giro tutti. Andavo d’accordo soltanto con qualche ragazza. Lui era l’unico a considerarmi un suo pari.

Mi ero innamorato ma non potevo dirlo a nessuno, tantomeno a lui. Più di una volta avevo sentito qualcuno prenderlo in giro per la sua amicizia con me, figuriamoci se mi fossi dichiarato apertamente!

Ormai avevo imparato a scrivermi tutto sul diario, frasi come “Manu ti amo” oppure “Manu sei la mia vita”, per non parlare del giorno del suo compleanno, dove c’era una dedica degna di un poeta.

Mi sentivo come una ragazzina innamorata, mi sfogavo scrivendo e dalle mie scritte traevo speranza. Si, dentro di me ci speravo.

Un giorno però quel diario divenne la mia rovina…

Entrai in classe dopo essere stato in bagno e la prima cosa che sentii furono le risate di scherno dei miei compagni. Inizialmente non capii il perché, poi mi accorsi che Manuel era seduto al suo banco e teneva fra le mani tremanti il mio diario.

Sgranai gli occhi atterrito.

Lui mi guardò con astio e si alzò in piedi per poi avvicinarsi a me. Mi lanciò addosso il diario e mi tirò un pugno in pieno petto. Caddi in ginocchio senza fiato.

“Cha cazzo significa!?! Frocio di merda!” Fece rifilandomi un calcio che mi fece finire dritto a terra.

Non sapevo cosa dire, mi bruciava il petto e non riuscivo a respirare. Perché doveva reagire così? Cominciarono a sgorgarmi le lacrime dagli occhi ed iniziai a singhiozzare.

Lui mi afferrò per i capelli e mi tirò su.

“Rispondi cazzo!” Gridò.

“T…ti amo!” Risposi fra i singhiozzi.

Lui mi diede un pugno in pieno volto, rompendomi il labbro.

“Mi fai schifo! Ti ammazzo!” Disse cominciando a riempirmi di calci.

Dopo qualche secondo gli altri gli furono addosso per trattenerlo. Sentivo soltanto frasi come: “Lascialo perdere” o “Così lo ammazzi!”.

In un attimo di lucidità mi alzai ed uscii dalla classe, per poi scappare nel bagno delle ragazze. Non potevo stare in quel posto, ma almeno lui non ci sarebbe entrato. Per la prima volta mi resi conto di quanto fossi disprezzato dagli altri.

Dopo qualche minuto una mia amica entrò nel bagno e venne ad abbracciarmi. Non era presente quando era successo, era di un’altra classe. Piansi sulla sua spalla per diversi minuti. Lei piangeva con me, non era né più forte né più decisa, era una semplice ragazza di diciotto anni.

“Ian, senti…” Fece quando entrambi ci fummo calmati un po’ “…Perché non provi a fare sesso con una ragazza? Provaci una volta soltanto”

In quel momento il mio pianto aumentò di nuovo. Che razza di consiglio mi stava dando? Lei era triste per me, avrebbe voluto che fossi felice e per lei la felicità era la normalità.

“Mi fa schifo…” Risposi.

Era la pura e semplice verità, per quanto agli altri potesse sembrare strano, per me toccare una donna non era normale, non era bello, non era quello che volevo.

Tornai a casa nel pomeriggio e trovai entrambi i miei genitori.

“Chi ti ha ridotto così?” Si alterò mio padre mentre mia madre mi veniva incontro preoccupata.

Non risposi. Cosa avrei dovuto dire?

“Dimmi che cazzo ti è successo!” Gridò di nuovo mentre mamma mi ripuliva la faccia.

“Lascialo stare! Avrà litigato per qualche ragazza!” Cercò di tagliare corto lei.

Strinsi i pugni rabbioso.

“Io sono gay! Non mi piacciono le femmine!” Confessai quasi in un ringhio.

Ci fu un attimo di silenzio. Quella era stata una giornata di merda, tanto valeva concluderla ancora peggio. Anche se non pensavo che mio padre potesse arrivare a tanto.

Prese un coltello dalla cucina e mi venne incontro gridando: “Io ti ammazzo!”

Mia madre lanciò un urlo e si mise davanti a me, da una parte mi gridava di scappare, dall’altra diceva a mio padre di fermarsi.

Feci un giro intorno al tavolo per non farmi prendere. Il cuore mi batteva all’impazzata. Dopo l’ennesimo grido di mia madre, papà conficcò il coltello nella tavola ringhiando: “Meglio un delinquete! Meglio un drogato! Ma un frocio no!”

Di nuovo le lacrime tornarono a rigarmi il volto. Presi la mia giacca e il mio zaino e corsi via.

Non sapevo il perché, ma stavo andando verso la stazione per prendere un biglietto per Roma. Non era distante dalla mia città, si trattava di un’ora scarsa di treno. Lungo la strada continuai a chiedermi se davvero era così sbagliato amare un uomo.

Il viaggio mi sembrò fin troppo corto.

Non avevo un’idea precisa di quello che dovevo fare, l’unica cosa che mi frullava per la testa era trovare un posto dove bere in abbondanza. Non mi ero mai ubriacato, anzi a dirla tutta non bevevo mai alcolici se non qualche birra di tanto in tanto. Avevo sentito più di una volta la frase bevo per dimenticare e in quel momento, ai miei occhi, era la soluzione migliore.

Entrai in un pub non troppo distante dalla stazione e senza curarmi delle decine di persone che avevo intorno, mi diressi al banco chiedendo esplicitamente la cosa più forte che avevano.

Il barman mi guardò con un sorrisino divertito e mi diede un bicchiere colmo di un liquido azzurro. Senza perdere tempo me lo portai alle labbra e mandai già un bel sorso. Bruciava in maniera incredibile ma non aveva un pessimo sapore, senza contare che mi trovavo in quel posto proprio per bere. Vuotai il contenuto del bicchiere in pochissimo tempo, rattristato dal fatto che da come stavo prima non era cambiato assolutamente nulla.

“Dammi qualcos’altro” Chiesi con voce un po’ impastata dalla stanchezza e dal pianto di poche ore prima.

Mi ci volle il terzo cocktail per cominciare a sentirmi strano ma più che dimenticare mi sentivo male. La testa mi girava e lo stomaco mi faceva malissimo, il tutto era accompagnato da una forte sensazione di nausea. Mi sentivo pesante e lontano da tutto quanto. La musica che fino a pochi istanti prima mi disturbava a causa del volume esageratamente alto, adesso mi rimbombava nelle orecchie come un eco lontano.

Seduta accanto a me c’era una ragazza con dei bizzarri capelli corti, rasati da un lato ed un piercing sul mento. Mi aveva guardato per tutta la sera ed anche in quel momento continuava a fissarmi. Ad un tratto la sua esile figura si fece sempre meno chiara, fino a scomparire in una grande macchia nera.

Non vedevo nulla, sentivo solo una voce femminile che sbraitava cose come “Aiuto!” oppure “È svenuto!”.

Aprii gli occhi per un istante e vidi la ragazza di prima su di me che mi tirava degli schiaffi. Pensai che probabilmente anche lei che non mi conosceva mi odiava. Stava parlando con qualcuno al telefono.

Poco dopo tutto divenne più chiaro.

Ero fuori dal pub, in un angolo della strada, un uomo che doveva essere molto alto mi teneva due dita in gola, costringendomi a vomitare a ripetizione.

“È morto?” Avvertii una voce femminile alle sue spalle, aveva usato un tono strano, oserei definirla quasi una preoccupazione ironica.

L’uomo tolse le mani dalla mia bocca facendomi finalmente respirare. Mi bruciavano gli occhi e lo stomaco mi faceva malissimo.

“No Lucy, non è morto.” Le ripose quasi scocciato.

Che schifo. Ero dannatamente patetico. Cominciai a piangere a singhiozzi mentre di nuovo mi tornava la sensazione di nausea. Che idea stupida avevo avuto.

Le braccia di quel tipo tornarono a cingermi mentre le sue dita si dirigevano di nuovo verso la mia bocca. Cercai di fermarlo con una mano, ero impaurito, non volevo vomitare di nuovo. Lui mi scansò leggermente il braccio e si insinuò di nuovo nella mia gola dicendo: “Ancora una volta, poi ti lascio stare”.

Era una voce dolce, rassicurante. In quell’attimo mi accorsi che con la mano libera mi stava accarezzando la schiena. Era la prima volta in quella giornata che qualcuno mi aiutava davvero.

Del resto di quella serata ricordo davvero poco, a tratti sentivo quei due parlare fra loro di me, anche se non riuscivo a comprendere ogni parola.

Immagino che mi portarono via, perché il giorno dopo, quando riaprii gli occhi dopo la sbornia ero a casa loro.

Mi ritrovai su un divano, coperto da un pile di colore scuro. Davanti a me c’era un tavolino con un vaso dalla forma circolare poggiato sopra. Mi guardai fugacemente intorno, ero in un appartamento che sembrava essere spazioso, molto ordinato. Sulle pareti bianche di tanto in tanto c’erano dei quadri astratti ultramoderni, quasi tutti su colori caldi come il rosso. Non c’erano molti mobili, l’arredamento era essenziale ma bello. Mi piaceva.

“Squilla di nuovo!” La voce della ragazza della sera prima mi fece sobbalzare.

Veniva da dietro di me, sembrava essere in ansia.

“Che faccio? Qui dice mamma” Piagnucolò.

Sentii uno sbuffo sonoro in risposta.

“Pronto” La voce era quella del ragazzo che mi aveva soccorso insieme a lei.

“Si signora, sono un suo amico, ha dormito da me stanotte…”

Sgranai gli occhi ripensando alla confessione del giorno prima. Chissà cosa stava pensando mia madre in quel momento.

“Certo, la faccio richiamare appena si sveglia… Arrivederci”

A quel punto mi feci coraggio ed alzai il busto voltandomi verso di loro, restando seduto.

Lei era in reggiseno e mutande e stava trangugiando una ciambella.

Lui invece era vestito di tutto punto, in giacca e cravatta e sorseggiava una tazza di caffè, credo.

Entrambi si arrestarono quando mi videro.

“Finalmente ti sei ripreso!” Fece lei a bocca piena.

Arrossii ed abbassai lo sguardo nel vederla in quello stato. Ero a casa loro e stavo invadendo la loro privacy.

“Che c’è?” Fece.

“Lucy, mettiti qualcosa addosso.” Le suggerì lui.

“Ma perché? Non è gay?” Rispose lei per nulla agitata dalla situazione.

Io invece sobbalzai e la guardai con tristezza. Come aveva fatto a saperlo?

“Quando migliorerai il tuo pudore, lavora un po’ sul tatto” La rimproverò. Poi si alzò dalla sedia e continuò dicendo: “Vado a lavoro, non fare danni!” Dopodiché uscì dalla porta lasciandoci soli.

Lei senza perdere tempo venne verso di me e mi porse la mano.

“Piacere! Sono Lucilla, ma puoi chiamarmi Lucy!”

Titubante le strinsi la mano e mormorai: “Ian”.

“Ci hai dato dentro ieri sera! Complimenti! Anche io sono arrivata a quel punto più di qualche volta, non è affatto piacevole!”

Annuii vergognandomi di me stesso.

Lei mi guardò quasi intenerita, poi fece: “Beh, può capitare a tutti, non sei né il primo né l’ultimo che si prende una sbornia, mica lo hai fatto di proposito!”

“Invece sì…” Confessai.

Lei alzò un sopracciglio ma non disse nulla. Ad un tratto mi venne in mente una cosa.

“Come hai fatto a dire che sono gay?”

Tirò fuori dalla tasca il mio cellulare e mi fece notare la fila di strass che avevo accuratamente attaccato sulla cover.

“Ho tirato a indovinare… Piuttosto dovresti chiamare tua madre, è disperata.”

Presi il cellulare e composi il numero. Mamma era davvero disperata, mi disse che si sarebbe risolto tutto, che mi avrebbe aiutato e di tornare a casa. L’ultima cosa che volevo fare era tornare indietro, quindi le dissi che per il momento non lo avrei fatto e senza aspettare una sua risposta riagganciai.

Mi alzai dal divano, presi il mio zaino e mi rivolsi a Lucy: “Grazie di tutto! E scusa per il disturbo!”

“Scusa, dove pensi di andare?”

Abbassai lo sguardo: “Non lo so… Mi inventerò qualcosa!”

“Non dire cavolate! Puoi restare qui, non è un problema!”

“Grazie ma ho approfittato già troppo del tuo aiuto e di quello del tuo ragazzo”

Lei scoppiò in una fragorosa risata, poi disse: “Leo non è il mio ragazzo, siamo amici, condividiamo l’appartamento!”

Strano, non era il suo ragazzo e si faceva vedere in tenuta intima davanti a lui, come se fosse normale. Quei due dovevano essere davvero strambi.

“Dai, vestiti e vieni a lezione con me!”

Le scelte che avevo erano davvero poche, anche perché in fondo non volevo restare solo. Mi prestò alcuni vestiti che probabilmente erano del suo coinquilino e mi portò alla Città Universitaria.

Era un altro mondo rispetto alle superiori: per prima cosa era una vera e propria città, c’erano tantissimi edifici di grandi dimensioni ed ognuno ospitava una facoltà diversa. Tantissimi ragazzi passeggiavano per le strade, si sdraiavano sul prato a pranzare, proprio come nei film. Si poteva trovare una grande varietà di tipi strani, ma nessuno sembrava farci caso. Mi piaceva.

Lucy mi presentò alcuni amici che ancora oggi mi sento di descrivere come dei veri e propri soggetti, i classici musicisti falliti. Devo dire però che erano simpatici, mi accolsero subito e mi fecero sentire a mio agio. Mi chiamavano “il piccoletto”.

Seguii le lezioni di storia dell’arte e storia contemporanea con lei. La giornata passò fin troppo in fretta.

Quando giunse la sera mi portò in un pub, diverso da quello del giorno prima. Mentre lei chiacchierava e ballava con i suoi amici, io mi sedetti al banco a pensare, o meglio a deprimermi. Gli avvenimenti del giorno prima non erano stati affatto piacevoli e la mia soluzione di ubriacarmi non era servita a niente. Mi sembrava che tutti ce l’avessero con me.

“Allora, come va?” Il coinquilino di Lucy, Leonardo, era apparso praticamente dal nulla e si era seduto accanto a me.

Guardai il bicchiere di Coca Cola fra le mie mani e sospirai.

“Male… Sono gay” Mi sentivo un emerito imbecille, ormai avevo perso anche quel poco di dignità che mi era rimasta.

“Um… Quindi?”

“Ieri l’ho detto ai miei.” Confessai.

Lui poggiò il mento sul gomito e si mise a guardarmi.

“Non è mai facile da accettare per un genitore. Come l’hanno presa?”

Dentro di me provai una grande gioia, finalmente qualcuno che mi dava corda, lasciandomi la possibilità di sfogarmi. Gli raccontai di mio padre e mia madre e soprattutto di Manuel. Ogni cosa.

“Beh, non puoi biasimarlo dopotutto” Commentò non appena ebbi finito il mio racconto.

Per un attimo lo guardai con un’espressione disperata, stava dando ragione a lui, come tutti del resto.

“Voglio dire, la tua sessualità è e resta solo ed esclusivamente un tuo affare, ma devi capire che ci sono alcune regole da seguire, per esempio non puoi metterti a corteggiare un ragazzo eterosessuale, non devi neanche pensarci! Questo Manuel non poteva agire diversamente, pensa che se non avesse fatto nulla lo avrebbero preso tutti in giro etichettandolo con tutti quei bei nomignoli che usano già con te. Ha fatto capire a tutti che non era interessato e lo ha dimostrato più che bene. Non aveva praticamente scelta.”

Ci riflettei un attimo. Aveva ragione.

“Purtroppo viviamo in un mondo che ancora non accetta una cosa del genere. Anche quando avrai un ragazzo, ti accorgerai che non potrai fare come tutte le persone normali, per esempio non potrete darvi dei baci in pubblico, perché troverai sempre la signora con il ragazzino per mano che farà la voce grossa dicendo che è scandaloso e che suo figlio non deve vedere certe cose, eccetera… Sarà dura, non è mai facile, ma ti ci abituerai”

Quella realtà dei fatti non mi aveva ancora mai sfiorato. Il mondo non si sarebbe adattato a me, quindi ero io che dovevo sforzarmi di attarmi a lui.

“Vedrai che i tuoi genitori se ne faranno una ragione. Tu piuttosto cerca di andartene da quella città di pastori in cui vivi” Intendeva dire che erano arretrati.

Sorrisi. Erano poche e semplici istruzioni, ma mi stavano facendo sentire più forte, sapevo di potercela fare.

“Tu non sei etero, vero?” Immaginai che se sapeva tutte quelle cose probabilmente era gay anche lui.

“Perché? Ti vuoi innamorare di me?” Fece ridendo.

Arrossii violentemente. Dovevo ammetterlo, ci avevo pensato.
  
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