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Ricorda la storia  |      
Autore: Angie_Swan93    16/08/2014    0 recensioni
Ricordava l’inverno, e molto sole.
Ricordava la volta in cui i suoi occhi si posarono per la prima volta su quelle strade, quei palazzi, quelle luci. Le sembrava tutto così grande, lì.
Più di tutto, però, riusciva a ricordare chiaramente lo sguardo di tutte quelle persone, anche loro all’apparenza così piccole e perdute, che le brulicavano attorno e si dirigevano spaesate verso l’una o l’altra direzione, parlando di cose di cui fingevano di essere già perfettamente a conoscenza.
Ricordava lui, che andava e tornava, ma non smetteva mai di esserci.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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            …MA NON E’ MIA LA COLPA                                                                                                                                     
 
 
 
 
“Se potessi addormentarmi e risvegliandomi cancellare tutti i miei errori e ricominciare da zero saprei dove ritrovarti. Ricomincerei dal primo battito nato pensandoti e saresti l’unica cosa che non correggerei, né col rosso né col blu. Se non sei tu l’amore, l’amore non esiste.”
                      
 
                                                                                              Massimo Bisotti, La luna blu
 
 
L’odore che la pervase quando aprì il grande portone che dava sull’atrio era quello di sempre. Sapeva di carta e inchiostro, o forse di qualcos’altro che però non era mai riuscita a trovare altrove. Anche il rumore dei tacchi che picchiettavano sul pavimento lucido le era ormai familiare, nonostante quel giorno le sue scarpe fossero un po’ più alte del solito: il che, a una come lei che non usciva di casa senza un minimo di cinque centimetri di aiuto alla sua bassa statura, non causava alcun tipo di problema.
Imboccò il corridoio sulla sua destra, e arrivata in fondo aspettò l’ascensore che era stato prenotato da qualcuno che già non c’era più, forse prematuramente scoraggiato dalla leggendaria lentezza del macchinario in questione, che quando arrivò a piano terra sputò fuori una decina di ragazze spazientite.
Erano un po’ più piccole di lei, e fu sufficiente un attimo affinché, guardandola, le loro smorfie si trasformassero in sorrisi ossequiosi. Si sforzò di ricambiare, per quanto le risultasse impossibile essere generosa come loro.
Entrò nell’ascensore vuoto e pensò alle parole che era certa si stessero scambiando, le stesse che quei muri avevano avuto modo di sentire miliardi di volte e che lei stessa aveva pronunciato qualche anno prima.
I capelli scuri le scivolavano sulle spalle in onde morbide e straordinariamente ordinate, e il vestito le cingeva il punto vita ricadendo fin poco sopra il ginocchio. Tra le mani, il fascicolo rilegato in pelle blu riportava un altisonante titolo argentato.
Guardandosi allo specchio, l’ immagine che ne vide riflessa non le sembrò che un antico ricordo.
Era tutto come aveva pianificato già dai tempi del liceo. O perlomeno, avrebbe dovuto esserlo.
Se non fosse che allora, durante la primavera della sua vita, non avrebbe saputo riconoscere l’assordante, pungente, sordo silenzio della sua anima morta.
 
 
Ricordava l’inverno, e molto sole.
Ricordava la volta in cui i suoi occhi si posarono per la prima volta su quelle strade, quei palazzi, quelle luci. Le sembrava tutto così grande, lì.
Più di tutto, però, riusciva a ricordare chiaramente lo sguardo di tutte quelle persone, anche loro all’apparenza così piccole e perdute, che le brulicavano attorno e si dirigevano spaesate verso l’una o l’altra direzione, parlando di cose di cui fingevano di essere già perfettamente a conoscenza.
Ricordava lui, che andava e tornava, ma non smetteva mai di esserci.
 
“Sì, in provincia di Macerata. Studiavo anche francese, ma lo odiavo… non credo sia il caso di continuare, perciò.”
Quel giorno la mensa universitaria era più affollata del solito. Il rumore di piatti e di vassoi trascinati a rilento per la sala si mischiava a voci curiose, a tratti euforiche, che con poche varianti riempivano l’aria di discorsi carichi di emozione e debolezza, orgoglio e timore.
Carlotta stava facendo ampio sfoggio della sua parlantina mentre guardava con sospetto il persico al limone nel suo piatto. “Non male”, disse dopo un primo assaggio. “Sono diventata vegetariana qualche mese fa. Spero di riuscire a continuare, nonostante debba adattarmi a pranzare fuori molto spesso…”
Il modo in cui si poneva, in maniera così diretta e delicata allo stesso tempo, le era piaciuto sin da quando, qualche giorno prima, si erano timidamente strette la mano in un primo, buffo tentativo di conoscenza. Aveva bisogno di un’amica, e Carlotta era già da quel momento, quando ancora erano passate ore e non giorni dal momento in cui si erano viste la prima volta, ciò che di più vicino ad un’amica la nuova città aveva da offrirle.
Era strano pensarci ora. Strano riuscire a ricordare ancora qualcosa di fresco e genuino come quella ragazza occhialuta, che le aveva tinto gli anni dello stesso sgargiante colore della sua chioma ramata. Strano capire che un prima era esistito, che aveva avuto forme e suoni e colori che erano andate dissolvendosi nel baratro dei ricordi come gocce di tempera su un pennello troppo diluito. “E’ libero?”
Un ragazzo con una felpa nera (probabilmente, pensò, lo stesso che le era stato seduto accanto durante la lezione di inglese della mattina: non ci avrebbe giurato, però, dal momento che le fisionomie non erano mai state il suo forte) indicò il posto accanto al suo mentre cercava di mantenere in equilibro il vassoio che precariamente gli dondolava tra le mani.
Spostò ciò che aveva depositato sulla sedia accanto alla sua e lo fece sedere.
“Ciao, io sono Riccardo”, disse con un timido sorriso.
“Serena, piacere. Allora…anche tu panico da primo giorno?” Non era da lei mettere in piedi conversazioni o sforzarsi di trovare qualcosa da dire con chi conosceva da poco, e gli altri, per questo, l’avevano sempre considerata un po’ snob.
Eppure gli occhi di quel ragazzo un po’ silenzioso sembravano volere proprio quello: storie, che però non fossero la sua. Dopo quella chiacchierata in mensa, Serena sentiva di non sapere assolutamente  nulla di Riccardo. E quella fu la sensazione che l’accompagnò sempre, da quel giorno in poi, anche quando le loro strade arrivarono a poter essere confuse l’una con l’altra.
 
 
Avrebbe potuto guardare il cielo e pensare che finalmente la primavera era arrivata. Una mano santa, per una meteoropatica come lei.
Avrebbe potuto godere dei primi raggi di sole che le scaldavano il viso, che ancora conservava il ricordo di un inverno troppo lungo e gelido perché potesse non apprezzarli.
Avrebbe potuto vedere labbra e sorrisi, dita puntate verso un orizzonte indefinito, abbracci e mani incrociate come a non voler lasciarsi mai, mentre il rumore delle onde faceva da colonna sonora a quel tragicomico spettacolo che era la vita umana. Su quel molo, a quell’ora, quel giorno, Serena avrebbe potuto fare e pensare tantissime cose.
Ma lui era con lei, e quando questo accadeva era Serena a non accorgersi del mondo. Le parlava con quella sua calma fin troppo ostinata e non la guardava, o perlomeno quasi mai; custodiva dentro di sé qualcosa che lo rendeva così vulnerabile da mandarla in confusione. Era sempre stata lei quella fragile, e vedere qualcuno che lo era ancora di più le provocava una strana sensazione, del tutto simile ad un’inconcepibile nausea che a fatica riusciva a controllare.
Nonostante tutto, Riccardo aveva lo sguardo più puro che avesse mai visto.
Aveva ragione lui: loro due erano pezzi di umanità incontratisi per caso in un momento in cui la vita, forse per renderli parte di qualcosa, o forse semplicemente per capriccio, aveva fatto incrociare le loro strade, pur così diverse tra loro in partenza.
Eppure, erano così vicini.
Così vicini che per un attimo Serena pensò che due anime possono davvero arrivare a toccarsi impercettibilmente, senza che nessuno dica loro quando e soprattutto perché  succede. Ma se il suo cuore batteva all’unisono con quello di Riccardo quando veniva avvolta dalle sue braccia che le parevano mastodontiche, Serena non riusciva più a porsi domande. Semplicemente perché sapeva che, in ogni caso, la sua risposta sarebbe stato lui.
 
Amava in quello che è un modo strano, surreale, scomodo: perché era la prima volta, e nessuno gli avrebbe mai insegnato a farlo. Era forse per questo che ci riusciva così bene, e Serena continuava a chiedersi se gli altri avessero visto realmente in Riccardo quello che vedeva lei.
Quando glielo disse era una sera d’inverno, e dal cielo non smettevano di cadere fiocchi piccoli e infuriati che andavano a posarsi con violenta grazia sulla spessa coltre che già imbiancava le colline che riusciva a scorgere dalla sua finestra.
“Sono gay. Sei l’unica persona a cui l’abbia mai detto… non è mia la colpa.”
Parole che Riccardo aveva affidato al display di un cellulare piuttosto che a un paio di occhi che, in quel preciso momento, si trovavano dall’altra parte della nazione, persi in chissà quale paura. Per quanto ci provasse, Serena non riuscì a biasimarlo: sapeva che non sarebbe riuscita a controllare il vomito di emozioni che le si confondevano dentro, che lui le avrebbe letto negli occhi e tutto gli sarebbe parso chiaro…e questo, semplicemente, non le sembrava giusto.
Non era giusto perché l’ignoranza e la paura erano mostri che non avrebbe potuto affrontare da solo, e lei non aveva intenzione di lasciarglielo fare.
Pensò a tutte le poesie d’amore che aveva letto, alle canzoni che aveva ascoltato, alle opere d’arte in cui si cercava di spiegare l’amore attraverso baci appassionati e timidi sguardi di amanti segreti: credeva di aver capito cosa fosse, ma in realtà si sbagliava. Tutto ciò che veniva da sempre associato all’amore sembrava avere sempre un qualcosa di circoscritto, di cui si riusciva a cogliere l’inizio e la fine: i due amanti nel dipinto prima o poi si sarebbero separati, così come avrebbero avuto una fine i versi di Catullo dedicati a Lesbia e gli ultimi accordi della romantica ballata del gruppo rock più in voga del momento.
Nonostante ciò, tutti dicevano che la bellezza dell’amore consisteva  nell’impossibilità di tracciarne i limiti.
Serena l’aveva capito in quel momento, mentre guardando dalla finestra cercava di trovare parole nuove che potesse riservare all’unica persona che le meritava davvero: lei, quel limite, aveva deciso di ignorarlo. Aveva deciso di amare in modo doloroso e totale di un amore taciuto, straordinario, che, lo sapeva con certezza, non sarebbe finito; perché loro due si sarebbero appartenuti sempre, ma mai davvero.
 
Le luci ad intermittenza la stavano facendo impazzire. La discoteca non era proprio uno dei posti che più amava in assoluto, in particolar modo in circostanze come la festa della donna, in cui pseudo-spogliarellisti si esibivano al ritmo di squallidi tormentoni che elogiavano la donna single e oltremodo libertina.
Serena non sapeva esattamente perché aveva accettato di andarci: probabilmente perché le piaceva sapere che le persone con cui si rapportava avevano un’esistenza anche al di fuori dell’università, e che avevano scelto di condividere anche quella parte della loro vita con lei. O forse perché sapeva che, in fondo, c’erano i presupposti per una serata divertente.
Centinaia di persone si muovevano a ritmo di musica con più o meno eleganza. Amava guardare la gente, soprattutto quando tutti erano troppo presi nel fare altro per accorgersi di lei, come in quel caso.
“Guarda quei due!” Riconobbe la voce di Riccardo che le si era avvicinato e, tentando di parlare sopra la musica, le aveva indicato una coppia che ballava in un angolo della sala.
Serena si voltò e vide il suo sguardo, fra il divertito e il rassegnato. Entrambi riconobbero la bionda e insopportabile ragazza che seguiva il suo stesso corso di arabo e il ragazzo dello Sri Lanka, che grazie alla sua esuberanza era riuscito a diventare una sorta di mascotte della facoltà, mentre si scambiavano effusioni a bordo pista. La bionda di tanto in tanto si guardava intorno, come per assicurarsi che ciò che stava facendo stesse avendo la risonanza che meritava.
“Ti va se usciamo di qui? Potrei ucciderla.”
Quasi senza accorgersene si presero per mano e iniziarono a farsi strada tra la gente. Sembravano una coppia, una coppia vera.
“Dio, hai le mani piccolissime!”, disse Riccardo mentre continuava a stringergliele.
“Dai, non così tanto…” Odiava il fatto che anche la sua corporatura la rendesse fragile…la metteva a disagio.
“Sono belle, invece. Mi piacciono perché sono le tue, e tu sei unica. Non hai nemmeno idea di ciò che hai fatto per me. Mi sei stata vicina, sempre, e da quando ti conosco sento di essere diventato migliore…finalmente non mi vergogno di ciò che sono. E quindi volevo ringraziarti, per tutto, e dirti che…”
“…ti voglio bene anch’io, Riccà”, disse Serena stringendosi a lui.
“Nessuno mi ha mai chiamato ‘Riccà’, per esempio”
“Dunque mi vuoi bene nonostante sia una terrona apocalittica? Dici sul serio?!”. Lo guardò negli occhi, divertita.
“Ebbene sì. Ti amo, nonostante tu sia una piccola terrona apocalittica.”
Rimasero così, l’uno nelle braccia dell’altra, per un arco di tempo indefinito, finché il chiarore della luna lasciò spazio alle prime flebili luci del giorno.
 
 
La fine fu impercettibile.
Tanto che non riusciva a ricordarla. Tanto che a volte pensava che forse, un giorno, quell’incubo sarebbe finito, lei si sarebbe svegliata e tutto sarebbe tornato come prima.
Ma non succedeva. Mai.
Era tutto spaventosamente diverso, e il mondo sembrava non accorgersene. Tutti, lei compresa, continuavano a fare cose come correre, gridare, andare al mare o comprare vestiti in saldo. E la cosa che più la inorridiva era che ben presto anche lei avrebbe ripreso a preoccuparsi dell’esame per il quale meritava ventiquattro ma per cui aveva preso ventidue, delle smagliature che le rovinavano la prova costume, dell’ultimo autobus notturno che era riuscita a perdere per l’ennesima volta. O magari, del ragazzo carino che non la guardava mai.
Si sentiva piccola, e inutile, e meschina, perché non aveva scelta. Perché era bloccata, sì, bloccata. E perché forse avrebbe potuto evitarlo, ma non ne era stata capace.
Dal giorno in cui se ne era andato, Serena dovette inventarsi un nuovo mondo, perché quello che fino a quel momento era stato il suo non esisteva più.
 
Vento torrido. Incoscienti risate in riva al mare. Un’unica, straziante telefonata.
“Riccardo è morto. Si pensa si tratti di suicidio.” Elena, la sua coinquilina, lo conosceva da quando erano nati. Erano diventate amiche, ma quella fu l’ultima frase che le disse.
La corsa disperata verso quella casa. La polizia, i giornali e le interviste. Una storia che dà da pensare, dicevano. Una facoltà e un’intera città che si proclamavano scosse, senza parole.
Frasi di circostanza e luoghi comuni di cui non sapevi che fartene.
Incredulità. Costante e instancabile.
E poi, nulla.
 
 
“Per l’autorità conferitami dal Magnifico Rettore, la proclamo Dottore in comunicazione interlinguistica applicata”.
La Commissione si alzò in piedi e da quel momento fu un continuo stringere mani. Ce l’aveva fatta, si era laureata.
Era quello che aveva sempre sognato, il motivo per cui aveva lasciato i luoghi e le persone che avevano fatto parte della sua vita da adolescente. Forse però, pensò Serena mentre scambiava sorrisi e riceveva applausi dal gruppo di amici e parenti che si trovavano in Aula Magna, non era solo per quello che aveva scelto una vita lontana da ciò che le era familiare. Era finita così lontano perché doveva trovarsi, scoprirsi e riuscire ad accettarsi. Doveva farlo, perché era ciò in cui Riccardo non era mai riuscito. Riusciva a immaginarselo, in quel momento, mentre con un sorriso accigliato avrebbe scosso la testa e le avrebbe detto: “Sei sempre la solita. Te l’avevo detto che quell’esame di trattativa non era poi così insuperabile!”. E lei le avrebbe risposto che per lui era facile parlare, che tanto era un genio e poteva permettersi di non studiare e di perdere il suo tempo con una come lei. Al che lui l’avrebbe abbracciata, e Serena avrebbe creduto nella sua stretta, perché era impossibile non farlo.
Tra i volti delle persone che erano da sempre parte della sua vita mancava solo lui: eppure avvertiva la sua presenza in modo così nitido le faceva persino un po’ paura. Era la prima volta che le succedeva, da tanto tempo, dopo che ormai il pensiero di avvertire una qualsiasi emozione le era sembrato lontano anni luce. 
Fu allora che la vide.
In ultima fila, indossava un vestito bianco e applaudiva. Appena lo sguardo di Serena incrociò il suo, si lasciò andare a un timido sorriso d’intesa.
Elena.
Serena si fece strada fra i laureandi e le loro famiglie e arrivò in fondo all’aula. La ragazza che conosceva, la matricola spensierata con cui mangiava budini che costavano poco ma che erano incredibilmente buoni, si era trasformata in donna.
“Sono così orgogliosa di te! Io…non so cosa dire, davvero!”
La strinse in un abbraccio che sperava potesse aiutarla a farle capire che non era necessario dire nulla.
“Anzi, una cosa che volevo dirti c’è. Ecco, non per sminuire la tua laurea, ma…qui c’è qualcuno che vuole le sue attenzioni!”. Sorrise beata e si accarezzò la pancia. 
Era questo. Era la spinta che cercava. Era il motore che si riaccendeva, era un ingranaggio che si rimetteva a posto, anche se con un po’ di fatica.
Era la vita. Che ce ne fa, di bastardate, ma che riserva grosse sorprese dietro l’angolo. Come la voglia di ricominciare. Quella che aveva avuto Elena, e che da quel momento in poi avrebbe avuto anche lei. Era una promessa a se stessa, a chi le voleva bene, a lui.
L’amore perduto non sarebbe stato più tale: l’avrebbe usato per diventare più forte, per migliorarsi. Per stare bene, sempre.
 
Perché in fondo, di quel caotico pastrocchio che era l’esistenza umana, nessuno aveva la colpa.  
 
 
   
 
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