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Autore: HannibalLecter    17/08/2014    2 recensioni
A lei piace lui e lei piace a lui.
A lui piace lei e lui piace a lei.
Perfetto no?
Peccato che entrambi si ostinino ad ignorare questa faccenda continuando tranquillamente il loro percorso che si snoda lungo due rette parallele destinate a non allontanarsi mai ma neanche ad incrociarsi mai, o forse no?
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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«Ah ah fregato!»
Dopo tre giri nel parcheggio antistante il palazzo che ospitava gli uffici della redazione ero riuscita a trovare un posto libero, soffiandolo ad un pallone gonfiato alla guida di una Porsche argentata.
Nessuno poteva competere con la mia cara Teiera, per gli amici Tea, che nonostante i suoi tredici anni suonati si faceva ancora rispettare.
I miei genitori quando mi diplomai mi fecero trovare in giardino Tea, un maggiolino Volkswagen di seconda mano, avvolta in un lungo fiocco rosso.
Accarezzai affettuosamente la vernice blu del mio macinino, compagno di tante avventure, e quando mi voltai vidi il volto del proprietario della Porsche: Alessandro Grimaldi.
Lui si accorse di me e così, dopo essersi assicurato che la sua preziosa auto fosse chiusa, sigillata ed inespugnabile, mi si avvicinò.
Ogni volta che ci incontravamo sul suo viso era dipinta sempre la stessa espressione divertita.
«Signorina Visconti» mormorò sorridendo.
Afferrai la borsa e la valigetta e chiusi la portiera.
«Buongiorno, può chiamarmi Ginevra se vuole: non sopporto quando mi si dà della signorina, sa di obsoleto non trova?»
Ci avviammo fianco a fianco verso l'ingresso del palazzo, anticipato da una scalinata in marmo.
«E non trovi obsoleto il darsi del Lei tra coetanei?» ribatté divertito.
Colpita e affondata.
Mi sorpassò rapidamente, aprì la porta e si fece di lato per farmi passare.
La cavalleria rimaneva una delle poche caratteristiche degli uomini capaci di farmi sciogliere.
Lo ringraziai ed entrai nell'ampio atrio a pianta ottagonale, nel quale troneggiava l'imponente banco reception in granito occupato dalla massiccia sagoma della simpatica Signora Carmen.
«Ginevra cara, ho una cosa per te!»
Carmen scomparve sotto il bancone e ne riemerse qualche secondo più tardi sventolando vittoriosa una busta.
«Sai chi la manda?» chiesi curiosa.
Carmen era una signora di mezza età buona e generosa, ma la discrezione e la riservatezza non erano proprio il suo forte.
Lei si guardò intorno sospettosa e, dopo essersi assicurata che non ci fossero persone nella hall, si chinò nella mia direzione e mi sussurrò: «Viene dal nemico».
Proprio in quel momento entrò un fattorino che trasportava un grosso pacco.
Carmen si allontanò di scatto e dopo avermi rivolto un ultimo sguardo ammonitore si dedicò al dipendente della ditta di corriere espresso.
Perplessa salii in ascensore, impaziente di aprire la missiva al sicuro dietro il muro invalicabile rappresentato dalla mia scrivania.
Mi diressi sicura alla mia postazione salutando i colleghi fino a quando, svoltando l'angolo non mi si parò davanti agli occhi uno spettacolo terribile.
Prima di allora la mia scrivania, posta perpendicolarmente alle ampie vetrate che davano sulla città di Milano, si trovava di fronte a quella di Francesco.
Ora invece nell'ampia sala costeggiata da vetrate svettava un'unica grande scrivania, una di quelle costose, probabilmente in mogano. E beffa della beffe in un'imponente poltrona di pelle scura era seduto, comodo come un pascià Grimaldi il riccone.
«Ginevra sei arrivata finalmente. Come puoi notare c'è stato un piccolo cambiamento nella disposizione delle scrivanie; ora tu e il tuo collega lavorerete nella saletta attigua» mi disse accorgendosi della mia espressione sbalordita.
Furiosa, strinsi i pugni e mi avviai a passo di marcia verso quello che sembrava essere diventato il mio nuovo ufficio.
Aprii la porta e mi ritrovai in uno sgabuzzino, sì una specie di ripostiglio per le scope, perché non esistevano altre parole per descrivere quel minuscolo spazio soffocante nel quale erano state stipate a forza due piccole scrivanie illuminate solamente da una finestrella grande quanto un francobollo.
«Gin, hai visto che squallore?»
Mi voltai e incontrai lo sguardo sconsolato di Francesco, che entrò nella stanzetta e si chiuse la porta alle spalle.
Chi aveva osato operare quel cambiamento? Chi?!
Nella redazione dove lavoravo ogni giornalista era importante e non esisteva una gerarchia o una sottospecie di scala sociale. O almeno non esisteva finora, perché adesso tutto era cambiato e l'arrivo del principino aveva scombinato le cose, in peggio.
«Sai se c'è Alfie?» domandai sedendomi sulla nuove sedia in plastica rigida che aveva sostituito la mia poltroncina rosa girevole.
Francesco fece per appollaiarsi come suo solito sulla mia scrivania ma si accorse che ora, data l'inesistente distanza tra i nostri due tavoli di lavoro, era impossibile e così si sedette rassegnato sulla sua seggiolina.
«Stamattina non c'è»
Aprii la mia cartellina e sbattei stizzita alcuni documenti sulla scrivania.
«Ovvio, quando serve non c'è mai» esclamai inviperita.
Mi misi all'opera, battendo con foga sulla tastiera, cercando di calmarmi.
Solo due ore più tardi mi ricordai della misteriosa lettera e decisi di leggerla durante la pausa caffè.
Francesco mi portò il mio solito cappuccino e io per poco non me lo rovesciai sulla camicetta, sorpresa dal contenuto della busta.
Carmen aveva ragione: la missiva proveniva dal nemico.
Fin dalla sua fondazione, cinque anni prima, il nostro settimanale cinematografico aveva dovuto fare i conti con un grande ostacolo di nome Saverio Tabucchi.
Il signore sopra citato era a capo da quasi quarant'anni della più popolare rivista di cinema del paese, rivista che usciva mensilmente ed era considerata una vera e propria bibbia del cinema. Il signor Tabucchi, informatosi riguardo all'incredibile successo che la nostra rivista stava avendo, grazie alla sua formula semplice, fresca ed accattivante, aveva votato la sua vita a rendere impossibile la vita ad Alfredo.
Ed ora, tra le mie mani tremanti, tenevo una proposta di lavoro firmata dal signor Tabucchi in persona.
Mi veniva offerta la posizione di giornalista a capo della sezione cartoni animati, il mio sogno in poche parole.
Mi guardai intorno e mi chiesi se non fosse stato il destino a far coincidere l'arrivo della lettera con il mio confino in quella catapecchia.

«Gin, ti ripeto per la centesima volta che per il momento non vedo altra soluzione al problema» Alfie si passò stancamente una mano sul volto «gli spazi concessi alla redazione sono sempre gli stessi, vedrai che con il tempo troveremo una sistemazione migliore per tutti».
Mi alzai in piedi colma di rabbia e iniziai a camminare avanti e indietro furiosamente.
Mi fermai di colpo di fronte al mio capo: «Dimmi almeno perché».
Lui abbassò gli occhi, come se si vergognasse di quello che stava per dire: «Lui lo ha preteso. Gin, non guardarmi così, ti prego. Grimaldi è uno dei migliori giornalisti in circolazione ed è anche di ottima famiglia, quando gli ho offerto questo lavoro era ovvio che lui avrebbe chiesto qualche concessione».
Ero senza parole; Alfie era sempre stato a favore della meritocrazia e ora, basandosi solo sulla presunta fama e sul nome di famiglia di Grimaldi, aveva concesso ad un nuovo dipendente molto di più di quello che un normale giornalista, dopo anni e anni di carriera, avrebbe ottenuto.
«Mi hai delusa, molto delusa. Amo questo lavoro e non sarà l'avere un bugigattolo al posto di un ufficio a diminuire la passione che metto nel mio impiego. Ma sappi che odio le ingiustizie e odio i raccomandati spocchiosi e non me ne starò in silenzio» esclamai fiera.
Feci per uscire, colma di ira, ma giunta di fronte alla porta decisi di dare una stoccata finale ad Alfredo.
«Una cosa ancora, proprio stamattina ho ricevuto un'offerta di lavoro da Tabucchi; chissà che non accetti» dissi con un'ombra di irriverenza negli occhi.
Alfredo si alzò in piedi allarmato: «Gin, per favore, non fare la bambina e cerca di capire: il torto, se così si può chiamare, è stato fatto a tutti, non solo a te. Hai perso il tuo ufficio, ma è capitato a te come poteva succedere a Valeria o Fabrizio. Fidati di me e vedrai che presto riavrai un vero ufficio» mormorò avvicinandosi e mettendomi una mano sul braccio.
«Vedremo» e mi voltai ignorando il suo viso dispiaciuto che mi implorava di perdonarlo.
Era difficile essere amici tra colleghi di lavoro ma lo era ancora di più esserlo con il proprio superiore perché era complicato separare l'ambito lavorativo da quello affettivo. In questo momento ero arrabbiata con il mio capo e non con il mio amico, ma separare le due cose risultava complicato ai miei occhi.

Spesso le persone ti raccomandano di fare la cosa giusta, di compiere la scelta giusta, di scegliere la strada giusta.
Qual è la cosa giusta?
Qual è la scelta giusta?
Qual è la strada giusta?
Sprofondai ancora di più nell'acqua calda e schiumosa e mi beai del tepore che mi avvolgeva.
Ero sempre stata una persona impulsiva; non riuscivo a rendere impermeabile la mente dalle emozioni. La mia razionalità veniva sempre in qualche modo contaminata dalla potenza dei miei stati d'animo.
Papà mi ripeteva sempre di pensare prima di agire e parlare, di riflettere sulle conseguenze.
Ma lui era sempre stato di natura meditabonda e calma mentre io assomigliavo a mia madre. Noi difendevamo con i denti e con le unghie quello a cui tenevamo e cercavamo di annientare tutto ciò che minacciava il nostro prezioso mondo. Questo significava che Alessandro Grimaldi doveva essere rimesso al suo posto, sì, ma come? Appoggiai il capo al bordo della vasca e chiusi gli occhi.
Stavo diventando paranoica e io odiavo avere la testa colma di problemi e rompicapo da risolvere.
Un lieve bussare mi distolse dai miei pensieri e così mi affrettai ad afferrare un asciugamano e ad avvolgermelo attorno al corpo. Quando, pochi istanti più tardi, aprii la porta di fronte a me trovai solamente il corridoio semibuio e deserto. Stavo per chiudere la porta quando mi accorsi del pacchetto abbandonato sul mio zerbino.
Lo afferrai e, dopo un'ultima occhiata al corridoio vuoto, rientrai in casa.
Mi rivestii velocemente per evitare di prendere un raffreddore e mi avvolsi i capelli bagnati in un morbido asciugamano celeste. Mi accoccolai sul divano accanto a Isidoro, che dormiva placidamente, e aprii il pacco.
Scivolarono fuori un biglietto aereo, un piccolo fascicolo e un foglio ripiegato.
Aprii quest'ultimo e lo lessi incredula.

Cara Gin,
innanzitutto non essere subito sospettosa, quello che sto per fare non vuole essere un modo per addolcirti e farmi perdonare (ok, forse un pochino anche per quello) ma per premiare il tuo operato sempre eccellente e per darti la possibilità di fugare i tuoi dubbi e abbattere i tuoi pregiudizi riguardo ad una persona. La settimana prossima partirai per Los Angeles dove tu e Alessandro incontrerete la famosa attrice russa Natalia Alexandrova. Mi affido alla tua professionalità.
Alfie
P.S. Mi perdoni vero?
P.P.S. Sai benissimo che non vorrei mai che tu te ne andassi ma sai anche che voglio solo il meglio per te, quindi se davvero tu volessi lasciarci sentiti libera di farlo nonostante spezzerai il mio povero cuoricino.

Sorridendo sfogliai il fascicolo e ci trovai tutta la documentazione riguardo all'attrice e alla sua filmografia.
Il mio sorriso si spense nel ricordare chi sarebbe stato il mio compagno di viaggio ma poco dopo si riaccese nel pensare alle assolate spiagge della California e al clima mite che mi aspettava.

«E così quello stronzo se n'è uscito con la più grande cazzata dell'universo sostenendo che in quanto appartenente al sesso debole nessuno mi ingaggerà mai come avvocato difensore perché equivarrebbe a rassegnarsi alla perdita della causa».
Chiara, con un diavolo per capello, ci stava aggiornando sulle sue abituali disavventure con il collega di tirocinio.
Cecilia, dolce come sempre, cercava di farla ragionare e la incitava a provare a capire cosa spingesse il suo collega ad avere quell'atteggiamento ostile nei confronti delle donne mentre io e Veronica le proponevamo di pedinarlo, accerchiarlo in un angolo e usarlo come sacco da pugilato.
«Ragazze, calmatevi. Noi siamo contro la violenza e voi dovete imparare a gestire la vostra rabbia» Cecilia, con la sua voce calma e pacata, cercava come sempre di farci ragionare.
«Sì ma Ceci, siamo nel 2014 non nell'Inghilterra dell'Ottocento dove la donna serviva solo a generare figli!» Veronica non si rassegnava di fronte a qualcuno dotato di vedute così ristrette.
Tagliai una fetta della mia pizza alle verdure: «Ceci devi ammettere che Chiara ha ragione; le donne godono degli stessi diritti degli uomini, la legge lo stabilisce, e lui non dovrebbe permettersi certi atteggiamenti misogini».
Cecilia si vide costretta a concordare con me ma tentò comunque di trovare un modo per conciliare la donna fiera che era Chiara e l'uomo difficile che sembrava essere il suo collega.
«Hai provato a parlargli?» chiese premurosa.
Chiara per poco non si strozzò con la coca cola che stava bevendo da una cannuccia fucsia.
Veronica le batté prontamente sulla schiena.
«Stai scherzando, vero? Gli ho ripetuto più volte quanto i suoi commenti e le sue opinioni sul genere femminile mi urtino ma lui fa spallucce e continua imperterrito».
Se davvero il suo compagno di tirocinio corrispondeva alla descrizione fatta, lavorare con lui doveva essere un vero e proprio incubo.
Ricordo ancora con rabbia un episodio accaduto quattro anni fa. La facoltà di scienze della comunicazione aveva diramato il bando per un concorso, dedicato agli studenti dei primi tre anni, che consisteva nel redarre un articolo inerente l'ecologia e l'ecosostenibilità. Già allora adoravo le sfide e mi piaceva mettermi in gioco e così decisi di partecipare. L'articolo lo scrissi di getto, durante una passeggiata notturna nel frutteto sul retro del casale in Toscana, circondata solo dal fruscio della brezza e dalla fioca luce intermittente delle lucciole. Inaspettatamente il mio pezzo arrivò alla selezione finale insieme a quello di Francesco, eh si a volte il destino escogita strani mezzi per far incontrare due persone. Il professore, che aveva il compito di giudicare i due  articoli, decretò la vittoria di Francesco, all'epoca ragazzo a me sconosciuto, e il mio premio di consolazione fu il suo acido commento secondo cui in quanto donna un secondo posto era il massimo a cui potevo aspirare. Francesco assistette alla scena e la fece presente al rettore che decise di leggere egli stesso gli articoli e che alla fine sancì un ex aequo. Lì iniziammo a conoscerci ma poco dopo ci perdemmo di vista perché lui partì per un Erasmus in Finlandia. Il fato ci fece rincontrare come colleghi di lavoro e non finirò mai di ringraziarlo per l'opportunità regalatami di riscoprire una persona così meravigliosa come Francesco.
«Chiara?»
Nel sentire quella voce titubante ci voltammo all'istante tutte e quattro e fissammo curiose il nuovo arrivato, che sembrava conoscere la nostra cara avvocatessa.
Il viso di Chiara, di fronte a quei grandi occhi marroni celati da un paio di occhiali che conferivano al ragazzo un'aria da intellettuale, subì una trasformazione, le sue guance si fecero scarlatte mentre mormorava imbarazzata: «Marco, da quanto sei qui?»
Lui la guardò confuso: «In realtà sono appena arrivato, perché?»
Chiara, sempre più rossa in volto, ci guardava disperata in cerca di aiuto: «Ehm...»
L'aiuto arrivò prontamente da Veronica, sempre spigliata e a suo agio anche nelle situazioni più imbarazzanti: «Piacere, io sono Veronica. Tu sei?» esclamò balzando in piedi e allungandosi a porgere cordialmente una mano al nuovo arrivato.
Lui, preso in contropiede, strinse perplesso la mano di Veronica e rispose: «Marco Veronesi, sono il compagno di tirocinio di Chiara».
Cosacosacosa?
Il mascalzone maschilista era a pochi centimetri da noi: occasione irrinunciabile per conoscerlo e metterlo sotto torchio.
Incrociai lo sguardo di Veronica e capii che anche lei stava pensando la medesima cosa. Ci scambiammo un sorrisetto diabolico e subito dopo mi alzai anche io esclamando: «Io sono Ginevra e lei è Cecilia, che ne dici di unirti a noi?»
Sentivo le saette e i fulmini indirizzati a me che lo sguardo furioso di Chiara mi stava inviando ma la ignorai e dedicai un sorriso luminoso all'avvocatuccio misogino.
Lui parve tergiversare ma poi ricambiò il sorriso ed esclamò: «Perché no? Ero venuto a prendere una pizza da asporto da mangiare in solitudine ma direi che la vostra compagnia è di certo più interessante di quella delle pratiche dello studio legale».
Due minuti più tardi una sedia era stata aggiunta e tutte noi eravamo intente ad ascoltare divertenti aneddoti sulla vita degli avvocati, tutte noi tranne Chiara.
Lei si era chiusa in un silenzio offeso chiaro segno della sua disapprovazione di fronte al nostro comportamento; ai suoi occhi stavamo socializzando con il nemico. Evidentemente la mia amica non aveva mai sentito il detto che recitava 'tieniti stretti gli amici e ancora più stretti i nemici'. Il Padrino docet.
Anche se a dire il vero Marco era un ragazzo cordiale ed affabile e l'impressione che dava era in totale disaccordo con la descrizione fatta da Chiara.
Subito, la mia mente folle iniziò a fantasticare riguardo ad una possibile storia tra i due, sulla falsa riga di 'Orgoglio e pregiudizio'.
Quante volte ci capita di sbagliarci nel giudicare una persona? Spesso i nostri pregiudizi ci impediscono di vedere la vera natura delle persone, perdendo talvolta l'occasione di conoscere la parte migliore degli altri verso cui nutriamo dei falsi preconcetti.
La serata passò in fretta, tra un'ottima pizza e molte risate. Quando arrivò il momento dei saluti Marco lasciò il suo numero a tutte quante promettendo di farsi vivo per organizzare un'altra serata tutti insieme. Chiara gli rivolse un freddo arrivederci e, accampando la scusa delle toilette, si allontanò in tutta fretta. Colsi lo sguardo dispiaciuto che il ragazzo rivolse alla figura di spalle della mia amica, che si stava allontanando.
Il mistero si infittiva e Miss Ginevra Marple, complice il suo ingegno, avrebbe risolto il caso. Oppure ero più una Poirot in gonnella? O una novella Sherlock?
Indifferente, l'importante era sbrogliare la matassa e cercare di capire che cosa stava succedendo tra le pareti di quello studio legale.
«Gin, ci sei? Che stai aspettando?» esclamò Cecilia, sventolandomi una mano davanti al naso.
Veronica non mi diede neanche il tempo di infilare tutte e due le maniche del cappotto perché mi afferrò saldamente per un braccio trascinandomi verso l'uscita.
«Ormai Ginevra l'abbiamo persa; sempre più spesso ti troviamo intenta a fissare il vuoto» osò dire la mia rapitrice «dovresti smetterla di pensare tanto, sento quasi il rumore degli ingranaggi del tuo cervellino».
Sbuffai infastidita e mi divincolai dalla sua presa ferrea per allacciarmi il cappotto: eravamo pur sempre in febbraio!
Marco se ne andò, salutandoci cordialmente e sparendo nell'oscurità, diretto alla sua abitazione.
Non appena la sua sagoma scomparve, lo sfogo di Chiara, che tutte stavamo aspettando, ebbe inizio.
«Come avete potuto farmi questo? Come??» si infiammò subito «vent'anni di amicizia e voi mi tradite così? Questa volta l'avete combinata grossa e dovrete darvi da fare per riguadagnarvi il mio affetto».
Fantastico, tutto procede come al solito: Chiara adorava fare l'offesa.
Cecilia, dopo aver frugato nella sua borsa, più simile ad una valigia in verità, tra pupazzetti, giornali di pimpa e dvd di peppa pig, scovò un pacchetto di pavesini. Sorvolando sul fatto che probabilmente quei poveri biscotti erano stati testimoni dell'impresa dei Mille di Garibaldi, noi tre ci guardammo ed annuimmo.
Cecilia con fare materno si avvicinò a Chiara e, dopo averle cinto le spalle con un braccio, le chiese suadente: «Dolcetto?»
Chiara ebbe un attimo di esitazione e noi per un istante sperammo di averla fatta franca, ma fu un secondo, la nostra vittoria si rivelò presto illusoria perché Chiara allontanò stizzita i biscotti e si voltò infuriata verso di noi.
«Credevate davvero che il vostro subdolo metodo di chiedere scusa avrebbe funzionato?» chiese sarcastica.
Veronica cercò di nascondere un sorrisetto: «Bé, in passato aveva sempre successo il metodo biscotto...»
Chiara ci fulminò con lo sguardo: «Non è vero! Non sono così facile da circuire!» esclamò arrabbiata mettendosi le mani sui fianchi.
Feci un passo in avanti e con fare teatrale declamai: «Anno 1998, scuola elementare Montessori, una piccola Chiara chiede al baby playboy di essere il suo compagno di fila all'uscita da scuola. Il piccolo dongiovanni rifiuta, preferendole la piccina Veronica, Chiara, a questo punto, invece di incolpare il bimbetto se la prende con la sua povera amichetta innocente e decide di non essere più sua amica. Veronica, dispiaciuta, il giorno seguente si presenta da te con un sorriso di scuse e un muffin, inutile aggiungere che, magicamente, ritornaste ad essere inseparabili».
Chiara mi dedicò una smorfia a metà tra l'infastidito e il colpevole, Cecilia non le diede il tempo necessario per ribattere, d'altronde anche la saggezza popolare dice che bisogna battere il ferro finché è caldo.
«Autunno 2001, primi giorni di scuola media, test d'ingresso di matematica. Nonostante nessuna di noi sia mai stata un asso in quella materia, quella volta noi tre riuscimmo a strappare un bell'otto mentre tu ti dovesti accontentare di un sei meno meno. Ti offesi, tutt'oggi ignoriamo il perché, e non ci rivolgesti la parola per ben sei ore. La sera ci presentammo da te con una vaschetta di gelato e tu ritrovarsti l'uso della lingua».
Chiara appariva quasi dispiaciuta ora ma in serbo per lei avevamo l'ultima storia e così Veronica prese la parola: « Anno 2008, il nostro liceo decise di indire un concorso di scrittura, il premio sarebbe stato una vacanza studio a Parigi. Partecipaste sia tu sia Gin e fu lei a vincere il viaggio premio. Tu l'acussasti, ingiustamente, di aver imbrogliato e lei furiosa se ne partì per la Francia. Al suo ritorno ti portò un vassoietto di macarons e tu le dicesti che si era meritata la vittoria».
Afferrai il pacchetto di pavesini e glieli porsi: «Mangia e smetti di fare la finta offesa, su!».
Chiara tentennò ancora per poco e poi scoppiò a ridere e si mise a sgranocchiare un pavesino.
Abbracciai Chiara e Cecilia e le sospinsi verso il parcheggio: «Qui ci vuole qualcosa di serio, tutte a casa mia così tra un boccone e l'altro del tiramisù di mia mamma cercheremo di capire se Marco ha un gemello cattivo o una sorta di Mr Hyde».



Eccomi!
Non ho quasi nulla da dire sul capitolo se non che più scrivo questa storia più nascono nella mia folle testolina idee sempre più strambe e potenziali sviluppi delle vicende, che si distaccano profondamente da quelli pensati inizialmente. Chi vivrà vedrà...
Bacioni
S.
P.S. Le recensioni sono sempre gradite :)
  
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