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Autore: bloody_lily    12/01/2005    2 recensioni
non sono sicura che sia una fanfic originale. del resto non ero neanche sicura che fosse "generale" o "introspettivo". è semplicemente qualche pagina che ho scritto questo pomeriggio.
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ho imboccato il bivio per Selva Delle Corti con un movimento asciutto del volante e un’accelerata strappata

Mais Merci.

 

Secondo quel miserrimo abc che capisco di francese, quello che ho scritto è approssimativamente corretto (a parte gli accenti ;_; ma forse quelli manco in italiano ò_o).

 

 

Ho imboccato il bivio per Selva Delle Corti con un movimento asciutto del volante e un’accelerata strappata. Guidavo perfettamente calata nella parte di Milanese del week-end, satura di abitudine non-tollerata per il traffico e aspettative ancora acerbe per la prossima illusione e voglia di essere da un’altra parte prima ancora di essere arrivata. Sollecitavo il cambio con dita nervose e lo sterzo seccamente e l’acceleratore e la frizione in modo non-continuo e il freno in modo parsimonioso.

Dovevo sembrare troppo concentrata sulla cassetta dei Ramones che girava nel mangianastri o affatto entusiasta all’idea di passare una notte e un giorno alla festa di compleanno di una tipa che neanche conoscevo ma già detestavo o troppo presa dal fumo di una sigaretta appena accesa o affatto.

Ero come al solito pencolante nella mia non-coordinazione con il resto del mondo, appena poco sotto le mie posizioni calibrate senza cura né premeditazione. E c’erano solo due persone che avevano se non compreso almeno ammesso questo, ma naturalmente Serena non era una delle due.

Se ne stava rannicchiata sul sedile posteriore, le ginocchia puntate su quello davanti, gli occhi sul panorama per non sentirsi male al primo accenno di curva, la bocca in continuo movimento. Gli lanciavo un’occhiata distratta ogni tanto, alla quale ottenevo in risposta fiumi di discorsi non-interessanti giustificati da qualche sporadico “scusa ma se non parlo vomito”. Mi faceva pena, da un certo punto di vista, e dall’altro la trovavo estremamente irritante nella sua ostinazione a parlare non-ascoltata e di cose estremamente stupide e banali e mi chiedevo se non potesse semplicemente fissare il suo sguardo liquido nel vuoto oltre il finestrino. Luca invece se ne stava svaccato alla mia destra, assorto e non-comunicativo come al solito.

Ho scalato una marcia, percorso un paio di tornanti e svoltato in una strada sterrata, attraversato una zona di campi coperti di neve.

Serena ha detto “Fermati! Non vorrai mica attraversare quella cosa, no?”, ha indicato il ponte di legno davanti a noi con un dito dall’unghia lunga e limata e color ciclamino.

Ho detto “Se ti dà fastidio scendi, vai avanti a piedi e risali quando siamo di là”, senza neanche pensare a sfiorare il freno.

 

Siamo arrivati dieci minuti dopo. Ho parcheggiato la Polo blu vicino alle altre macchine, sono scesa stiracchiandomi, ho spento la sigaretta con il tacco dei Doc. Luca ha aperto il cofano, ci ha passato gli zaini, ha detto “Fa freddo” guardando Serena che brandiva allegramente la borsa di plastica di Nightime in cui aveva infilato il nostro regalo, vestita di un paio di jeans scampanati a vita bassa, un paio di stivaletti alti e un semplice maglioncino color senape a coste.

Ho detto “Già. Speriamo che dentro faccia più caldo”, oltrepassato il cancello aperto, mosso due passi sul vialetto di ciotoli ordinati che portava al pergolo di vigne.

Sabrina, la festeggiata, ci è venuta incontro. Mi ha salutata con un sorriso che colava lucidalabbra e ha gettato senza troppi complimenti le braccia intorno al mio collo. Ha detto “Oleandro! Jack mi ha talmente parlato di te!”. Dietro di lei ho visto Giacomo. Stava in piedi incerto, le mani ficcate a fondo nelle tasche, gli occhi quasi completamente coperti dalla frangia lunga. Era imbarazzato, mi ha salutata con un cenno del capo.

Ho detto “Ciao”, con l’accento francese che faceva capolino fra le mie parole. Ho sperato che nessuno avesse avvertito la leggera inflessione della i, la pronunciata chiusura della a. Mi sembrava imbarazzante.

Ho spostato i Rayban appena indossati sulla testa in un impulso di trasparenza totale, ho chiesto se le scocciava che fumassi con altre cadenze strascicate e dilatate che mi hanno fatto riportare gli occhiali sul naso. Sabrina ha detto un festoso “assolutamente”, ha salutato Serena e Luca e ha insistito per fargli posare le numerose borse in casa. Mi sono accesa una sigaretta, ho fatto qualche altro passo verso il pergolo con l’intenzione di seguirli.

Giacomo mi ha guardata intensamente, ha detto “Non credevo saresti venuta”.

L’ho guardato indietro piena di non-tolleranza e non-comprensione, avrei voluto chiedergli perché con aria di superiorità o almeno chiamarlo Jack, ma ho formulato le frasi nella mia testa e risultavano stupide e infantili e francesi, alla fine ho scosso la testa e l’ho superato soffiandogli addosso il fumo e i non-sentimenti che mi contraevano la gola.

 

Il vernissage era cominciato già da qualche ora. Me ne stavo seduta in un angolo a bere Tequila, circondata da intellettualotti che mi avevano eletta loro leader semplicemente perché parlavo istintivamente in quel modo instabile e non-delineato ma grondante di motivi che loro cercavano di riprodurre in provetta da quando avevano deciso di essere intellettuali. Ho visto Giacomo girare senza meta sotto il pergolo, mi sono alzata lentamente per avvicinarmi.

Non so cosa volessi dirgli, probabilmente non lo sapevo neanche al momento. Ero di nuovo piena di non-sentimenti.

Ho appoggiato il bicchiere di Tequila sul tavolo del graticcio e mi sono accesa una sigaretta. Giacomo si è seduto davanti a me.

Ha detto “Scommetto che stai pensando che tutto questo è ridicolo”.

Non lo stavo pensando. Stavo pensando che lui era ridicolo, Sabrina era semplicemente stupida e il vernissage era degno di lei. Ho inghiottito un nodo di esclusione-da-quadro, evidentemente io non facevo più parte della scena. Ho sentito le punte delle dita pizzicarmi di fastidio e sorpresa.

Ho detto “Ma no” e la mia voce è suonata talmente più mesta e scarica di quanto mi aspettavo che mi sono sbilanciata sulla sedia, ho dovuto ri-calibrare le mie estremità rispetto all’ambiente che mi circondava. Ho portato indietro il gomito sinistro, l’ho appoggiato allo schienale. Ho allungato un piede. Andava già meglio.

Ha detto “Ho sbagliato, con te” e il discorso mi è suonato patetico e inutile e stupido, anche. Gliel’ho detto. Ha continuato “Ma è la verità. Ti ho ferita, ho lasciato che le cose cadessero così, non ti ho dato neppure una spiegazione”.

L’ho guardato vuota di frasi e parole e suoni, anche solo.

Ha detto “Non ti ho protetta da me stesso”. Davvero pietoso.

Ho risposto “S'il vous plaît” in tono indolente senza neanche pensarci. “Cioè, non facciamo ‘sti discorsi”, ho precisato.

Lui ha girato intorno al tavolo e si è piegato sulle gambe. Ha sorriso e ha detto “Ti manco…” e il tono di affermazione mi ha irritata sopra il vernissage, la sensazione di esclusione-da-quadro, quella di non aver niente di chiaro e decente da dire.

Mi si è avvicinato lentamente al viso fissando le mie labbra, mi veniva da ridere, ho riso. Alla fine ho detto “Non mi manchi” con tutta la chiarezza che mi era rimasta fra le labbra dall’inizio della serata. Ha messo una mano a coppa sulla mia nuca, ha cercato di avvicinarmi a lui nonostante la risata e la frase secca e quasi sputata.

Mi sono divincolata, alzandomi in piedi con decisione. Una voce da dietro di noi ha detto “Giacomo, ti sta cercando Sabrina”, era Nicola.

L’ho guardato senza espressione mentre Giacomo bestemmiava e diceva “Dille di aspettare!”. Ho guardato Giacomo con fastidio.

Nicola ha detto “Diglielo tu se vuoi” con estrema calma nonostante i lampi negli occhi, si è seduto al tavolo nel lato libero e ha appoggiato la sua Tequila con altrettanta calma. Giacomo ha bestemmiato di nuovo, poi ha lasciato il pergolato con passo veloce. Mi sono seduta di nuovo, ho fatto un tiro e poi spento la sigaretta.

Ho detto “Merci”, senza controllare più i centri di comunicazione. Ho aggiunto, dopo una pausa di una frazione di secondo “Mais je n’ai besoin de un héros”.

Si è messo a ridere, ha finito la Tequila. Ha detto “Je ne suis un héros” con inflessioni talmente assurde che gli ho persino sorriso.

 

Ho riconosciuto Hollow Years dalle prime due o tre battute. Nicola ha cominciato a scanticchiarci sopra, con la sua voce roca e carezzevole. Aveva un’aria distesa e rock e un’aura dolce, quasi, che non gli avevo mai visto; lo conoscevo come un tipo violento e tempestoso e rissoso e avevo sempre pensato che mi piacesse così. Invece quell’espressione mi sembrava donargli più di qualsiasi altra gli avevo visto. Non era bello nel senso comune del termine, forse troppo basso nonostante mi superasse di un palmo almeno, stabilmente non-saldo nel muoversi, aveva un naso appuntito e un viso magro e gli occhi indefinitamente castano-verdi. Ma era capace di fare quell’espressione.

Ha detto “Fai mai cose stupide?”.

Ho detto “Je fais toujours choses stupides”. Sembrava che non mi riuscisse più di articolare parole in italiano. Mi sono innervosita, ho detto “Faccio sempre cose stupide”. Non mi è sembrato che avesse colto il mio imbarazzo, non ho neanche dovuto ri-calibrarmi.

Mi ha guardata serio, ha detto “Ole, devo lasciare l’università o tornare a farla a Roma”. Non ho colto il nesso con il fare cose stupide. Ma non ho fatto in tempo a cercarlo, ho sgranato gli occhi e detto “Pourquoi tu veux aller loin d’ici?”.

Nicola ha sorriso malinconico, mi ha fregato una sigaretta sufficientemente malridotta dal pacchetto morbido. Ha detto “Non ho detto che voglio andare via. Tanto meno lontano!”, ha riso. Ha detto “Guadagno ottocento euro al mese. Devo mantenere un appartamento e un corso di studi, sai?”.

L’ho guardato in tralice formandomi un quadro della situazione. Vivevo nell’appartamento che mi aveva lasciato il nonno da quando avevo diciassette anni. Insegnavo francese e un po’ di inglese a tempo perso più per avere il modo di non dimenticarmi come si parlano che per i soldi che guadagnavo; l’università era spesata dai miei genitori che in qualche modo dovevano sopravvivere ai sensi di colpa da lontananza (hanno sempre avuto la peculiarità di trasporre tutto in termini monetari e non ho mai capito se detestarli o invidiarli per questo). Non mi ero mai posta il problema dei soldi. Ho detto “Je vis dans le centre de Milan. Il est un petit appartement et je peins donc il est toujours à l’envers et chaotique et je suis très irritable le matin quand je me réveille et je déteste qui me réveille et je suis… mais tu pourrais déplacer à ma maison… ok il n’est une bonne idée… ouais, si tu demandes autour probablement aucun personne dira te que je suis un facile associé”.

Mi ha sorriso incerto. Poi ha detto “Lo so benissimo come sei, non c’è bisogno che chieda niente a nessuno”.

Mi sono sorpresa improvvisamente. Avevo di nuovo parlato francese senza rendermene conto e mi è sembrato strano averlo fatto con una persona che pur parlando italiano mi aveva seguita senza problemi di incomprensione e non essermi sentita impicciata al solo pensiero di non esprimermi chiaramente e non sentire neanche il bisogno di ri-calibrarmi.

Nicola si è alzato; ha detto “Facciamo due passi, dai” e mi ha messo un braccio intorno alle spalle. Mi è sembrato strano anche sentirmi come concentrata in quei pochi centimetri di pelle che attraverso due maglioni, una camicia e una maglia erano venuti a contatto con la sua mano.

 

Siamo saliti sulle piane.

La neve non era stata spalata, evidentemente Sabrina non aveva messo in conto la possibilità che qualcuno ci arrivasse.

Ho guardato giù, si vedeva il tetto solido di granito rosso come una L leggermente schiacciata, in prospettiva. La facciata della casa e la gente che ballava e si buttava sulla neve erano coperte da una porzione di pergolo quasi spelacchiata, il cono ottico era decisamente orribile. Un angolo della mia mente continuava a registrare queste informazioni automaticamente attraverso le mie brevi occhiate da studentessa di architettura.

Nicola guardava oltre, aveva lo sguardo sulle lucine del paese e le labbra distese.

Ho detto “Mi piacerebbe proprio, fare un pupazzo”, mi sono guardata le mani guantate delusa dalla penombra in cui eravamo avvolti.

Nicola ha mosso qualche passo e si è chinato, ha preso un po’ di neve e me l’ha tirata. Mi ha presa sulla fronte, ha detto “Eccolo, il mio pupazzo!”, ha riso aperto.

Abbiamo fatto a palle di neve. Non mi sentivo così combattiva da tempo, mi sono resa conto di aver accumulato troppa inerzia e troppo menefreghismo e troppi non-impulsi, anche, mi sono allontanata e poi avvicinata alla casa correndo nella battaglia e cercando invano di cambiare prospettiva. Ero euforica per il momento e disperata per quell’ultimo periodo spento della mia vita di cui di lì a poco non avrei ricordato già più niente.

Quando le guance ci si sono colorite e le mani atrofizzate e gli occhi illuciditi Nicola mi ha imprigionato i polsi con le mani, ha detto “Tregua! I miei polmoni chiedono pietà, devo smettere di fumare!”, siamo scoppiati a ridere.

Mi ha lasciato i polsi, si è infilato le mani in tasca, ha detto “Mi piacerebbe venire a vivere da te. Anche se dipingi e fai casino e sei terribile di mattina e detesti chi ti sveglia”, ha sorriso.

Ho detto “Anche se nessuno ti direbbe mai che sono una socia facile?”.

Ha detto “Io adoro le socie difficili!”, ci siamo messi a ridere. Ha detto “Però non voglio crearti casini”.

Gli avrei voluto dire che ero contenta che non se ne sarebbe andato e che in fondo non mi turbava più di tanto l’idea di vivere nell’appartamento del nonno in società con qualcuno ma stavo guardando di nuovo la casa e mi è tornato in mente l’orribile cono ottico che mi ha sopraffatta.

Nicola ha detto “Torniamo giù e ci prendiamo una Tequila per scaldarci?”, mi ha preso una mano.

Ho pensato che la prospettiva adesso mi sembrava decisamente migliorata e che alla fine forse non era un problema di cono ottico, ho annuito chiedendomi se stavo guadagnando punti in qualità di architetto o socia di Nicola.

  
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