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Autore: terence_lovegood    21/08/2014    1 recensioni
“A voi umani è concesso un dono inestimabile: l’amore. Non sarete eterni, certo. Ma cos’ è l’eternità concreta se confrontata con quella dell’’anima? E l’anima come può eternarsi, se non con l’amore?”
Un legame impossibile. Lei: driade. Lui: creatura mortale
Ho creato questa leggenda in occasione della prima notte d'estate. Avevo intenzione di leggerla per un evento in libreria, ma non ho potuto. La posto con la speranza che vi emozioni, vi affascini e vi coinvolga.
Un bacio.
-Terence
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tra le querce secolari un refolo di vento spirava incessante, infaticabile melodia afona, canto inascoltato, veicolo dei suoni boschivi. Chi si allietava al suono di quella voce? Chi, leggiadra, accompagnava quell’ immutabile musica con una danza celestiale? Una donna. Una dea. I lunghi capelli biondi, adagiati sulle bianche braccia e la diafana schiena, come raggi di sole irradiavano l’oscurità della fitta selva. Il blu dei suoi occhi: profondo lago del nord. Le acque cristalline, solcate da un’unica esile imbarcazione di legno. La  foschia penetrava leggera e silenziosa tra gli anfratti dei monti. Ci si sarebbe potuti tuffare, nel lago limpido dei suoi occhi, essere sfiorati persino da quell’acqua ghiacciata. I lineamenti sembravano essere stati disegnati da mano esperta, il corpo scolpito da un angelico scalpello. La figura era eterea, slanciata. Le lunghe dita pallide, sottili.
Trascorrevo le ore così, da bambino. In completa contemplazione della silfide senza nome. Credo sia stato il mio primo amore. Non te ne accorgi, a dieci anni. Provi solo una strana sensazione di contentezza immotivata dinanzi alla visione celestiale, riesci persino ad ascoltare un sommesso farfuglio nello stomaco. Non ci pensi, all’amore. Non t’importa, dopotutto. Hai trovato una fonte di gioia, perché dovresti dare un nome a tutto questo?
Sul far della sera mi recavo nel cuore della selva. La vegetazione s’infittiva, divenendo di un verde smeraldo sempre più sgargiante. La bruma si diffondeva impercettibile. D’improvviso una chiarore aranciato si concentrava nel centro della foresta. Una fiamma dalle mille punte si addensava, si compattava in forma di creatura umana. Si posava lentamente sul suolo, lei. Lei che non avevo il coraggio di avvicinare. Lei che danzava volteggiando leggeramente tra le cortecce ruvide  e contorte, tra i rovi e i sottili rami. Cantava, la silfide. Un aria soave, delicata, accompagnata dal verso degli abitanti invisibili del bosco.
“Attendo,
nel cuore una lacrima,
un sospiro,
per te.
Non mi resta che cantare,
ravvivare con la voce il ricordo di te
che mirando la luna pensi a me.
Me sola, senza te.
Non mi resta che cantare,
ravvivare con la voce il ricordo di te
che mirando la luna pensi a me.
Nel cuore un sospiro.
Attendo,
per te.
La stessa tristezza di quei versi velava i suoi grandi occhi. Custodiva chiaramente un segreto, la fanciulla. Segreto che svelai quella notte di plenilunio …
Chissà per quale ancestrale motivo gli eventi sovrannaturali si verificano in precisi momenti del giorno e dell’anno, e in luoghi scontati, per di più. Banale sembrerà  l’ambientazione e il tempo della mia storia, prevedibile, per così dire. Tuttavia gli accadimenti che sto per narrarvi non sono punto frutto della mia fantasia, senza dubbio tutt’altro che fervida. Prima di quell’incontro ravvicinato, infatti, avevo vissuto nella realtà più totale, il che è piuttosto strano per un bambino. Nessun amico immaginario, nessuna fatina dei denti, niente gnomi o elfi dei boschi. Nulla di fantastico e potenzialmente attraente per un ragazzino di quell’età mi aveva ammaliato, mai. Non che fossi triste e apatico, questo no. Semplicemente mi interessava altro, ecco. Ero persino privo di quel sadismo infantile nei confronti di tutti quegli esserini ripugnanti che popolano i prati. Ero diverso, senza un perché. Tuttavia sarà meglio continuare il racconto interrotto dal mio manifesto egocentrismo.
Accadde tutto quella prima notte d’estate. Aspettavo, acquattato dietro un cespuglio di more, la ninfa. Nell’attesa ingannavo il tempo ammirando il cielo stellato. Minuscoli puntini si apprestavano a comparire alla spicciolata. Venere brillava incontrastato, più luminoso delle stelle del firmamento. Un chiarore soffuso aveva illuminato la natura. La fanciulla tardava ad arrivare. Era ormai notte fonda, non un rumore nel bosco. Si udiva sommesso il frinire incessante delle cicale. Avevo ormai perduto qualsiasi speranza, per quella notte avrei dovuto rinunciare alla visione.
Per mia fortuna aspettai ancora un po’ prima di abbandonare definitivamente la mia posizione. Fatto, questo,che mi permise di assistere allo spettacolo più emozionante della mia vita. La silfide apparve. Uno stormo di civette intonò un’elegia lamentosa. La fanciulla stava distesa nel mezzo della foresta. Sembrava inanimata. Mi avvicinai a lei preoccupato.  Fu allora che il suo spirito, separatosi dal corpo, si rivolse a me. La voce soave e il tono dolce e sommesso. Avevo mille domande da porle, ma ero del tutto ammutolito. La mia lingua sembrava come paralizzata. Non avevo mai avuto il coraggio di avvicinarmi così tanto a lei. Non ci fu bisogno di parole. La fanciulla mi narrò la sua storia, quasi mi avesse letto nel pensiero. Non credo avesse questa capacità perché divina, quanto perché donna. Sono esseri angelici a prescindere, loro. Possiedono un’accesa sensibilità, impressionante. Sembrava infelice della sua immortalità, le aveva impedito di amare.
“A voi umani è concesso un dono inestimabile: l’amore. Non sarete eterni, certo. Ma cos’ è l’eternità concreta se confrontata con quella dell’’anima? E l’anima come può eternarsi, se non con l’amore?”
Quella frase mi lasciò di stucco. Siamo essere inappagati e incontentabili, noi. Privi di umiltà. Cerchiamo nella gloria e nel danaro una felicità inconsistente, priva di fondamento. Non accettiamo ciò che possediamo e aneliamo l’essere deificati , senza comprendere che l’unico sentimento di natura divina è l’amore, l’unico che trascuriamo dedicandoci a inutili pochezze.
Le labbra cremisi si inarcarono lievemente. Mi sorrise la dolce silfide, di un sorriso languidamente malinconico. Poi, continuò:
“  Tuttavia non ho vissuto sempre nell’ ignoranza d’amore. Se ciò fosse accaduto,  adesso non starei a tormentarmi, e a rivangare tristemente il passato. Odino mi concesse una notte. Un’unica notte da mortale, la sola che mi permettesse di sperimentare le dolcezze umane. Mi svegliai, quella stessa notte, distesa nel bosco. Aprii lentamente gli occhi. Mi scrutava curioso un giovane uomo, all’apparenza burbero. Ricordo ancora i suoi occhi blu, tradivano una sensibilità volutamente celata. Mi accolse, quel ragazzo. Abitava una baita rustica, deliziosa e insieme spartana. Mi raccontò di sé. Era un semplice spaccalegna. La madre era morta dandolo alla luce, il padre scomparso, lassù tra i monti, durante una battuta di caccia. Discorremmo per un tempo imprecisato, le dita delle mani intrecciate. Lo invitai a seguirmi al lago. Il cielo era più stellato che mai. Lo spettacolo fu più straordinario del solito. Migliaia di puntini luminosi presero a librarsi nell’aria, sopra lo specchio d’ acqua dolce. Un refolo di vento increspava leggermente la superficie scura del bacino. Le lucciole danzavano accompagnate dalla melodia del vento, illuminando l’espressione stupita e felice  dei nostri volti. Credo sia stato quello il momento, il momento in cui abbiamo compreso, compreso che non era il cielo, né le lucciole, né il lago a renderci tanto trepidanti. Restammo immobili, i nostri sguardi si incrociarono inevitabilmente. Lentamente le sue labbra scivolarono sulle mie. Una deflagrazione. Un bagliore intenso emanato dai nostri corpi caldi. D’improvviso, nella mia mente, una voce, un sussurro perentorio:
“ Ti concederò la mortalità, se lo desideri.”
Il mio cuore gridava supplichevole un sì incessante.
“ La funzione di sacerdotessa di Odino, però, non dovrà venire meno, e con essa la tua devota purezza.”
“ Qualsiasi cosa, pur di restare tutta la vita accanto a lui”, ripetevo sicura.
Non sapevo, ero completamente ignara. Ignara di quanto fosse difficile resistere all’amore. L’ardore mi stava corrodendo. Molte volte stavo per abbandonarmi alla passione. Alla fine, però, mi frenavo. Per lui, per me. Trascorremmo un’estate senza eguali. Inseparabili. Le nostre anime fuse ormai in una sola. Era questo l’amore. Stare ore l’uno tra le braccia dell’altro in silenzio, senza proferire parola, con la paura di spezzare quel sottile filo rosso che ci avvolgeva in una piacevole morsa. Le promesse inconsapevoli, in ogni caso, sono destinate ad avere vita breve. La reticenza durò solo una stagione. Le ultime sere d’estate sono sempre le più ammaliatrici. Il giuramento fu violato. I nostri corpi si sfiorarano in un turbine di luce. La folgore ci avviluppò  in un piacere eterno. Una musica soave spirava nel vento, ora impetuoso. Alle prime luci dell’alba l’incantesimo svanì, e con esso io. Da allora sono relegata  in questo tempio frondoso, una prigione di ghiaccio mi circonda. L’inverno mi accerchia, e cresce dentro di me sempre più inesorabile. Soltanto la prima notte d’estate, la stessa del nostro primo incontro, mi è concesso attraversare l’immenso cancello al limitare del bosco, invisibile agli occhi di lui”
La fanciulla tacque. Sottili lacrime le solcarono le gote bianche, caddero sul suolo, fiorirono, da queste, delicate margherite. La silfide si allontanò piano, la seguii con cautela. Dopo aver attraversato un sentiero non battuto, tra i rovi scorsi quel luogo. Non proseguii oltre. La ninfa si avvicinava silenziosa e immateriale a un uomo anziano sulla riva, gli occhi blu. Piangeva, l’uomo solo. Lo abbracciava, lei. Intorno crescevano inspiegabilmente rigogliosi fiori di campo. Sorrise, lui. Le prime luci dell’alba illuminarono il lago, l’uomo esanime disteso. La sua anima oltre i cespugli si allontanava, la sua mano in quella della ninfa.
Fine.
   
 
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