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Autore: beanazgul    13/01/2005    4 recensioni
di PlasticChevy traduzione di: beanazgul aka Adûnaphel Nota: Questa è la traduzione della storia originale in inglese “The Captain and the King”, scritta da PlasticChevy, un’autrice di fanfiction dotata di grande talento. E' ispirata al mondo del Signore degli Anelli, ma si tratta di un’ AU, cioè una versione alternativa del testo di Tolkien, i cui eventi prendono una strada diversa ad Amon Hen....se vi è sempre dispiaciuto vedere Boromir morire alla fine del primo libro/film, allora questa storia fa per voi! Se avrete la pazienza di avventurarvi in questa miriade di capitoli vi assicuro che non ve ne pentirete: vi lascerà senza fiato! PlasticChevy mi ha gentilmente dato il permesso di tradurla e io ho cercato di fare del mio meglio per rendere giustizia alla sua bravura, anche se è un lavoro molto impegnativo perché la storia è molto complessa e mi rendo conto che una traduzione non è mai all’altezza dell’originale! Disclaimer: Il Signore degli Anelli e tutti i suoi personaggi sono proprietà di J.R.R. Tolkien e dei suoi eredi. Li sto utilizzando solo per divertimento, non per vendita o profitto.
Genere: Drammatico, Azione, Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Aragorn, Boromir, Merry, Saruman
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: Contenuti forti
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Capitolo 3: La battaglia di Uglùk

 

Boromir si divincolò nelle corde, cercando di liberarsi, riuscendo però solo a peggiorare la sua situazione. Le funi che lo legavano al tronco del grande albero premevano dolorosamente contro le sue ferite, e la corteccia nodosa dell’albero gli martoriava la schiena, le braccia e i polsi. Aragorn era seduto accanto a lui, legato allo stesso albero, ma il frastuono delle voci degli orchi e il rumore delle asce che battevano sul legno rendevano difficile parlare: nonostante la loro vicinanza, i due uomini si sentivano isolati.

 

 

Con un sospiro di frustrazione, Boromir piegò la testa all’indietro appoggiandola al tronco, desiderando solo di poter chiudere gli occhi e dormire. Da quando l’oscurità era caduta su di lui aveva trovato stranamente difficile dormire, nonostante la sua stanchezza. Sapeva che questo era dovuto alla paura che si annidava nella sua mente - paura di non risvegliarsi, o peggio, paura di non riuscire più a distinguere, in quell’eterna oscurità, tra sonno e veglia, tra vita e morte. Era una paura infantile, lo sapeva, considerando che restare sveglio significava dolore e miseria, ma ciononostante non riusciva a liberarsene. Desiderava soltanto il semplice, riposante conforto di poter chiudere gli occhi e fuggire lontano dalla realtà.

Sospirò di nuovo, trasalendo quando la corda urtò contro la ferita nel suo fianco.

 

Come richiamato dal suo silenzioso sibilo di dolore, Uglùk arrivò a grandi passi, fermandosi accanto all’albero per schernire i due prigionieri.

 

 

“Non mettetevi troppo comodi” rise, “Appena farà buio e arriveranno i ragazzi di Mauhùr ce ne andremo”.

 

Boromir fece una smorfia, la cosa più simile ad un'espressione di sfida che gli riuscì, avendo gli occhi bendati. “Non se vi trovano prima i Cavalieri”, disse. “Vi trafiggeranno sulle loro picche e vi arrostiranno su vostri stessi falò, Uglùk”.

 

 

Uglùk sembrò trovare quelle parole estremamente divertenti. “Che vengano pure! Sono pronto ad affrontare quegli allevatori di cavalli e le loro lance lucenti. Che vengano pure, dico io!”

 

Si incamminò con passo pesante verso il frastuono, ridendo, lasciando Boromir intento a chiedersi che cosa gli orchi avessero in serbo per i Rohirrim. I biondi Figli di Eorl sarebbero stati abbattuti dalle spade di quelle vili creature, e Boromir rabbrividì, sapendo che non avrebbe potuto fare nulla per impedirlo. Digrignò i denti, frustrato dalla sua inutilità. Boromir di Gondor non poteva sopportare di essere inutile. La rabbia lo rendeva inquieto, impaziente, desideroso di azione.

 

Non riuscendo più a stare in silenzio, parlò cercando di farsi sentire al di sopra del rumore degli orchi.

 

 

“Grampasso?”, chiamò.

 

 

“Si?”

 

 

“Cosa stanno costruendo?”

 

 

“Una barricata. Ormai è già alta quanto un uomo, e piega verso la foresta per proteggere i lati”.

 

 

A Boromir bastarono pochi instanti per capire la strategia di Uglùk. Il capitano degli orchi avrebbe piazzato i suoi arcieri dietro la barricata di legno, e sterminato i soldati a cavallo, coprendo nel frattempo la ritirata del resto del gruppo verso la foresta. Un piano semplice e efficace, pensò Boromir, ma c’era qualcosa che non lo convinceva. Poi capì.

 

 

“Da quando gli orchi sono in grado di costruire?”, chiese ad Aragorn. “Credevo che non sapessero fare altro che uccidere e distruggere”.

 

 

“Non è forse quello che stanno facendo? Abbattono alberi, così da poter uccidere i Cavalieri.”

 

 

“Certo, ma non lo trovi strano? Un orco che mette a punto una strategia? Mi aspettavo che Uglùk fuggisse semplicemente nella foresta, contando sul fatto che i Cavalieri non osassero seguirlo. E invece si è fermato qui a costruire una fortificazione, a coprire la ritirata, a preparare un contrattacco…”

 

 

“Combatte come un uomo”, completò Aragorn, “Come un soldato”.

 

 

Rimasero entrambi senza parlare per un lungo momento, poi Aragorn aggiunse, cupamente: “Un altro degli inganni di Saruman. Gandalf disse che Saruman aveva creato questa razza di orchi più forti e più resistenti. Sembra che gli abbia dato anche qualcosa che Gandalf non aveva previsto”.

 

 

“Così i Rohirrim cavalcano verso la morte senza saperlo. Stanno inseguendo un gruppo di fuggiaschi. Incontreranno un esercito”.

 

 

Dopo quell’amara considerazione restarono entrambi in silenzio. Non avevano nient’altro da dirsi, nessun conforto da offrire; insieme ai Cavalieri sarebbe morta anche la loro speranza. Nessuno di loro ne aveva parlato esplicitamente, ma entrambi avevano sperato che la venuta dei Rohirrim avrebbe significato salvezza. Ora invece temevano che avrebbe portato solo altre sofferenze e altro dolore da aggiungere ai misfatti di Saruman. Altro sangue sulle mani dello stregone.

 

 

Gli orchi continuarono a lavorare, abbattendo un albero dopo l’altro per innalzare la loro barricata. Uglùk camminava avanti e indietro gridando ordini e calando la frusta ovunque il lavoro non procedesse abbastanza rapidamente per i suoi gusti. Gli occhi degli orchi continuavano a correre verso le colline che si estendevano ai margini della foresta, cercando di scorgere in lontananza l’arrivo dei primi cavalieri, e di tanto in tanto se ne udiva uno lamentarsi.

 

 

“Mi domando che cosa ha in mente Uglùk! A quest’ora dovremmo già essere al sicuro nella foresta buia, dove quei dannati Cavalieri non potrebbero trovarci, invece che essere qui ad aspettare di ritrovarci con una lancia piantata in gola. A che gioco sta giocando?”

 

 

“Giocando?”, ringhiò Uglùk, “Ti farò vedere io come giocano gli Uruk-hai, razza di scimmia! E quando avremo ammazzato tutti i cavalieri, mi ringrazierai di non dovere correre fino a Isengard con loro alle calcagna! Ora muovi la tua pigra carcassa, prima che te la scortichi a frustate! Muoviti!

 

 

Gli orchi si mossero, gli alberi caddero, e la barricata si innalzò lentamente attorno a loro. Quando il sole fu calato oltre le montagne a ovest, dalla foresta giunse marciando frettolosamente un altro gruppo di orchi. Arrivarono accompagnati da una babele di grida, risate e fragore di spade, e la squadra di Uglùk li accolse con entusiasmo.

 

 

“Mauhùr!”, muggì Uglùk, “Dove diavolo vi eravate nascosti tu e i tuoi vermi? Qui c’è lavoro da fare. Gente da uccidere!”

 

Mauhùr, un orco parecchio più piccolo di Uglùk, sbattendo le palpebre rapidamente per evitare la luce del sole che tramontava, ribatté alla provocazione con una risataccia. “Vermi, dici? Beh, questi fermi ti faranno comodo quando arriveremo alle montagne. Abbiamo aspettato il tramonto. I miei ragazzi non stanno a cuocersi sotto il sole quando c’è una bella foresta a portata di mano per nascondersi”.

 

 

Ringhiando di disgusto per la loro debolezza, Uglùk mandò gli orchi delle montagne ad aiutare i suoi Uruk-hai con la barricata, mentre si ritirava in disparte con Mauhùr per una conversazione privata.

 

L’attività si fece ben presto febbrile, alimentata dall’energia dei nuovi arrivati e dal sollievo causato dall’assenza del sole. Ma a un tratto, il trambusto cessò all’improvviso, e un silenzio innaturale cadde sulla truppa. Niente più grida, niente più rumore di asce, nemmeno il fruscio delle foglie. La stessa Fangorn sembrava trattenere il respiro in attesa.

In quel silenzio innaturale, Boromir sentì il terreno sotto di sé vibrare in profondità. Zoccoli di cavalli.

 

 

“Stanno arrivando”, mormorò Aragorn. Come ad un segnale, gli orchi cominciarono a gridare tutti insieme.

 

 

“Ai! I Cavalieri! I Pelle-bianca ci sono addosso!”

 

 

“Arcieri sulla barricata!”, tuonò Uglùk, sovrastando con la sua voce il frastuono. “Snaga, tu sul lato destro, Durbàk, sul sinistro! Sbrigatevi, ragazzi!”

 

 

Gli orchi obbedirono, lasciando cadere qualunque cosa avessero in mano per prendere le armi e si affrettarono verso la barricata. Nonostante la confusione, sembravano sapere esattamente che cosa ci si aspettava da loro, e gli ordini di Uglùk arrivavano con regolarità, arginando il panico, calmando le grida, e ingondendo negli orchi una rabbia feroce e determinata.

 

 

“Tenete giù la testa, non tirate ancora! Aspettate, ragazzi, aspettate! Lasciate che superino le colline e poi dateci dentro! Fermi ora…”

 

 

Nell’aperta pianura, i Cavalieri arrivarono galoppando in una veloce colonna, cavalcando in file da tre. Tenevano le lance alzate, con l’asta che poggiava sullo stivale e la punta che scintillava verso il cielo. Un manipolo di arcieri cavalcava a fianco della colonna, ma non avevano le frecce incoccate: stavano seguendo le tracce di un gruppo di orchi in fuga e non si attendevano un attacco. Nella luce del sole morente, con le loro cotte di maglia rilucenti e i chiari capelli che svolazzavano da sotto gli elmi, apparivano splendidi e letali.

 

Quando si furono avvicinati al limite del territorio collinoso, trovandosi di fronte la fitta ombra di Fangorn, il loro capo si alzò sulle staffe per osservare la traccia degli orchi. Piegava attraverso le praterie di Rohan, incontrando le secche fangose dell’Entalluvio, nel punto in cui usciva dalla foresta per poi seguire la riva orientale del fiume fino al limite degli alberi. Il cavaliere si sedette di nuovo sulla sella e si voltò, il viso orgoglioso sotto l’elmo splendente, per dare un ordine al suo secondo. A quelle parole, l’intera colonna svoltò apparentemente senza sforzo a destra, seguendo la traccia di erba annerita verso la foresta.

 

 

Il sole era ormai scomparso oltre i picchi che torreggiavano alla loro sinistra, e le prime ombre della notte cadevano sulla foresta ai piedi della montagna. In alto, il cielo era ancora illuminato dalla luce serale, ma le praterie erano già nell’ombra, e l’oscurità minacciosa della foresta si profilava davanti a loro. Eppure i cavalieri continuavano a galoppare, senza preoccuparsene, poiché la loro traccia era chiara.

 

 

Èomer, Terzo Maresciallo del Riddermark, cacciava orchi sin da quando aveva imparato a stare su un cavallo. Sapeva che non si sarebbero mai voltati ad affrontare soldati a cavallo, a meno che non fossero in schiacciante superiorità numerica, o fossero con le spalle al muro e costretti a combattere. Ma questi orchi non erano in numero sufficiente, e se avessero raggiunto i margini di Fangorn, avrebbero avuto tutte le valli ombrose per nascondersi. Non avrebbero combattuto. Sarebbero fuggiti, e il compito di Èomer sarebbe finito solo quando si fosse assicurato che i loro piedi non avrebbero più calpestato i prati del Mark.

 

 

L’èored risalì rapidamente la riva orientale del fiume, verso i primi alberi più esterni. Èomer si alzò nuovamente sulle staffe per scrutare la traccia, ma non poté vedere nulla al di sotto dei fitti rami della foresta. La pista rimaneva parallela all’Entalluvio, tuffandosi insieme ad esso tra gli alberi, verso la fitta oscurità. Il Cavaliere corrugò la fronte. Non temeva la foresta, sebbene la trattasse con il dovuto rispetto, ma mentre osservava quell’ombra impenetrabile, cercando un punto dove i Cavalieri avrebbero potuto passare, ricordò tutti i racconti che aveva sentito da bambino, e un involontario brivido lo percorse.

 

 

Scuotendosi di dosso il suo disagio, Èomer segnalò all’èored di proseguire, e guidò il suo cavallo in mezzo alla fitta vegetazione. Quando passò sotto i primi rami, l’ombra gli si parò davanti all’improvviso. Stava ancora cavalcando verso di essa, quando, con sorpresa, si accorse che era solida. Una muraglia di tronchi rozzamente tagliati, gettati sul loro sentiero. Con un grido di avvertimento, sollevò la mano per fermare i Cavalieri, ma la sua voce fu coperta da un assordante frastuono di grida e ululati provenenti dalla sommità del muro. Una pioggia di frecce si abbatté sui Cavalieri, trafiggendo elmi, armature, carne e animali. I cavalli nitrirono di dolore e gli uomini gridarono di rabbia.

 

Èomer fermò il suo cavallo così repentinamente che quasi lo fece sedere sulle zampe posteriori, spronandolo verso destra in un galoppo selvaggio. Si trovò a percorrere l’intera lunghezza di una barricata che si ergeva bloccando il passaggio accanto all’Entalluvio. Il muro cominciava dal fiume sulla sinistra, curvando fino a una fitta macchia di alberi sulla destra, ed era alto quasi quanto la testa di un uomo a cavallo. Sulla sua sommità di affollavano gli orchi, che scagliavano le loro frecce nere sulla massa dei Cavalieri.

 

Èomer aggirò la colonna di combattenti e voltò il cavallo verso le pianure, richiamando i suoi uomini mentre galoppava, “A me, Cavalieri di Rohan, a me!”. Accanto a lui, Èothain suonò il suo corno per segnalare la ritirata.

 

 

Un’altra raffica di frecce sibilò e si abbatté su di loro mentre fuggivano. Un uomo gridò di dolore e cadde di sella. Un cavallo inciampò, il collo trafitto da una freccia. Eppure i Cavalieri, disciplinati, si disposero attorno al loro capitano e sotto il suo comando si allontanarono dalla barriera letale.

Ma altri ancora caddero, poiché le potenti frecce, lanciate a distanza ravvicinata, perforavano le armature e trovavano aperture negli elmi. Un arciere alla fine della colonna rispose scagliando a sua volta una freccia, e un orco precipitò dalla sua postazione col dardo conficcato nell’occhio, mentre l’èored si affrettava verso lo spazio aperto delle colline, lasciando una schiera di morti e moribondi alle sue spalle.

 

 

Boromir sentì le grida dei cavalli e degli uomini morenti, e chinò la testa, afflitto. Per quanto tentasse, non riusciva a ignorare il familiare rumore della battaglia, e attendeva con dolorosa apprensione l’attacco successivo. I cavalieri avrebbero attaccato di nuovo, lo sapeva, perché l’onore li avrebbe costretti a vendicare la morte dei loro compagni, e il dovere imponeva loro di distruggere i nemici che avevano invaso i loro confini. Molte volte aveva combattuto a fianco dei Cavalieri di Rohan, e non dubitava che essi tenessero in considerazione l’onore e il dovere quanto qualsiasi soldato di Gondor.

 

 

Due volte i cavalieri si gettarono contro la barricata, e una volta tentarono di sorprendere gli orchi attaccando il lato destro. Gli orchi li respinsero con facilità, e Boromir rabbrividì d’orrore nel sentire i loro ululati di gioia mentre finivano con le spade i cavalieri caduti. Poi, quando la notte fu troppo buia per vedere, i Rohirrim si ritirarono appena fuori dalla portata delle frecce, e accesero numerosi falò in uno stretto semicerchio attorno alla barricata.

 

 

Gli orchi si divertirono per un po’ gettando una serie di proiettili improvvisati verso i Cavalieri silenziosi, in attesa, accompagnandoli con insulti e insolenze. Ma ben presto, vedendo che i Cavalieri non si muovevano oltre il cerchio di luce formato dai fuochi, si stancarono del passatempo e persero interesse. Gli orchi ricominciarono a lamentarsi della capacità di comando di Uglùk, dimenticando il massacro e il saccheggio che aveva appena procurato loro, e stavano già per abbandonare le loro postazioni sulla barricata quando il grido di una sentinella li fece correre di nuovo alle armi.

 

 

Un istante dopo Boromir udì l’inconfondibile sibilo delle frecce, e un altro rumore che non riuscì a identificare subito - una specie di crepitio che non aveva niente a che fare con le frecce.

 

 

“I Cavalieri stanno usando la testa”, disse Aragorn. “Stanno usando frecce infuocate. Vogliono dare fuoco alla barricata”.

 

 

“Un legno così verde brucerà?”

 

 

“La corteccia sicuramente”.

 

 

Come per dimostrare la verità di quelle parole, una freccia vagante superò la barricata, conficcandosi in alto nell’albero al quale erano legati i due uomini. Boromir, sentendola, alzò istintivamente lo sguardo. Un pezzo di tessuto infuocato gli cadde sul viso, e lui lo scosse via con un’imprecazione. L’odore del fumo riempì l’aria, insieme alle grida crescenti degli orchi furiosi, ma i due uomini non stavano più prestando alcuna attenzione alla battaglia. Erano ben più preoccupati delle fiamme che stavano cominciando a lambire i rami più bassi dell’albero cui erano legati, divorandone la corteccia antica e raggrinzita, divampando fin su alle foglie secche.

 

 

“E noi ci preoccupavamo di Saruman”, osservò Aragorn, amaramente.

 

 

Boromir rise senza allegria, scostando un altro tizzone ardente.

 

 

“Credevo di essere pronto a morire per il mio Re, ma a quanto pare mi ero sbagliato. Se compiace a Vostra Maestà, il vostro Sovrintendente umilmente richiede di farci uscire da questa situazione prima che finiamo arrostiti come due cinghiali allo spiedo!”

 

 

“E’ con grande rammarico che rispondiamo al nostro Sovrintendente, ma abbiamo le mani legate…”

 

 

Boromir imprecò di nuovo, quando altri frammenti di corteccia in fiamme caddero sulla sua gamba, rischiando di incendiare la stoffa dei calzoni. Aragorn sibilò per il dolore, e cominciò ad agitarsi per liberarsi dalle corde. Il fuoco, che stava divorando rapidamente l’albero, cominciò a diffondersi anche verso il basso, avvicinandosi ai due uomini seduti. I loro visi erano coperti di cenere e sudore, l’aria era troppo densa per respirare, e il legno dietro di loro diventava sempre più rovente.

 

 

Boromir si fece forza, preparandosi ad affrontare la morte e a pronunciare l’ultimo giuramento di fedeltà davanti al suo Re, ma i suoi pensieri furono interrotti dall’improvvisa ristata stridula di Uglùk.

 

 

“Ci siamo, ragazzi, è ora di andare!”

 

 

Quando il grande orco si fece strada verso di loro e recise le funi con un solo colpo di coltello, Boromir si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. L’orco se ne accorse e rise di nuovo. “Non avrete pensato che avrei lasciato arrostire la preda di Saruman per colpa di una manciata di pelle-bianca, vero? Ci siamo divertiti abbastanza con i cavalieri, ora è il turno di Mauhùr. Lui li terrà a bada, mentre noi Uruk-hai ce ne torniamo al lavoro. Muovetevi, ragazzi!”, gridò a un gruppo vicino di orchi. “Domani a quest’ora saremo alle caverne, e poi si torna a casa! A Isengard!”

 

 

Ruvide mani afferrarono Boromir, che si trovò sballottato di nuovo sulla spalla di un orco. Poi, con un grido di incitamento, gli Uruk-hai si inoltrarono a grandi balzi nella foresta.

 

 

 

 

Continua…

  
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