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Autore: Clockwise    22/08/2014    3 recensioni
«Sicura di non aver ucciso il gatto di nessuno, rubato qualche fidanzato, avvelenato qualcuno, fatto ritratti offensivi, non so… Sei piuttosto pericolosa quando ti ci metti.»
Mel finse di pensarci su.
«No, non negli ultimi tempi.»
«Beh, dovremmo cominciare a indagare sulle tue passate e presenti relazioni, allora, e cercare di scoprire chi è che hai mortalmente offeso.»
«Suona bene, Sherlock. Ci vediamo domattina a Baker Street?»
«Ah, no, domani mattina devo fare un salto al Bart’s, poi ho merenda con Moriarty, ma potrei essere libero per le tre.»
Genere: Commedia, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Benedict Cumberbatch, Martin Freeman, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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E sono tornata.
Ciao gente! 
Durante il mese di assenza forzata sono riuscita a scribacchiare qualcosa (buona vecchia penna e sante note del cellulare) che, con l'aggiunta di scene riciclate che vegetavano nel computer, voilà, capitolo nuovo. Capitolo che vi autorizza tranquillamente a gettarmi qualsiasi cosa abbiate a portata di mano, insultarmi, quello che vi pare, così come i prossimi che, prima che mi dimentichi, sono tre, più questo. Sì, siamo quasi alla fine e dato che non voglio rovinare tutto e il tempo libero mi sta scivolando via man mano che si avvicina la scuola, non vi garantisco niente su quando vedranno la luce, scusate.
Un ringraziamento sentito e gigante alle persone che seguono/ricordano/preferiscono/recensiscono - non sarei a questo punto senza di voi - grazie, davvero.
Alla prossima
-Clock



 
Capitolo 9
Scheletri nell’armadio
 
 
 
 
Lunedì 15 aprile.
Aveva finito di lavorare a mezzogiorno e non le aveva inviato nemmeno un messaggio, nonostante fossero quasi le otto.
Fai progressi.
Si sentiva un verme.
Il prezzo di fare lo stronzo.
Nemmeno lei gli aveva scritto, né l’aveva chiamato, a pensarci bene.
Avrà avuto da fare.
Anche lui aveva avuto da fare, con Sherlock.
Non cercare scuse e ammetti che non sei capace di fare lo stronzo. Non riesci nemmeno a liberarti di me.
Sospirò e alzò una mano per attirare l’attenzione del cameriere, ma sentì qualcuno dietro di lui esclamare:
«Ehi! Tu sei il tipo della tv! Sherlock Holmes!»
Benedict si voltò, per cercare la voce maschile che aveva parlato, e si trovò davanti un ragazzo di nemmeno trent’anni, con capelli scarmigliati, un orecchino, una bottiglia di birra e un sorriso un po’ brillo.
«Sì, sono io» sorrise mestamente Benedict.
«Wow, sei un grande, amico. Ti offro una birra?»
«Oh, grazie, molto gentile.»
«Figurati, amico.»
Gli fece spazio al suo tavolo e lo osservò sedersi con movimenti incerti. Il ragazzo parve accorgersene e sorrise un po’ goffamente.
«Questo è quello che succede quando perdi il controllo: sei sballato alle otto di sera. Triste.»
Benedict sorrise – puoi capirlo, l’hai fatto anche tu –, mentre il ragazzo chiamava un cameriere e ordinava due Guinness.
«A cosa stai lavorando? Sherlock
Benedict annuì.
«Abbiamo iniziato a riprendere la settimana scorsa.»
«Oh, che figo!» esclamò il ragazzo, sorridendo entusiasta. «Non ho seguito molto la serie, veramente, giusto qualche puntata, ma sarebbe da vedere tutta. E te sei parecchio bravo, amico, insieme a tutta la combriccola, lì, davvero.»
«Grazie» sorrise Benedict, piegando la testa. Arrivarono le birre, e i due brindarono «Alle storie!», come propose il ragazzo. 
Benedict corrugò le sopracciglia, dopo aver trangugiato un sorso.
«Storie?»
«Storie. Te sei un attore, se non ne sai te di storie. Io non sarò un gran letterato, e poi quando bevo divento particolarmente ignorante, senti come parlo, ma insomma… sei un attore, racconta una storia.»
Benedict si accigliò ancora di più. Perché adesso doveva raccontare storie a sconosciuti ubriachi? Ok che gli aveva offerto la birra, ma…
«Non saprei cosa dire… Perché non cominci tu?»
Fifone.
Il ragazzo ci pensò su.
«Mh. Si può fare. Inizio io, allora.»
 
°°°
 
Lunedì 15 aprile, ore 16.30, casa di Mel.
«Hai mai visto i disegni di Ben?»
Mel deglutì rumorosamente il suo sorso di tè bollente, ustionandosi.
«Disegni?» gracchiò. La signora Cumberbatch la guardò sorpresa.
«Sì, i disegni di Benedict. Ha sempre avuto interesse nell'arte, alle superiori dipingeva ad olio, ma non ho idea di dove abbia messo quelle tele... Era piuttosto bravo, anche se dice di no, mi ha fatto un ritratto una volta...» raccontò la donna, sgranocchiando un biscotto. Grattò Matisse dietro le orecchie, accovacciato accanto alle sue caviglie. Guardò Mel, che era ammutolita.
«Cosa c'è, cara?»
Mel la guardò, smarrita, e scosse la testa.
«N-niente, solo, io... Non lo sapevo.»
La donna si accigliò.
«Benedict non ti ha detto nulla? Non ti ha mai parlato dei suoi disegni?»
Mel scosse la testa. 
«Oh, quel ragazzo. Si prenderà una bella strigliata non appena metto le mani su di lui.»
Matisse agitò la coda per manifestare la sua approvazione e si strusciò sulle caviglie di Mel, miagolando come per chiederle di non crucciarsi, assicurandole che gliel'avrebbe fatta vedere lui a Benedict. 
Mel stiracchiò un sorriso: fra Matisse e sua madre combinati, Ben avrebbe avuto di che preoccuparsi.
 
°°°
 
Prese un altro sorso di birra e iniziò a raccontare, lo sguardo distante.
«Mi ero appena trasferito a Londra con degli amici, avevo nemmeno vent’anni. Lavoravo, perché non c’erano abbastanza soldi per il college e io non ero proprio un tipo da libri. Lavoravo in un bar. E, per farla breve, ho incontrato una ragazza. La prima volta abbiamo chiacchierato, la seconda le ho offerto un caffè e insomma, sai come funziona, no?, una cosa tira l’altra… ci siamo messi insieme. Era una cosa seria, insomma, lei era proprio la mia ragazza, andavo a prenderla dopo scuola e la accompagnavo in giro e tutto. Le volevo bene. Sai, sono il fratello piccolo, a casa, non ho mai avuto nessuno da proteggere, proteggevo solo me stesso dalle botte di papà e dei miei fratelli. Lei era il mio uccellino, era qualcuno che potevo coccolare e accudire. Le volevo bene, davvero. Davvero.»
Il suo sguardo si allontanò ancora, malinconico, nei meandri di memorie scolorite.
«E poi, ho mandato tutto a puttane. I miei amici si facevano. Droghe leggere, il sabato sera, niente di che. Cioè, niente di troppo serio. Relativamente. Insomma, io mi facevo con loro e… Non ricordo bene perché anche lei sia finita in mezzo, ma ha finito per farsi anche lei. Insieme a me, i primi tempi, con i miei amici, prima di rado, poi sempre più spesso. Poi da sola, anche una volta al giorno, anche a scuola. Diceva che ne aveva bisogno, che tutto andava meglio dopo una canna. Io spesso ero sballato quanto lei se non di più, quindi non ci facevo tanto caso. Passerà, dicevo. Ma, vedi, la differenza è che io mi facevo per noia o per divertimento o per sentirmi figo o che so io, ma, a parte la dipendenza fisica, potevo stare senza. Lei no. Lei diventava totalmente insofferente al mondo, quando non era fatta. Le faceva tutto odio, non sopportava niente, ma niente: dal governo, alla scuola, ai suoi genitori, ai suoi coetanei, agli autobus e ai commessi nei negozi. E si faceva sempre più spesso, diceva lei, “per stare bene”. È assurdo, non è vero?»
Tacque, meditabondo.
«Non le bastavo nemmeno io. Le droghe si sono appesantite e diventavano sempre più frequenti. Ormai eravamo dentro, capisci?, era difficile tirarsene fuori. Lei dipingeva, sai, e faceva delle cose… da un lato meravigliose, dall’altro inquietanti: non sapevi mai bene cosa avevi davanti. Un minuto sembrava una cosa, un minuto dopo un’altra. Sogni e incubi. Era bravissima. Dipinge ancora, sai? Ha fatto una mostra un po’ di giorni fa. O avrebbe dovuto, ho sentito che qualcosa è andato storto…»
Benedict si drizzò sulla sedia, improvvisamente più attento, con uno spiacevole nodo allo stomaco.
 
°°°
 
Domenica 14 aprile, ore 19.45, Skylon Restaurant, Southbank.
«Pronto? O-Olivia? Ciao, cosa…? Sì… Sì, grazie. Tu?»
Era nervoso, continuava a passarsi la mano fra i capelli, le sopracciglia corrugate. Si accorse del suo sguardo e i suoi occhi saettarono subito via. Alzò un dito e mimò uno “scusa” con le labbra, mentre si alzava e si allontanava di qualche metro, parlando al telefono, sempre nervoso, sempre agitato.
Mel non distolse gli occhi da lui un attimo, quasi accusatoria. (Perché tutto questo nervosismo, imbarazzo? Con chi stava parlando?)
Quando ritornò da lei, visibilmente sollevato e con le guance colorite, sfuggì di nuovo ai suoi occhi.
«Perdonami.»
«Figurati» disse lei, socchiudendo gli occhi. «Chi era?»
Benedict sorrise e fece un gesto vago con la mano.
«Oh, una… vecchia amica. Era parecchio che non la sentivo.»
I suoi occhi saettarono di nuovo verso di lei, ma li abbassò subito. Mel passò ad esaminare il menù, sovrappensiero, chiedendosi perché le mentisse.
 
°°°
 
«In ogni caso, siamo arrivati all’eroina. Ci è voluto un po’, ma ci siamo arrivati. E allora è stato il disastro. Io ero quello messo meglio: avevo paura degli aghi, quindi mi facevo pochissimo, per lo più sniffavo. Ma lei… Ha cominciato a marinare la scuola. A svendere i suoi quadri per procurarsi i soldi. Di solito trovavamo noi tutto, ma quando ha iniziato a volere di più, ha venduto i quadri. Anche dieci sterline per tele che ne valevano cinquanta, se dieci sterline erano l’obiettivo della giornata. Era così. Scappò di casa, venne da noi. E ricordo che per un finesettimana, forse, siamo rimasti da soli, e ricordo dei giorni meravigliosi – lei stava bene, io cucinavo per lei, scherzavamo e andavamo per il mercato di Camden a comprare stupidaggini. A te sembrerà idiota, ma io ricordo benissimo quei giorni come se fossero stati la settimana scorsa, e li custodisco come gioielli. E guarda, amico, che alla fine sono ricordi tutto quello che rimane» disse il ragazzo, con occhi prematuramente saggi nel viso giovane. 
 
°°°
 
Domenica 14 aprile, ore 22.37, davanti a casa di Mel.
Lo guardò, cercando di leggergli negli occhi cangianti.
«Va tutto bene, Ben? Se qualcosa non dovesse andare, me lo diresti?»
Era seriamente preoccupata, Benedict lo capiva. Sorrise, dissipando le domande e i dubbi che gli annuvolavano la fronte, nascondendoli per il momento.
«Certo, va tutto bene» mentì.
Mel socchiuse gli occhi, non convinta.
E ti chiamavano attore.
Ben la baciò, in un tentativo di ritrovarla – ritrovare sé stesso –; invano. 
 
Mel lo sentiva distante – dove?; lo strinse a sé.
 
°°°
 
Rimasero in silenzio, riflettendo sulle parole rimaste sospese fra loro, poi il ragazzo riprese, stringendosi nelle spalle.
«Comunque, puoi immaginare il resto. I suoi genitori l’hanno ritrovata, hanno scoperto tutto, è successo il finimondo. Quella sera stessa ha esagerato, è finita all’ospedale. È stata ricoverata per giorni. Lei era anemica ed era dimagrita tantissimo, è stata a un passo dalla…» Deglutì, senza il coraggio di finire la frase, gli occhi lucidi. «Aveva diciotto anni. Suo padre ha perso il lavoro quando hanno saputo che la figlia aveva problemi di droga – lavorava in non so quale azienda importante. Sua sorella è scappata di casa, in quel periodo, a sedici anni, anche se non so quanto sia collegato a lei. Lei è stata ricoverata in una clinica, un centro o come diavolo si chiamano quei posti. Così, da un giorno all’altro, non l’ho più vista. Nemmeno un saluto, sai.»
Tacque e abbassò lo sguardo, mettendo fine al racconto. Il cuore di Benedict batteva veloce, doloroso.
 
°°°
 
Domenica 14 aprile, ore 22.14, secondo piano dell’autobus per Greenwich.
«Ho sempre voluto un fratello. Lo chiedevo ai miei genitori come regalo di compleanno, quand'ero più piccolo, ma sono rimasto solo. Tu hai fratelli o sorelle?»
«Una sorella.»
«Grande o piccola?»
«Due anni più piccola.»
Benedict la guardò, sorpreso dalle risposte secche e lapidarie. Mel fissava dritto davanti a sé fuori dal parabrezza dell’autobus a due piani. Ben, prevedendo che forse si stava addentrando in territori pericolosi, continuò.
«Come si chiama?»
«Andrea, ora possiamo parlare d'altro, per favore? Non amo parlare della mia famiglia.»
«Oh. Sì, certo, scusa. Non volevo essere invadente, io...»
«Certo, tranquillo.»
Continuò a guardare fuori; le luci della sera di Londra si riflettevano sulle lenti degli occhiali.
 
°°°
 
«Non so perché ti abbia raccontato tutto questo, alla fine, è la prima volta che lo racconto a qualcuno, dopo dieci anni… Di solito non parlo nemmeno così tanto, faccio lo stronzo ironico e basta, mi sa che è colpa dell’alcol. Ma adesso va tutto bene, comunque, sai? Non l’ho più vista, sono tornato a Liverpool, da dove vengo. Sono venuto a Londra tipo due settimane fa, dovevo cambiare aria. Ho messo la testa a posto, lavoro in un ristorante, stesso proprietario di quello di Liverpool. Lei invece fa la pittrice. Ha anche un fidanzato, un tipo dei quartieri alti, pare, ma non sono geloso. Sono felice per lei, se lei è felice. Ho già fatto abbastanza danni in passato, anche se non volevo. Lo giuro, non ho mai voluto farle del male, né a lei né a nessun altro, anche se lei lo ha creduto per dieci anni e continua a farlo. Mi odia, ha dato la colpa di tutto a me, e se vogliamo essere veramente sinceri non è proprio tutta colpa mia, ma piuttosto che dirglielo o farle prendere la sua parte di colpa, se di colpa si può parlare, mi tengo tutto e la lascio andare, se risolve la situazione. Non sono poi così cattivo alla fine.»
Guardò Benedict come chiedendo rassicurazione, smarrito.
«Io-io sono certo che tu sia un’ottima persona. Hai solo… perso la strada per un po’.»
«Già, dev’essere andata così. Oh, be’, speriamo solo che voglia parlarmi ancora. L'ho rivista e ho fatto un po' un casino. Mi sa che ho rovinato tutto. Avrei dovuto stare più attento, non vede la sua famiglia da chissà quanto e io pretendevo...»
«Scusa?»
Il ragazzo sollevò gli occhi dal boccale.
«Non parla con sua madre da Natale, non si vedono da quello prima, ha un nipote di un anno che non ha mai visto.»
Il ragazzo abbassò di nuovo gli occhi e il silenzio si aprì fra loro. Il cuore di Benedict accelerò mentre un pensiero si faceva strada nella sua mente.
«Ehm, posso chiederti come ti chiami? Non penso tu me l’abbia detto…»
«Davvero? Che razza di idiota… Scusami, io sono Bruce, Bruce Gallagher.»
Si strinsero la mano. Benedict si schiarì la voce, guardando il tavolo.
«E, hem… La ragazza? Posso sapere il suo nome?»
Come se ne avessi bisogno.
«Ah, be’… Lo dico a te perché mi fido, anche se non so perché, ma guai se dici ad anima viva di questa conversazione, chiaro?» si raccomandò Bruce, puntandogli un indice contro. Benedict alzò le mani e sollevò le sopracciglia. L’altro annuì, soddisfatto.
«Mel.»
 
°°°
 
Giovedì 18 aprile.
«E anche questa è fatta. Non male, cara.»
«Grazie, Mrs Cumberbatch.»
La donna sbuffò e mise le mani sui fianchi.
«Quante volte ti ho detto che puoi chiamarmi Wanda?»
Mel sorrise e si strinse nelle spalle, scuotendo la testa.
«Non credo ci riuscirò mai. Mrs C. è il massimo a cui posso arrivare.»
Wanda sbuffò fingendosi esasperata. Rimirarono in silenzio la teglia di biscotti al cioccolato nel forno. Alcuni aborti di pasta frolla dalle forme improbabili e dall’odore preoccupante giacevano miserabili sul ripiano. Wanda se ne accorse e si affrettò a gettarli nella pattumiera: mai aveva fallito così vergognosamente, anche il primo tentativo di Ben con i biscotti era stato più dignitoso. Ovviamente, non aveva avuto cuore di dirlo alla ragazza, che adesso guardava il forno orgogliosa. 
«Visto? Ce l’ho fatta. Tu che non ci credevi.»
Matisse le rivolse un’occhiata sdegnata, per poi voltarle le spalle. Ruth si appoggiò al bancone con gli avambracci, ridendo. Per sua sfortuna – o fortuna, dipende dai punti di vista – era arrivata solo pochi minuti prima, non in tempo per assistere la signora Cumberbatch nel suo tentativo di istruire Mel sull’arte pasticciera, ma abbastanza per scambiare due chiacchiere con la donna e arrossire involontariamente al suo cognome.
«Direi che la prossima volta puoi tentare con un pan di Spagna.»
Mel guardò la donna con gli occhi brillanti e un cipiglio fiero.
«Se continuò così, in un mese cucinerò un pranzo per tutti!» dichiarò. Wanda rise con affetto – sembrava un personaggio di un fumetto, con gli occhiali fra i capelli scarmigliati, tracce di farina sulle guance, le mani sui fianchi e le gambe divaricate. Mancava un mantello svolazzante.
«Quello che vuoi tesoro, ma dammi un po’ di tempo per fare testamento, prima.»
Mel sembrò sgonfiarsi e spalancò la bocca, mentre Ruth rideva e Matisse la guardava come per dire “te l’avevo detto”.
«Mrs C! Così non vale!»
La donna scoppiò a ridere e le diede un buffetto sulla guancia.
«Facci l’abitudine, tesoro.»
Declinò l’offerta di un tè («Ho anche imparato a farlo! E non è velenoso.») ed andò a casa con la promessa di tornare il giorno dopo per assaggiare i biscotti.
Rimaste sole, Ruth aiutò l’amica a rassettare la cucina e si sedette con lei sul divano, con una tazza di tè fra le mani.
«Come mai la madre di Benedict ti aiutava a fare i biscotti?»
Mel sorrise e le raccontò della sua visita due sabati prima.
«Poi è tornata altre volte e ha detto che mi avrebbe insegnato a cucinare. È molto simpatica, mi fa piacere che venga. E poi, insomma… A volte, nei modi di fare, assomiglia un po’ a Ben. E, non so, ultimamente è strano…»
«Ancora a Bristol?»
«No, è tornato sabato.»
«E cosa succede?»
Mel sospirò fra i vapori della bevanda.
«Non lo so, suppongo sia stanco. Ha degli orari assurdi, a volte lavora per notti intere.»
Ruth abbassò gli occhi, riflettendo. Era il momento di dirglielo? O avrebbe dovuto aspettare ancora?
«Ma ho paura ci sia qualcos’altro, non può essere solo stanchezza. È da domenica sera che non lo vedo, ha detto che sta lavorando molto. Non ne dubito, certo, però… non so. Insomma, nemmeno una visita, un tè insieme. Chiama pochissimo e non risponde quasi mai. Sarà il lavoro, per forza...» mormorò Mel, rivolta al tè. Tacque sulla storia della pittura di cui non le aveva parlato, o della telefonata di quella Olivia, non le sembrava il caso di infierire.
Ruth trattenne il respiro. Ci siamo, è il momento, si disse. Vai.
«Gli hai parlato di Bruce? Che l’hai incontrato?»
Mel scosse la testa, assorta nei suoi pensieri. D’un tratto parve illuminarsi.
«Pensi che abbia saputo che l’ho visto? Per questo non mi parla?» chiese, preoccupata. Ruth fece spallucce e poggiò la tazza ormai vuota sul tavolino, accavallò le gambe.
«Fossi in te non mi tormenterei più di tanto. Forse, ha i suoi scheletri con cui fare i conti.»
Mel corrugò le sopracciglia.
«Che vuoi dire?»
Ruth trasse un respiro e ancorò gli occhi chiari a quelli dell’amica.
«Ti ho mai raccontato di come l’ho incontrato?»
 
Quando le ragazze alzarono la voce discutendo, Matisse rizzò il pelo e soffiò contro Ruth.
 
Mel la abbracciò e le portò dei fazzoletti, voltandole le spalle per chiudere gli occhi e tornare a respirare normalmente stringendo i pugni, le nocche bianche e le unghie conficcate nei palmi, in ferite di indignazione e delusione.
 
°°°
 
Sabato 20 aprile.
«Ovvio che soffrirà, è quello che vogliamo. Pensavi davvero che stessimo pianificando tutto questo per degli stupidi quadri, Seb? Cosa?»
Un sospiro accondiscendente.
«Sì, puoi tenerti il tramonto. No, la stazione è mia, va in salotto. Sì, anche il ritratto. Cielo, no, come ti viene in mente?» esclamò, scandalizzato. Strabuzzò gli occhi.
«Perché voglio usarlo come bersaglio per freccette.» Sbatté le palpebre, serio. 
Mentre Sebastian parlava, infilò la mano che non teneva il telefono in tasca e prese a passeggiare per la stanza.
«Esatto. Cominci a capire, finalmente. Bene, occupati dei dettagli.»
Si fermò alla scrivania e piegò la testa di lato, scorrendo pigramente delle foto con le lunghe dita affusolate. Una coppia, un uomo e una ragazza, sorridenti, ignari – felicità rubata.
«Oh, cos'è tutto questo sentimentalismo, Seb? Da quando in qua ti importa di chi fai saltare in aria? È una vittima come un'altra. Un po' speciale, forse. Il cuore
Sgranò gli occhi, lo sguardo lontano, oltre le fotografie.
«Il cuore puro dell'innocente fra le fiamme infernali del peccato di colui che ama.»
Sebastian non capiva bene di cosa parlasse: l'uomo si trovava in una dimensione nota solo a lui, una metafora – come quella volta, sul tetto, fra le ombre degli angeli.
«Ah, che poeta sprecato.»
Sospirò, piegando la testa di lato.
«Non devo ripeterti il motivo per tutto questo, giusto?»
Tamburellava con le dita sul legno lucido – Bach, partita numero uno –, accanto ad una scritta incisa con un coltellino pregiato abbandonato lì accanto – tre lettere:
I. O. U.
Dall’altra parte del telefono, il silenzio. L’uomo sollevò le sopracciglia.
«È iniziata, Seb.»
Sebastian Moran rabbrividì.
Una falce di sorriso illuminò il volto dell'uomo – fiera notturna, aracnide, incubo di bambino, inconfessabile spettro segreto di uomo, ghignante teschio di pirata – e fiamme mortifere danzarono nei suoi occhi neri.
«La Caduta.»
Carezza di morte sussurrata dal vento dell'Est.
«Boom.» 












 
  
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