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Autore: Tresor    22/08/2014    2 recensioni
Ti alzi, scivolando inesorabilmente dal mio abbraccio, e d’un tratto un gelo profondo, una sensazione di abbandono che non riesco a identificare, si impadronisce di me.
E’ la cosa più sgradevole in assoluto che io abbia mai provato!
Che succede?
Genere: Erotico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Akira Sendoh, Hiroaki Koshino
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 11

 

 

 

Davanti all’ingresso dell’hotel, un addetto del personale li salutò e prese in consegna la fuoriserie per portarla in garage, mentre i due passeggeri scendevano con i bagagli e si avviavano verso uno degli ascensori di vetro.

 

La card magnetica fece scattare la serratura della porta della suite nel silenzio del lungo corridoio.

Si richiuse alle loro spalle intanto che le luci si accendevano automaticamente.

Akira abbandonò il proprio trolley nei pressi e seguì con lo sguardo Hiro che avanzava più in là.

Il ragazzo si guardò intorno come a sincerarsi che tutto fosse rimasto come l’avevano lasciando partendo qualche giorno prima.

Si fermò davanti alla grande vetrata che dava sullo skyline della città, immersa nel buio della notte e nelle mille luci degli altri grattacieli.

E non lo sentì raggiungerlo, i passi ovattati dalla moquette.

Se non quando la voce dell’uomo gli fu a pochi centimetri dall’orecchio, mandandogli un brivido traditore lungo la schiena.

-          Vuoi uscire a cena fuori o preferisci che ordiniamo qui? – Si sentì chiedere in un semplice sussurro.

Incontrò l’immagine di Akira che si rifletteva sulla superficie lucida del vetro.

-          Preferirei rimanere qui, se per te fa lo stesso. – Espresse a bassa voce, fissandolo soltanto un momento. – Non ho voglia di stare in mezzo alla gente. -       

Lui gli sorrise.

-          D’accordo, chiamo il servizio in camera. Vuoi qualcosa in particolare? –

-          Decidi tu, va bene lo stesso. –

L’immagine rifratta assentì e si allontanò.

 

Hiro sospirò, un peso immane sul petto a schiacciarlo.

Sentì la voce profonda e sicura di Akira che parlava con qualcuno al telefono.

Non aveva fame, a dire il vero, lo stomaco ancora stritolato dalla morsa permanente che non lo aveva lasciato un istante in quella lunga giornata.

Ma avrebbe fatto finta di piluccare qualcosa tanto per non deludere le aspettative del proprio ospite.

In realtà l’unica cosa che davvero desiderava con tutto il cuore a quel punto era chiudersi nella stanza che gli era stata assegnata e andare a dormire, provando a escludere ogni brutto pensiero fosse stato anche con l’aiuto di un sonnifero.

 

Tuttavia fu consapevole, nell’istante in cui formulò quel desiderio in sé, che la sua sarebbe rimasta una misera e impossibile ambizione.

Sarebbe stata una lunga notte, si disse sgomento e rassegnato.

 

Qualcuno bussò alla porta parecchi minuti dopo.

Un addetto al piano condusse il carrello della cena in stanza appena Akira andò ad aprire.

Fu cordialmente licenziato e la porta si richiuse.

Hiro registrò appena i rumori alle sue spalle, paralizzato lì dove si era fermato, rifiutandosi mentalmente di distinguere le immagini che pur scorrevano sulla superficie scura davanti a sé, come fosse stato un enorme schermo, rincorrendo le luci esterne piuttosto che quelle all’interno.

 

Suo malgrado, però scorse la figura alta e slanciata di Akira che gli ritornava alle spalle.

Doveva essersi cambiato perché adesso indossava i pantaloni scuri del pigiama e la camicia dello stesso, lasciata negligentemente aperta a mostrare la pelle scolpita del torace e degli addominali.

E a piedi nudi avanzava per raggiungerlo.

Il ragazzo non poté impedirsi di provare un violento rimescolamento all’altezza dello stomaco, sconvolto irrimediabilmente da quell’immagine ammaliante.

Per l’ennesima volta in tutti quei giorni insieme, si domandò se Aki fosse consapevole del proprio fascino e lo usasse con deliberata provocazione.

O, più probabile, se ancora da qualche parte era rimasto quello che lui ricordava, era semplicemente naturale e incurante dell’effetto che faceva il suo corpo impunemente mostrato.

 

Raccolse un profondo respiro, tentando di trovare il coraggio di tenere a freno le proprie emozioni, ma non ne fu molto sicuro, mentre girava su se stesso per ritrovarselo non più riflesso, ma davanti in tutta la sua sfrontata invadenza.

-          E’ pronto, vuoi venire? –

Si sentì chiedere da un sorridente Akira, ignaro del suo stato d’animo.

Hiro inghiottì aria e fece un cenno impercettibile con la testa.

Lo seguì, lo stomaco sempre più chiuso e dolorante, e un imprevisto, imbarazzante irrigidimento delle sue parti basse.

Pregò disperatamente che lui non se ne accorgesse.

 

Sull’immenso tavolino di cristallo, davanti al divano, erano stati deposti due vassoi con del sushi, disposto ad arte da mani sapienti, due calici e una bottiglia di vino bianco di una nota marca.

-          Ho pensato che volessi qualcosa di leggero. –

-          Grazie, va bene. –

-          Non vuoi metterti più comodo prima di mangiare? –

Il ragazzo non seppe come interpretare le sue parole.

Si limitò a scuotere il capo.

Akira non aggiunse altro, gli fece un gesto con la mano per invitarlo a sedersi.

Lo vide accomodarsi sull’orlo della penisola del divano, lontano da dove sarebbe stato logico prender posto, e cioè davanti al tavolino, ma non glielo fece notare.

 

Tempo e spazio.

 

Si impose, paziente, e sedette a sua volta poco distante, deciso a concedergli tutto il tempo che gli serviva e a non invadere troppo il suo spazio per non soffocarlo.

Perché, lo vedeva, Hiro sembrava muoversi come su un campo minato, concedendosi di respirare lo stretto necessario per pompare aria sufficiente nei polmoni.

E non riusciva a rilassarsi.

Completamente.

Nemmeno nel loro viaggio di ritorno, quando gli si era accoccolato sulla spalla, lo aveva sentito lasciarsi andare.

Anzi, ancora si sorprendeva del suo gesto.

Ma ne era stato felice, malgrado il suo disagio fosse palpabile.

 

Tempo e spazio.

Si ripeté silenziosamente come un mantra.

Sapeva che ricondurlo a sé non sarebbe stata impresa facile.

Troppe barriere.

Troppe parole ancora da dire.

Troppe verità da pronunciare.

Non tutte quella sera.

Non tutte insieme almeno.

 

-          Hiro? – Lo chiamò piano.

Il giovane trasalì e lo guardò.

-          Scusami, ho dimenticato di lavarmi le mani. – Scattò più nervoso di quanto avesse previsto.

-          O.. ok, ti aspetto! –

Lo vide rimettersi in piedi e avviarsi verso il corridoio.

Quando scomparve alla vista, sprofondò nel divano, lasciandosi andare contro la spalliera.

Con una mano cercò il telecomando delle luci che aveva lanciato lì vicino, e regolò l’illuminazione, diminuendone l’intensità.

L’immensa stanza cadde in una penombra accogliente e meno invasiva.

Si dispose ad attendere.

 

L’acqua scorse fresca e rapida dal rubinetto del lavandino, appena fu sfiorata la fotocellula sensibile.

Hiro si lavò le mani e si rinfrescò il viso accaldato, sperando così di raffreddare il resto del proprio corpo agitato.

Il getto si arrestò nel momento in cui si allontanò e il liquido trasparente mulinò nello scarico.

Sollevò lo sguardo all’enorme superficie riflettente davanti a sé e l’immagine che lo specchio gli sbatté in faccia non gli piacque granché.

Aveva gli occhi arrossati e stanchi, con delle occhiaie paurose.

La pelle pallida e tirata.

Le labbra esangui e serrate.

Faceva schifo.

Giudicò impietoso, distogliendo gli occhi.

Puntò le mani sul bordo della vaschetta di porcellana, fece un passo indietro, incurvandosi e lasciò cadere la testa pesante in avanti.

Non se la sentiva di ritornare subito di là: percepiva chiaramente il proprio corpo stravolto da una serpeggiante eccitazione che gli pizzicava la pelle.

Ogni terminazione nervosa risvegliata da una violenta ondata di calore che si propagava dalla punta dei piedi, risaliva rapida e si concentrava come una bolla urgente e pulsante tra le gambe, rendendogli improvvisamente i pantaloni troppo stretti e l’erezione dolorosa.

L’immagine di Akira stampata nel cervello, bello e seminudo, e ignaro, e quel suo profumo familiare e sottile, inusitatamente gli risvegliava sensazioni che non provava più da anni.

Che non aveva più provato per nessuno dopo che era rimasto solo, neppure per qualcuno dei clienti che si erano succeduti in agenzia.

Quel piacere strisciante, insinuante e sconvolgente che aveva provato quell’unica, indimenticabile, volta e che nessun altro uomo era stato in grado di replicare, ora lo aggrediva cogliendolo drammaticamente impreparato.

Negli anni era stato un susseguirsi meccanico di reazioni automatiche, indotte dalla mera stimolazione fisica di mani e corpi sconosciuti, durante centinaia di amplessi tutti uguali e insignificanti pur nelle loro variabili, che non erano mai riusciti a raggiungere e toccare la sua mente, e meno che mai il suo cuore.

Quante volte aveva pensato incurante di essere diventato impotente e insensibile, a dispetto delle risposte del proprio corpo?

E adesso, eccola di nuovo, “quella” sensazione che gli esplodeva dentro, avvolgendolo come una fiamma, e distruggeva ogni convinzione cementata nel tempo.

Eccola, percepirla e provarla ancora e soltanto per l’unica persona che l’aveva creata per lui, gliel’aveva fatta assaporare e gliel’aveva piantata dentro, conficcandola nel profondo come la lama di un pugnale affilato.

Il cuore aumentò i battiti, suscitandogli un lieve mancamento.

Doveva esserne felice o spaventarsene?

Non seppe deciderlo.

L’unica cosa di cui era certo in quel momento era la tempesta che si era scatenata dentro di sé e l’inadeguatezza a disciplinarla.

Semplicemente perché non era preparato.

 

Così si prese qualche minuto.

Il tempo di darsi una calmata.

Si disse nel tentativo di convincersi a riprendere il controllo di sé.

Perché malgrado tutto, in quel momento, nello stato di prostrazione in cui era, sfinito dalle mille emozioni di quella giornata assurda, non avrebbe voluto che accadesse nulla tra loro.

Per quanto una parte di sé lo desiderasse costantemente, soverchiando la ragione e il buonsenso.

Non DOVEVA accadere nulla.

Anche se lui lo provocava, sebbene involontariamente – o no? – mostrandosi con quel pigiama nero che nulla lasciava all’immaginazione, rilucendo sulla sua pelle bianca e perfetta.

 

Non DOVEVA!

 

Infine si tirò su e raccolse un altro, l’ennesimo, profondo respiro.

Le condizioni non erano migliorate granché, ma forse poteva azzardare a mostrarsi senza suscitare l’attenzione della causa di tutti i suoi guai.

Se lo ripeté mentalmente mentre gettava un’ultima occhiata ostile alla propria immagine riflessa.

Si passò le dita tra i capelli per darvi un senso, ma le ciocche ribelli non vollero intendere e alcune gli ricaddero sulla fronte.

Le ignorò prima di cedere all’impulso irrazionale e rabbioso di strapparsele e uscì dalla stanza.

 

Sgomento si ritrovò Akira a pochi passi da lui e trasalì vistosamente.

-          Scusa, non volevo spaventarti, è che stavo venendo a vedere che fosse tutto a posto: sei stato chiuso dentro per parecchio tempo. –

La sua risata leggera, mentre gli parlava, gli riscaldò il cuore per un istante, facendogli dimenticare lo spavento.

-          Mi spiace, non mi ero accorto! – Mentì in un sussurro, subito distogliendo lo sguardo.

Il giocatore gli fece scorrere un braccio intorno alle spalle, avvicinandolo un poco a sé, e lo sospinse gentile a seguirlo.

La seta nera scivolò appena di lato con il movimento dell’arto, scoprendogli parte del torace: una folata di profumo avvolse il ragazzo come un secondo, impalpabile abbraccio, mandandogli i sensi in ulteriore confusione.

-          Stai bene, si? –

-          Si, grazie. – Ma il cuore di Hiro riprese a battere impazzito al centro del petto.

Di quel passo non sarebbe sopravvissuto, pensò, curandosi di non fissarlo.

Sedettero vicini sul morbido divano e solo allora si accorse che l’atmosfera era mutata dalle luci abbassate.

Di male in peggio!

-          Mangia qualcosa, ti prego, è tutto il giorno che non tocchi praticamente nulla. – Gli chiese Akira, offrendogli un piatto colmo di sushi.

Lui lo prese meccanicamente e se lo poggiò sulle gambe unite.

Per un momento ne fissò il contenuto chiedendosi che cosa farne, quasi avesse dimenticato il significato stesso di quel che aveva davanti.

Poi scacciò quell’assurdo interrogativo e prese un quadratino di pesce con le dita portandoselo alla bocca.

Lo masticò piano, lasciando che il cervello ne recepisse il gusto e la consistenza.

E si accorse che rimanevano quasi indifferenti, lui, la testa e lo stomaco, malgrado, ne era certo, sapesse che quel sushi fosse della miglior qualità e costasse anche uno sproposito.

Pur inappetente, si sforzò di mandar giù qualche boccone in più, giusto per non provocare ulteriore attenzione da parte del compagno, che era rimasto a fissarlo con un sorriso d’incoraggiamento disegnato sulla bella bocca.

-          E’ buonissimo. – Mormorò, sentendosi in dovere di commentare.

-          Sono contento che ti piaccia. – Approvò Aki annuendo felice.

Stette a guardarlo mangiare per qualche minuto, seguendo ogni suo gesto.

Dopo un po’ gli scostò una ciocca di capelli dalla guancia, portandogliela dietro l’orecchio, dove la sistemò perché stesse ferma.

E lasciò che le dita indugiassero sulla sericità e la morbidezza di quella porzione di pelle.

Hiro si arrestò turbato e dal gesto e dal tepore che gli stava trasmettendo alla guancia.

-          Ti stanno bene i capelli così. – Sussurrò l’uomo con un tono di voce più basso, accarezzandolo con uno sguardo colmo di affetto. – Non li hai mai portati tanto lunghi. –

-          Gr… grazie. –

-          Ti senti un po’ più tranquillo, amore mio? –

Il giovane deglutì a vuoto: ogni volta che sentiva pronunciare quelle due parole era una stoccata nelle costole.

Ed erano dolore e felicità al tempo stesso: gli piaceva così tanto chiamarlo in quel modo.

Gli era sempre piaciuto fin da quando si erano dichiarati la prima volta.

Gli sovvenne il ricordo traditore.

Istintivamente reclinò appena la testa verso la sua carezza morbida, lasciando che la guancia strusciasse contro i polpastrelli, ma non disse nulla, ben consapevole che qualunque cosa avesse risposto, sarebbe stata una bugia, ‘che non era tranquillo proprio per niente.

Aki si chinò su di lui, sfiorandogli le labbra con un bacio, assaporando lui e il gusto del sushi che gliele inumidiva.

 

Pietà!

 

Implorò Hiro dentro di sé, disperato, non osando fare un solo fiato.

Lo sentì ridere d’un tratto a un soffio dalla sua bocca.

-          Respira, piccolo, respira! – Gli disse sempre più sensuale.

-          Non prendermi in giro! –

-          Non lo farei mai. – Il blu cobalto delle iridi piantate nelle sue dilatate dall’ansia.

-          Stai ridendo di me. –

-          Non è vero, sei delizioso! - 

-          E tu un deficiente! –

Appena pronunciò l’insulto si pentì: aveva fatto un passo falso?

Se lo chiese mentre il sorriso sul volto davanti a sé si allargava invece di avvizzire.

-          Ma lo sai quanto tempo era che non mi apostrofavi così? – Esultò Akira con un entusiasmo che il ragazzo non riuscì a spiegarsi.

Certo che lo sapeva da quanto non lo rimbrottava con il suo aggettivo preferito e che più gli si attagliava: da quando si erano separati.

Glielo diceva così spesso quando erano ragazzini.

Se lo meritava tutte le volte per il suo atteggiamento sempre e costantemente leggero e felice.

Perché non prendeva quasi nulla sul serio, forte della sua filosofia la-vita-è-bella-perché-farci-problemi-inutili? che gli faceva affrontare tutto a cuor leggero.

E per questo entrando spesso in contrasto con lui, più posato e riflessivo, e caratterialmente più pessimista.

Esasperandolo e facendolo andare in escandescenze una volta su due.

 

S’accorse, mentre si perdeva in quella riflessione, di quanto, invece di offenderlo, lo avesse reso contento.

Beh… non che Akira se la fosse mai presa davvero.

Anzi, di solito gli veniva da ridere.

O da guardarlo con uno dei suoi classici sguardi da gatto sornione che avrebbero puntualmente smontato ogni sua velleità di punirlo per qualcosa a seconda del caso.

 

Impossibile.

Questo era sempre stato quell’uomo.

Impossibile da scoraggiare o da smontare.


Quante arrabbiature si era preso?

Aveva perso il conto.

 

Ricevette un altro bacio a fior di labbra, ma stavolta si permise di sorridere appena, felice di aver ritrovato un pezzettino del vecchio compagno di quegli anni.

Forse, da qualche parte di lui, c’erano ancora piccole schegge di ciò che era stato quando la vita era quella quotidiana di ogni adolescente pieno di voglia di vivere e di aspettative e di progetti.

E niente aveva dilaniato o indurito il suo entusiasmo.

Sperò con tutto il cuore di poterne rintracciare altre e mettere insieme i cocci.

… Con quel che restava di sé.

 

-          Ridillo! –

-          Cosa? –

-          Insultami ancora! –

-          Che? -

-          Daiiii! –

Aki lo baciò ancora in attesa che l’accontentasse, regalandogli sempre quei baci casti e lievi.

E ancora.

E di nuovo.

-          Se non la pianti di baciarmi come faccio a parlare, deficiente? – Sbottò Hiro di colpo, alterandosi di riflesso, ma senza convinzione.

Non si scostò tuttavia da lui e dal contatto con la sua vicinanza, le sue dita sulla guancia e la sua bocca irriverente e morbida sempre lì a un respiro da sé.

Per niente al mondo sarebbe stato disposto a staccarsi da tutto quello, qualunque cosa fosse.

Il cuore gli ballava in mezzo allo sterno, e assordava la ragione, che pur tentava di imporsi al di sopra del chiasso che faceva.

In un batter d’occhio si ritrovò stretto in un abbraccio soffocante che quasi lo stritolò.

Un angolino della mente gli fece registrare che il piatto sulle ginocchia stava per fare un volo sul tappeto.

Istintivamente lo afferrò perché non cadesse mentre l’ossigeno gli si frantumava tra i polmoni e la gola.

Ma Akira lo liberò subito, venendo in suo soccorso, e lo aiutò a tenerlo.

Così facendo gli sfiorò il tessuto dei jeans tra le gambe, poco più su del ginocchio, in un gesto in verità casuale, null’affatto intenzionale o provocatorio.

Tuttavia tanto bastò perché Hiro, in preda al panico, reagisse con uno scatto nervoso, allontanandogli la mano con una specie di schiaffo.

-          Hey, tranquillo, non voglio far niente! – Cercò di rassicurarlo l’altro sincero.

-          Mi dispiace, scusami… io… tu…  - Scattò in piedi irrequieto, portando il piatto con sé, completamente dimentico dell’uso che ne dovesse fare.

Anzi, lo abbandonò sul tavolino rapidamente e mosse qualche passo lontano sotto lo sguardo perplesso di Akira.

Che gli concesse soltanto qualche attimo prima di raggiungerlo.

Con un gesto fluido e delicato, gli fece scivolare le braccia intorno ai fianchi, e se lo tirò contro piano, facendo aderire la sua schiena al proprio petto.

Piegò il capo sulla sua spalla, affondando il volto nel suo collo bollente e attese interminabili istanti che si tranquillizzasse, percependo e assorbendo distintamente l’inquietudine che lo scuoteva.

-          Mi dispiace. – Pigolò il ragazzo in un sussurro, rabbrividendo da capo a piedi. – Tu hai pagato per avermi, non ho il diritto di sottrarmi, scusami, non volevo… -

La presa intorno a lui si fece più drastica, provocandogli un principio di soffocamento.

-          Non dire cazzate, te lo proibisco! – Il sibilo feroce che gli sfiorò l’orecchio gli fece dubitare di chi fosse quella voce. – Tu sei mio, ma non è per “averti” che ho pagato.

Calmati adesso, stavo solo cercando di aiutarti a tenere il piatto prima che si rovesciasse, nient’altro. –

-          Perdonami, sono stanco, non… non so più neppure che sto facendo. –

Immediatamente l’abbraccio ritornò dolce e pieno d’affetto, permettendogli di respirare.

Hiro girò un poco la testa alla sua sinistra, incrociando il respiro caldo e lo sguardo adorante di Akira.

Ebbe tuttavia la sensazione netta e paralizzante che se si fosse voltato un momento prima, si sarebbe scontrato con un muro di ghiaccio ostile.

Non volle soffermarsi, intimorito.

-          Andiamo a dormire. – Gli disse lui conciliante. – Questa giornata è stata davvero troppo lunga… -

Gli stampò un bacio leggero sulla bocca socchiusa e lo liberò dalla propria stretta.

Lo prese per mano e lo accompagnò fino alla porta della sua camera, aprì e ve lo sospinse gentile, inoltrandosi soltanto di un metro all’interno.

Qui lo strattonò leggero, riavvolgendolo nel proprio abbraccio e lo baciò per l’ennesima volta senza alcuna pretesa, con casta e limpida devozione, come se stesse sfiorando un oggetto prezioso e fragile.

-          Buonanotte, amore mio! – Si congedò, l’espressione riverente e affettuosa negli occhi e il timbro di voce così suadente che tanto bene gli riusciva, e che mandava in crisi la sua vittima.

Infine tornò sui suoi passi e si richiuse la porta alle spalle.

Lasciando un Hiro attonito e stordito, avvolto in una scia intensa di profumo, impossibilitato a capacitarsi di cosa fosse successo nel giro di un istante.

 

 

Tresor

 

   
 
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