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Autore: Prontaanarrare    24/08/2014    0 recensioni
Finalmente è passata la brutta stagione, finite le epidemie d'influenza, finiti i temporali, finite le gelate. Il sole si alza forte all'orizzonte, il cielo è sereno e la temperatura, non c'è dubbio, è ormai primaverile. Nel Corso principale della città c'è una stazione della metropolitana e ogni mattina tante persone pronte a prendere il loro treno godendosi la primavera. In mezzo alla folla ci sono una donna, ferma sul marciapiede, con la mente chissà dove, Silvia, e un uomo sempre di corsa, con lo sguardo altrove, Marco; gli unici nel Grande Viale, sempre così trafficato, a sembrare addirittura appartenenti ad un altro mondo, dove è ancora inverno, dove la paura sembra avere ancora la meglio e dove il sole sembra non splendere. Ma cosa succede se un giorno ci si scontra faccia a faccia col proprio destino? Ci si scotta o ci si abbronza toccando il sole all'improvviso?
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo 4

CIELO INCERTO
 
Laura Trani parcheggiò l’auto nell’unico posto libero del Grande Viale. Sorrise compiaciuta, stringendo il portachiavi Burberry. Per trovare il bar dove aveva appuntamento con l’amica aveva dovuto attraversare il viale per ben tre volte e poi lo aveva fatto altrettante volte per trovare un posto dove poter lasciare la macchina. Alle otto del mattino della domenica, possibile che ci fosse tanta gente in giro? Sospirò, già stanca in mezzo a un mondo che sembrava seguire una traiettoria per sé e che forse, dopo la telefonata di Marzia, lei poteva far girare per il verso giusto. Si adeguava da anni, era ora che gli altri iniziassero ad adeguarsi a lei. Camminava per il marciapiede in direzione del portico scuro, decorato da alti vasi di piante dalle lunghe foglie color smeraldo e sormontato dall’insegna bianca del bar. Di tanto in tanto le nuvole bianche che ricoprivano il cielo si scostavano per far spazio a un rapido raggio di sole e la debole luce brillava nei ghirigori argentati delle sue scarpe. Presto lei e tutta la sua famiglia avrebbero luccicato. La sera prima, mentre era a cena dagli zii, lo zio e il cugino avevano annunciato a tutta la famiglia che avevano trovato i locali giusti per il loro progetto. Avevano saputo che presto avrebbero messo in vendita proprio ciò che faceva al caso loro, bisognava soltanto aspettare che Angelo ritornasse in città. Laura pensò che fosse tutto perfetto: il cugino e lo zio avrebbero aperto la loro pizzeria e con essa avrebbero avuto i guadagni che meritavano, dopo una vita di lavoro alle dipendenze dagli altri. E un impiego nella Favenza Corporation era lì, quasi pronto per lei, non le restava che andarlo a prendere. E lei ormai non era più una ragazzina, aveva 34 anni sulle spalle, di esperienza forse fin troppa. Ne aveva visti di altri giorni come quello, di situazioni, di problemi. Aveva visto tante cose, comparse ai suoi occhi, e finalmente si sarebbe concessa il lusso di scegliere lei la visuale. Aveva già in mente il panorama perfetto e lo vedeva avvicinarsi sempre di più, riemergendo da un ricordo risalente a dieci anni prima. Gli anonimi colori pastello di una serie di condomini riempivano lo sguardo, il campanile del Duomo spezzava quella distesa in due blocchi, trovandosi in una simmetrica corrispondenza con il tetto a sfera del piccolo stadio, dall’altro lato della città. In fondo al quadro, la macchia verde di un parco di cui non ricordava il nome tagliava la terra per congiungerla al cielo. Esattamente ciò che vedeva quando si affacciava dalla finestra di un ufficio al terzo piano, uno dei tanti della Favenza Corporation. Pensare a quel cognome generò in lei un brivido, che le percorse la schiena e la trasportò in una scia di ricordi lontani, fra i tratti simili, austeri e scuri, di Sergio, Giulio, Roberto: i Favenza di tre generazioni, l’uno diverso dall’altro, che aveva amato e odiato, ognuno a modo suo. Roberto, fondatore e primo dirigente della’azienda, era un ultrasessantenne vispo e severo quando lei aveva presentato lì il suo curriculum, nove anni prima. Era uscita da una serie interminabile di studi, stucchevoli esami e voti inutili. Voleva lavorare e non vedeva aziende migliori nel territorio, in merito a reputazione e prospettiva di guadagno. Era tutto perfetto, in ogni virgola. E forse anche in ogni puntino, quando Giulio, il figlio del direttore, allora un quarantenne in carriera, lavorava nel suo ufficio al terzo piano e, affiancato da altri due colleghi, aveva intrattenuto un colloquio con lei. Laura si era quasi sentita infastidita dai modi precisi e rigidi dei tre uomini in giacca e cravatta, si era sentita scrutata in lungo e in largo, ma alla fine il piccolo Favenza le aveva prestato una penna per firmare il contratto. Aveva cominciato a lavorare, stringendo parecchie amicizie, tra cui quella con il pignolo Giulio Favenza che aveva acconsentito alla sua assunzione. Ricordò quei tempi con una smorfia d’amarezza e si trovò finalmente sotto il portico del bar. Tra le pratiche e le varie attività imprenditoriali da gestire aveva acquisito familiarità con quell’ambiente  e aveva gustato davvero qualcosa che si potesse definire un progetto per il futuro, dopo anni e anni in cui le persone più grandi di lei si perdevano in sproloqui riguardo ai fatidici progetti per il futuro. Con la certezza di una carriera pronta da scalare sopportava le lunghe giornate estive davanti ad un computer, con l’unica consolazione del condizionatore lì vicino. Convinta di avere tutte le carte valide si ripeteva che bastava soltanto giocarle, se non voleva trascorrere la vita ad alzare lo sguardo oltre il vetro sottile di una finestra del pianterreno. Con quelle carte a sua disposizione avrebbe potuto salire le scale, magari fino al terzo piano come faceva Giulio, che immaginava spesso come direttore del plesso. Muoveva in fretta le sue dita carnose sui tasti neri e sorrideva tra se e se: Giulio alla direzione dell’azienda, lui che più volte aveva sottolineato i vantaggi pratici del suo metodo di lavoro, per lei sarebbe stato molto più vantaggioso rispetto al rigido Roberto. Tra lavoro e speranze portava a termine le otto ore previste dal contratto e usciva dal piccolo ufficio salutando i colleghi. Un giorno, addirittura, aveva salutato anche un elegante ventenne che camminava veloce per il corridoio. Poi aveva scoperto che vent’anni non li aveva ancora compiuti e  che si chiamava Sergio Favenza. Più tardi, mentre lui parlava, lei si appoggiava alle pareti chiare del corridoio, ascoltando di come si era recato in azienda per chiedere al padre le chiavi della macchina e di come non aveva nessuna intenzione di lavorare lì con lui e il nonno, trovando più interessanti gli studi agrari.

- Sì sono un contadino e avrò le mie piantagioni un giorno, altro che imprenditore. –

Entrambi si erano messi a ridere, dirigendosi verso la porta a vetri dell’ingresso. Mezz’ora dopo si era ritrovata su un’elegante macchina sportiva che probabilmente apparteneva ai due direttori aziendali piuttosto che al ragazzo dal bel sorriso che un’ora dopo la baciava, una volta parcheggiata l’auto in centro. Fu un gioco di passione che Laura volle continuare. La intrigava l’idea di uscire con Sergio e ancora di più l’idea di farlo con Sergio Favenza. Era eccitante e semplificava ulteriormente le cose. Tra giri in macchina con lui e giornate di lavoro asfissianti si sentiva padrona del suo piccolo regno in espansione. Pensava con una vena di umorismo che, nonostante Sergio avesse deciso di andare a coltivare piantine su larga scala, se loro due si fossero sposati e lei avrebbe ereditato il titolo di direttrice dalle mani di Giulio l’azienda sarebbe rimasta comunque nelle mani della famiglia. Che cosa poteva esserci di più perfetto? Dovette scoprirlo a proprie spese: la perfezione tecnica del discorso con cui Sergio l’aveva lasciata. Avevano appena compiuto un mese, quando lui, al volante della macchina e con lo sguardo distratto, le spiegava che sentiva che non era un feeling perfetto quello che lui sentiva tra loro due, come se quell’intrigante scintilla che aveva animato il loro primo incontro si fosse spenta troppo presto. Poi l’aveva guardata con una smorfia di dispiacere. Lei, cieca e furiosa, gli aveva tirato uno schiaffo e gli aveva urlato che era uno stronzo e aveva approfittato di lei, che invece lo amava davvero, aveva intenzioni serie e gli aveva regalato un bracciale costosissimo per il loro primo mese, perché doveva essere il primo di una lunga serie. Lui aveva accostato e le aveva risposto con lo stesso tono di voce tranquillo che le aveva sempre rivolto, con la placida serenità dello sguardo che doveva aver ereditato dal padre.

- Ti stai insultando da sola, io ti ho solo detto che non sta funzionando. E non si può pretendere di parlare di futuro e stabilità dopo un mesetto, eravamo ancora un germoglio, ce ne vuole di tempo prima che si arrivi alla pianta! –

Lei piangeva lacrime di frustrazione.

- E tu l’hai ucciso il germoglio. Tu non sai cosa sono le emozioni. –

- Parli tu, che ti sei fidanzata col nipote del titolare dell’azienda in cui lavori? Com’è perfetta la casualità dell’amore! –

Laura era rimasta interdetta. Era scesa dall’auto piangendo e imprecando mentre la voce tranquilla di Sergio la sfiorava appena.

- Un consiglio per il tuo bene: non affannarti, vivi più tranquilla. –

Laura ancora rabbrividiva nel ricordare quelle parole, seduta al tavolo di un bar dall’insegna blu, mentre aspettava che arrivasse Marzia col suo collega. Come si era permesso di parlarle in quel modo? Lui non si affannava, al massimo doveva far andare avanti quattro piantine, non aveva motivo di affannarsi, non poteva capire cosa significasse gestire un ufficio della Favenza Corporation, o tentare di riconquistarlo dopo anni e anni, ritornando al presente. Tentò di scacciare il pensiero dalla sua testa, ma la memoria ritornò prepotente al giorno successivo, in cui lei, seduta al computer, piangeva altre lacrime. Era entrato Giulio dalla porta del suo ufficio. Le aveva detto ridendo che non era saggio disturbare gli altri con i suoi singhiozzi e le aveva dato una pacca sulla spalla.

- Coraggio, bella signorina! Il lavoro è più importante di qualunque cretino. –

Giulio non sapeva che il cretino in questione fosse suo figlio, almeno, non lo sapeva in quel momento. Si era lasciata sfuggire una risata e aveva sistemato il trucco sbavato con il mascara d’emergenza che teneva nella borsa, ritrovando la determinazione. La figura di Marzia spuntò dall’ingresso del gazebo e Laura accantonando i ricordi si alzò per andarle incontro.

- Ciao Laura, Angelo ci raggiunge tra pochissimo, sta cercando un parcheggio. –

- Ah, buona fortuna. –

Si sedette di nuovo al tavolo, aspettando il collega di Marzia, insieme all’amica. Lei aveva insistito perché si conoscessero, lui era un ragazzo estroverso, assunto dall’azienda tre anni prima. Si ritrovò così a stringere la mano a un giovane biondo, dagli occhi vitrei e dallo sguardo provocatorio, addolcito da un’aria da ragazzino all’ultimo anno del liceo, nonostante i ventotto anni che doveva avere se aveva fatto bene i conti.

- Angelo Liguori. –

- Laura Trani. –

- Bene, signore mie, sediamoci e ordiniamo. –

Mentre il cameriere prendeva appunti su un taccuino nero, Laura osservava Marzia, dubbiosa.

- Dai, Laura, è la tua occasione. Se il gatto non c’è? –

Le interruppe il timbro squillante di Angelo.

- I topi ballano, lo sappiamo tutti, ma, fatemi capire, in questo caso il gatto sarebbe il vicedirettore Serpi? –

Laura sogghignò.

- Non più, Angelo, non più vicedirettore. –

- Sì, scusa, è l’abitudine. Ma, in ogni caso, perché era il gatto nella vostra battuta? –

Laura sospirò, spostando lo sguardo altrove e incrociando quello di una donna con una maglietta fucsia sgargiante che le passò accanto, dirigendosi al tavolo vicino.

- Devo proprio rispondere? –

Angelo Liguori si sistemò una ciocca di capelli e ammiccò.

- Sì mia cara. –

Laura bevve un sorso dalla tazzina fumante che il cameriere aveva appena poggiato sul tavolo e cominciò a raccontare.
 
 
Silvia camminava assorta lungo la traversa in cui abitava. Alzò gli occhi al cielo. C’era ancora la primavera che lei non sentiva? Era ancora una fallita? Il cielo non aveva sole. Era bianco come i suoi pensieri. Lei si sentiva trasparente come l’aria indecisa di quella domenica. La sua vita era uguale a quella del giorno prima? Forse, la stessa, fallita di sempre. Il cuore non lo era. Batteva ansimante, con l’immagine di un volto che avrebbe voluto vedere. Delle mani sottili che ritornavano alla sua mente e un sorriso azzurro, della stessa materia di cui sono fatte le carezze, invisibile e tremante. La aspettavano, la aspettavano da sempre. C’era un ristorante dall’altra parte della città, e c’era lei con i piedi già sulla strada, e gli occhi aldilà dei palazzi del Grande Viale. Stava andando esattamente dove la stavano aspettando. Che cosa doveva aspettarsi? L’aria era mossa da un soffio di vento, poca gente si muoveva sul marciapiede; restava immobile sull’orizzonte il suo sguardo incerto. Lo vide e sgranò gli occhi. Non poteva essere una visione reale. Tutti gli uffici erano chiusi la domenica. Era la sua testa che si perdeva nei desideri? O erano i suoi occhi che finalmente non le mentivano più?

- Buongiorno, bella mia. –

Silvia lo guardò tremando.

- Sei venuto qua, così presto? –

Marco si avvicinò a lei.

- Per te. –

Silvia arrossì.

- No, non lo merito. –

Le strinse i fianchi. Cessò il tremore.

-Marco, potrò mai sdebitarmi? –

Lui spostò le sue mani sul collo sottile della donna, giocherellando con la catena del ciondolo.

- Vuoi che facciamo quadrare i conti subito? –

- Certo, tu sei l’esperto di bilanci aziendali. –

Lui la strinse a sé.

- Ma serve un’esperta di alchimia dei sapori. –

Avvicinò il viso a quello di Silvia, chiuse gli occhi e dischiuse le labbra sulle sue.
L’alchimia avvenne in un bilancio perfetto. Silvia si aggrappò a quell’ancora di salvezza. Il calore di Marco la illudeva di aver trovato la perfezione. Ancora percepiva come una forze estranee alla sua vita il profumo soave di quell’uomo che la stringeva e il contatto elettrico delle sue mani che la sfioravano. Fremeva, pensando che l’ardore di quell’attimo era incomprensibile, e inesauribile nel suo mistero. Poteva esserci momento più perfetto di quello? Difficile da credere, eppure nell’istante successivo, quando lui si scostava, sussurrando il suo nome e sorridendole, si poneva di nuovo quella domanda, come se il bacio fosse nulla in confronto a quei gesti. Perfezione o no, lei non riusciva a credere che quella fosse la realtà e non qualche stupida illusione. Magari, era proprio qualche stupida illusione.

- Andiamo? Sbaglio o ti aspettano al ristorante? –

Dovette scostarsi da quegli ingarbugliati timori e afferrare la mano che le veniva offerta.

- Non sbagli. –

Si chiese ancora una volta perché dovesse perdersi in pensieri così stupidi e soprattutto così inconsistenti. Marco non lo avrebbe fatto, Marco era premuroso, scrupoloso, pragmatico, lei irrazionale, distratta, insicura, una roccia contro un refolo di vento. Mai sarebbe stata capace di restituirgli ciò che le dava. Gli scoccò un bacio sulla guancia liscia rabbrividì: in compagnia sua, di quella persona che aveva reputato perfetta e irraggiungibile, e che a volte continuava a pensarlo, ogni effusione assumeva una bellezza cinematografica. S’immaginò attrice, aiutante protagonista accanto all’eroe del film. Trattenne una risata e tornò nel proprio ruolo di cuoca pazza. Ripensò a quando aveva pronunciato quelle parole tre giorni prima, scappando da Marco.

“Non meriti di rovinarti per questa povera cuoca pazza”.

Chissà se era vero, o se si trattava soltanto di deliri del malumore. Non importava, non sarebbe successo più, e quella mano maschile che stringeva salda la sua ne era una tacita conferma.
 
 
- Lorenzo Serpi era il vicedirettore ed io mi ero appena lasciata con Sergio Favenza. –

Angelo la guardò sbalordito.

- Sei stata con il figlio del direttore? –

- Sì, ma mi ha lasciata dopo un mese. Dicevo, a quei tempi Serpi, di cognome e di fatto, era vicedirettore e gli stavo antipatica. Mi squadrava ogni volta che mi salutava. Sentivo sempre un certo tono di sufficienza quando lui mi rivolgeva la parola, come se fosse un padre che stesse parlando alla figlia che deve ancora crescere. Mi dava un fastidio enorme, come si permetteva? –

Angelo fece un gesto di noncuranza.

- Non sei l’unica, ormai siamo abituati, ok, eravamo abituati. –

- Senti, tesoro, tu ancora studiavi quando io ero lì dentro e sono sicura che non ti odia come odiava me. Mi guardava come se dicessi sciocchezze. Del tutto diverse erano le sue figlie, Alessia e Giulia, molto gentili, molto buone, due pezzi di pane, le ho conosciute dopo una cena aziendale. –

Angelo la fissò incuriosito.

- Era una bella amicizia, andavamo al cinema insieme o uscivamo per una pizza. E poi abbiamo litigato. Si parlava di lavoro e io ho cominciato a tirare le classiche battute sui dirigenti. Non ho fatto nulla di male, si scherzava come si scherza tra amiche. Evidentemente non hanno gradito il riferimento al loro padre. –

- E per questo è finito il vostro rapporto? –

- Pian piano si sono allontanate. E sono arrivate a dirmi che ero una ragazza molto forte, ma troppo sicura di sé e che per attirare il consenso altrui squadravo la gente e mi perdevo in battutine poco carine. E così per questi motivi addio Laura Trani. Io do tanto e questa alla fine è la risposta. Chissà cosa avrà raccontato loro il paparino, quell’uomo mi avrà dipinta come un diavolo. Ma, comunque, non m’interessa cosa pensa di me la gente, io vado avanti. E sono andata avanti anche allora, finché lui non mi ha fatta licenziare. –

- E perché mai? –

Laura alzò le spalle.

- Se ci penso… -

- Vai avanti! –

Si accinse in una goffa imitazione.

- “Signorina Trani, qua ci sono ben tre errori, sa che cosa ha rischiato? Sa cosa succede se non quadrano i bilanci? Questo è per via del suo metodo, non dico che sia del tutto sbagliato, no, ha dei lati positivi, è molto veloce, ho notato, ma..” –

Sospirò nervosa.

- Non scorderò quel “ma” per tutta la vita, mi ha detto che ero superficiale e non dedicavo la giusta attenzione ai dettagli. Non capisco che male ci sia se una persona sbriga le faccende seguendo un ordine diverso e più veloce, dovrei passare le nottate in ufficio? Mi sembra che io abbia una vita, oltre al lavoro, o mi sbaglio? –

- No, non ti sbagli. Come hai reagito? –

- Ho fatto quello che desideravo fare da mesi. Non ho avuto paura di fargli notare il suo metodo di rivolgersi alla gente e soprattutto a me. Gli ho chiesto se poteva lasciarmi in pace,ribadendo che dovevo sbrigarmi, perché avevo un appuntamento a cena. Lui ha perso le staffe. –

- Mamma mia, non saprei immaginare Serpi che perde le staffe! –

- Non c’è nulla da immaginare, sempre la stessa faccia da dipinto appeso al muro. Mi ha guardato con un lampo d’ira, poi mi ha sorriso e ha aperto la porta. Prima di andarsene, me l’ha detto. –

Laura rabbrividì al ricordo di Lorenzo Serpi che la fissava con uno sguardo truce.

“Signorina, prima impari l’educazione e il rispetto, poi si presenti in un posto di lavoro. Si consideri licenziata. Buona serata, si diverta a cena.”

Mentre rievocava la scena raccontando ai due compagni al tavolo, tornò la delusione a stritolarla nella sua morsa implacabile.

- Come si è potuto permettere di venirmi a parlare di educazione a me? Crede che non li abbia dei genitori, vorrebbe dir loro qualcosa? Ovviamente poi Roberto Favenza non ha voluto dire di no al suo beniamino e io fuori, di nuovo, addio Laura Trani. Poi dicono che non è vero che ormai nella vita si va avanti a simpatia. –

Angelo Liguori le afferrò la mano e la guardò sorridendo.

- Non pensarci più, è finita. Lorenzo Serpi non è più il vicedirettore di nulla, ormai. Non è nessuno in quel palazzo. –

Marzia ammiccò leggermente.

- E adesso il direttore è Giulio, l’unico pezzo grosso che ti ha sempre avuta in simpatia. –

Alla sua voce si aggiunse il timbro allegro di Angelo.

- E poi il nuovo vice è un pezzo di pane, un uomo buono, credimi. Certo, non che io vada d’amore e d’accordo con lui, però alla fine, ripeto, non è come Serpi, non farebbe del male a una mosca. –

Laura si lasciò sfuggire un sorrisetto.

- Di bene in meglio. Vado a pagare, ve la offro io la colazione. Poi mi parlate di quest’uomo buono. –

Si alzò col portafogli in mano e a passo spedito entrò nel locale.
 
 
- Silvia? –

- Marco? –

- Da quando ci siamo conosciuti non facciamo che incontrarci casualmente, o quasi, per motivi di lavoro, diciamo. –

Lei lo fissò torva.

- Sì, e con ciò? –

Lui alzò le spalle, come per scusarsi.

- Sembri infastidita.. –

Le guance della donna arrossirono.

- No, è solo che è tanto bella la casualità dei nostri incontri. –

Marco cercò i suoi occhi scuri, persi nell’orizzonte.

- Silvia, la casualità non dura per sempre. –

Fece una pausa, poi riprese in tono scanzonato.

- Ad ogni modo, se credi così tanto nella casualità magari può succedere che stasera, casualmente, io mi ritrovi con la mia macchina sotto casa tua alle otto e tu, per pura casualità, ti trovi lì sul marciapiede senza nulla da fare, a guardare il cielo. Poi, chissà, per un’incredibile coincidenza, attenzione, solo se capitasse questa straordinaria coincidenza, potremmo ritrovarci addirittura insieme sulla mia macchina. –

Silvia rideva.

- Basta, ho capito. –

Marco le rivolse uno sguardo severo.

- Allora? Qual è la percentuale che ciò realmente accada, secondo te? –

Silvia alzò lo sguardo al cielo, come per fare un rapido calcolo, mentre in realtà cercava qualche parola da farfugliare come risposta, davanti a quella banale richiesta che entrambi avevano reso così bizzarra.

- Silvia? Mi darai una risposta o dovrò cavartela fuori dalle labbra? –

Lei riabbassò lo sguardo verso l’uomo che la fissava, fermo, vicino al cartello rosso della fermata della metropolitana.

- Vieni a prenderla. –

- Con piacere. –

Marco la baciò e lei lo strinse a sé. Lui si staccò.

- Eh no, questo si chiama barare, mia cara, non cercare di farmi dimenticare ciò che ti ho chiesto. –

Silvia chinò il volto.

- Inoltre, bella mia, ho già preso la risposta. –

- Allora dimmi la percentuale. –

Le rivolse un sorriso tenero.

- Novanta per cento. –

Silvia lo scrutò e si accigliò.

- Hai sbagliato, la risposta giusta era 99%. –

Lui alzò le spalle.

- Non volevo sbilanciarmi, lo sai, sono prudente e accorto. –

Silvia si mise a ridere e ripeté le sue parole, cercando di imitare quella smorfia seria e compita che le piaceva tanto.

- Sì, sei “prudente e accorto” –

- Ah sì?! Mi fai il verso? Allora il tipo “prudente e accorto” se ne va. Ciao Silvia. –

- No, dai, vieni qua. –

Scoppiarono a ridere.

- Allora, Silvia, posso confermare il 99% ?

Lei sorrise.

- Virgola nove. –

Marco la baciò in un soffio e la trascinò giù per le scale. I colori scuri del soffitto e delle pareti riflettevano delle immagini che vedeva solo Silvia, appartenenti ad altri giorni lontani, immagini che non avevano più ombre, né sfumature, solo colori sbiaditi, figure bidimensionali, in cui la terza dimensione, che conferisce una parvenza realistica, era stata cancellata dal tempo. Mentre Marco camminava al suo fianco, si chiese quanto potesse essere strano il tempo, a volte scorre lento trascinandosi e arrancando sempre sullo stesso scenario, altre volte fugge in un solo istante, micidiale e inafferrabile, e non segue nessuna logica umana nel scegliere con quale delle due modalità agire, comunque inesorabile, con quale delle due armi a sua disposizione colpire l’uomo. Mentre scendevano le scale verso il binario, Silvia pensò che laggiù, nella caverna del trasporto veloce, ai suoi occhi il tempo scorreva su due piani distinti, come una catena di DNA divisa in due filamenti che si allungano in direzioni opposte: nel suo caso il passato, gravoso e sofferto, e il presente, leggero e ancora fragile. Nonostante che a quest’ultimo Silvia si aggrappasse con tutte le sue forze non poteva cancellare lo spettro degli anni passati, sbiadito ma presente e assolutamente reale. Marco le strinse la mano, mentre in lontananza si udiva il fischio del treno.

“Il passato è passato, e adesso è passato il treno”.

 Mentre si avvicinavano al vagone e aspettavano che scendessero le persone, fu scossa da un pensiero agghiacciante, un contatto improvviso dei due fili del tempo: lo stesso fischio, quella domenica accanto a Marco e dieci anni prima, accanto a delle persone che non voleva ricordare, dove non c’era un uomo che la stringeva, soltanto l’ansia di andare avanti, un soffocante senso d’angoscia, più avvolgente di qualsiasi stretta, tenace e oscuro come una catena, con tanto di lucchetto. Scosse la testa e strinse più forte la mano di Marco.

“Il passato è passato”

Se lo ripeté per due volte, senza convinzione. Era una bella frase, indubbiamente ad effetto, eppure, perché da anni e anni la vita sembrava dimostrarle il contrario? Agli occhi di Silvia si presentava più che altro come uno slogan da supereroi, veritiero soltanto in bocca a gente che sorride in posa, una frase bella ed effimera come l’incanto di una cometa che riempie il cielo, rara e veloce, appena il tempo di farsi ammirare dalle persone per poi sparire in chissà quale angolo dell’universo. Silvia pensava che, invece, per la gente che non sorride, non c’è frase ad effetto che possa sciogliere i nodi.

- Marco, secondo te è vero che il passato è passato? –

Lui sospirò.

- Lo diceva Laura, una sorta di mia ex. –

- E tu? –

- Non mi sono mai fidanzato ufficialmente con lei e il passato è passato. –

Scoppiarono a ridere mentre avanzavano verso le porte finalmente libere.

- Marco, lo hai mai capito se è vero o no? –

“Forse Marco potrebbe essere una di quelle persone che sorridono in posa declamandolo felici?”

Lui non rispose e s’infilò nel treno, tirandola a sé. Cercarono dei posti vuoti, non li trovarono e si appoggiarono a una sbarra verticale rimasta libera.

- Non lo so. – 

Silvia si voltò di nuovo verso di lui.

- Cosa? –

- Se il passayo è passato. -

- Ah già. –

- L’avevi già archiviata come domanda inutile? –

- No è che… -

S’interruppe, attirando a sé lo sguardo interrogativo di Marco.

- Che? –

- Non voglio pensarci. –

Marco le scostò un ciuffo di capelli dalla fronte rispondendole di nuovo, la voce tranquilla in un sussurro.

- Non serve. –

Lei sorrise e lo baciò. Il rumore di sottofondo della metro, con le sue corse e la sua gente in movimento, li accompagnò per tutto il viaggio, e poi fino alle scale che sboccavano all’incrocio che li attendeva, dove pochi minuti dopo si salutarono.

- Silvia, ti vengo a prendere alle quattro? –

Lo guardò serena.

- No, grazie. Riposati. Me la saprò cavare. –

- Va bene, anche perché credo che mi aspetti un altro pranzo di festeggiamento, ci sono ancora i parenti dell’altro ramo della famiglia. –

- Te lo meriti. –

- No, non è vero. Buon lavoro Silvia. –

La donna ringraziò e si scostò dalla sua stretta. Assaggiate ancora una volta le sue labbra si allontanò. Marco la lasciò andare con un occhiolino malizioso. Silvia gli sorrise di rimando, voltando in fretta il viso arrossato verso la strada davanti a sé. Percorse tutto il marciapiede fino al ristorante, con un’immagine in testa ad accompagnarla, mai uguale e sempre mozzafiato: gli occhi di un uomo, solo gli occhi di un uomo, in fondo, ma l’amore è capace di far parlare anche i sassi. Pensare la parola “amore” fu come uno schiaffo in faccia per Silvia: era amore? Solo il tempo poteva risponderle. Camminava sotto il cielo, esile, nell’aria incolore che non aveva visto il sole né la pioggia, e che nel corso della giornata poteva aprirsi al solleone come al temporale. Non c’era risposta, solo un cielo incerto da guardare. Controllò l’orario sul display del cellulare: le otto e venticinque minuti, appena passate. Assaporò l’ultimo tratto di strada percorrendolo a passi lenti, fermandosi di tanto in tanto. E ogni volta che si fermava, si sovrapponevano le immagini di pochi giorni prima, quando tutto era voglia di fuggire, quando non c’era neanche quella linea di luce fragile a cui si aggrappava, quando correva su quel marciapiede, trafelata. Quando non c’era Marco, o quando c’era e lei scappava. Sorrise, scorgendo i contorni della sua figura che si specchiavano sul vetro della porta. Scostò il battente e ciò che vide la irrigidì di colpo, colorandole il volto di stupore.
 

 
Marco restò a guardarla, ancora per un attimo. Accompagnò con lo sguardo il movimento leggero di quelle gambe affusolate, finché Silvia non si infilò nella porta a vetri sormontata dall’elegante scritta che indicava l’hotel Riveira. Si voltò e percorse a ritroso tutto il marciapiedi, fino alle scale della metropolitana. Come spesso gli succedeva la realtà intorno a lui divenne uno schermo in cui proiettare i pensieri. Silvia e il suo nuovo lavoro si dipingevano a pennellate vivaci e confuse sui colori opachi della stazione e del treno. Ripensò all’invito che le aveva fatto, e a come fossero riusciti a giocarci su. Sentì quella strana sensazione, ormai familiare, che puntualmente lo assaliva. Diffidenza. Disillusione. Qualcosa che riusciva a fargli sembrare meno calda la luce del sole. Quando avrebbe smesso di stare sulla difensiva? Eppure, accanto a quella donna dagli occhi mogano e lo sguardo fugace, abbassava ogni difesa. Come se avesse la certezza che, per nessuna ragione al mondo, lei avrebbe potuto fargli del male. Forse era proprio quella la sfumatura dell’amore che a lui, uomo razionale e pragmatico, era concesso assaporare. Silvia era la sua irrazionalità. Scese dal treno alla fermata che dava sul Grande Viale e scosse la testa. Fino a pochi giorni prima aveva immaginato che una notizia come “Sei il vicedirettore” lo avrebbe fatto ansimare di mille progetti, e in effetti, quello stesso giovedì aveva potuto ammirare la perla di saggezza del fratello riguardo ai babbuini rampicanti proprio perché ci aveva provato. In quel momento, che lo era ufficialmente, c’era solo Silvia. La vita scombina tutti i piani. E lui doveva fidarsi? Rise, almeno di Silvia sì. Non c’era nessun pericolo in quelle mani che lo stringevano delicate, o in quella voce che a volte s’incrinava raccontandogli la sua vita e che diventava provocatoria quando gli suggeriva di trovare le probabilità nei baci. Si chiese se fosse vero che proprio nei baci si nascondessero delle verità e sorrise languido al pensiero che quella sera avrebbe potuto approfondire le sue ricerche. Un’altra delle incognite del Grande Viale. Quella sera sarebbe stato con Silvia perché, pur senza nascondendo il fatto col gioco della casualità, si erano dati un appuntamento. Non era stata una richiesta, solo una promessa velata. In fondo gli aspetti più importanti della vita non erano sanciti da nessun regolamento, solo da un tacito accordo. Lui trafficava abitualmente con diversi regolamenti, padroneggiandoli con la dimestichezza di un marinaio con la sua nave. I taciti accordi della vita, fuori dalle sue attitudini professionali, erano un mistero. Da sempre, si soffermava ad osservarli, e mai a capirli, si lasciava vincere da essi, e mai tentava di dominarli. Né l’arte, né l’amore, né la bellezza, né Silvia necessitavano di essere comprese, solo di essere amate. Erano dei taciti accordi a cui l’uomo, muto e inerme, doveva sottostare. E così anche la vita: da subito, nel suo principio, un ovulo che tacitamente si lascia fecondare da uno spermatozoo e poi, sempre avanti, nel suo continuare, un corpo che senza parole detta alla coscienza l’accordo primordiale di ogni essere vivente: se ti nutri, vivi, se non ti nutri, non vivi.
 

Laura Trani allungò una banconota al cassiere e gettò lo sguardo al gazebo, rivolto al suo tavolo. Angelo e Marzia erano in piedi insieme ad un altro uomo di spalle. Vide soltanto il suo fisico slanciato e i capelli corti, corvini. Vide Marzia stringergli la mano sorridente. Chi era? Prese il resto dalle mani del cassiere e si diresse verso di loro. Magari era un loro collega che era stato promosso, le aveva detto proprio Marzia che quello era il periodo giusto. In tal caso conoscere un suo futuro collega sarebbe stato un elemento a suo vantaggio. Si avvicinò al tavolo e l’uomo dai capelli scuri si voltò.

- Ciao Laura! –

Lei sobbalzò.

- Vi conoscete? –

Sentì aumentare le palpitazioni e scostò una ciocca di capelli dalla fronte.

- Sì, ci conosciamo. –

Abbozzò un sorriso.

- Ciao Marco. –

Non aveva avuto più contatti con lui da dieci anni, prima che avesse lavorato alla Favenza Corporation, quando lei stava per laurearsi e lui aveva appena vent’anni. Sperò vivamente che la sua ipotesi si rivelasse sbagliata e che Marco non sarebbe stato un suo futuro collega.

- E’ un vostro collega? –

Marzia ammiccò.

- No, non è più un nostro collega. –

“Anche lui lavorava lì ed è stato licenziato? Ben gli sta!”. 

- E’ il nostro vicedirettore! –

- Cosa? –

Si sentì il cuore in gola. Aveva pensato “chiunque tranne Serpi” e tra tutte le persone che abitavano nel mondo e che possedevano una buona laurea in economia aziendale, proprio Marco Carini? A quel punto chi era il peggio tra loro due? Scosse la testa.

- Da quanto tempo lavori lì? –

- Sette anni. –

- Vicedirettore dopo soli sette anni? –

Vide Marco accigliarsi. A distanza di dieci anni scorgeva di nuovo i suoi occhi socchiusi e la sua fronte corrugata.

- Saranno stati sette anni intensi, Laura. –

Irruppe fra loro la voce chiara di Marzia.

- Sì, Laura, lo trasferivano di qua e di là, lo hanno sempre fatto lavorare tantissimo, in effetti, Marco, ti deve piacere proprio! –

La donna scoppiò a ridere, incrociando lo sguardo diffidente di Laura, senza capire perché l’amica non si rilassava.

Marco, intanto, sorrideva.

- E, in effetti, mi piace. Questa promozione non è che altro lavoro, non illudetevi. –

- E’ anche un bell’onore, però. –

- Non esiste onore senza onere, Marzia. –

Laura rigirava il portafogli tra le mani, fissando il pavimento, impotente nel territorio in cui si era presentata per regnare. Sapeva cosa pensasse Marco di lei, glielo aveva detto in maniera molto chiara dieci anni prima, e, di conseguenza, non l’avrebbe assunta mai. Doveva fargli cambiare idea. Come? Come poteva conquistare quell’uomo così lontano che aveva nelle mani il filo invisibile di cose che a lei sfuggivano? Sfoderò il miglior sorriso che poté.

- Marco, ti va se ti offro un caffè? E’ tanto che non ci vediamo, e magari mi racconti di questa promozione. –

Lui tentennò con lo sguardo.

- Va bene, ti ringrazio. –

Laura si sedette al tavolo che occupavano prima mentre Marzia e Angelo si allontanavano salutandoli. Ordinò un altro caffè e mentre Marco sorseggiava il suo, gli sorrise.

- Sai, per sei mesi ho lavorato anch’io alla Favenza Corporation, prima che arrivassi tu, ma prima raccontami com’è stato per te. –

Marco le lanciò uno sguardo interrogativo, poi iniziò il suo racconto, chiedendosi perché le interessava tanto.

- E dopo tutto ciò, adesso devo prendere il posto di Serpi. Non so se sono all’altezza, sì, va bene, so fare il mio mestiere, forse. Però lui era molto lungimirante e, anche se di poche parole, è sempre stato una figura importante lì dentro. –

Alzò gli occhi dalla tazzina ancora calda e incontrò quelli gelidi della donna di fronte a lui.

- Non direi proprio. –

- Perché? –

Laura perse ogni controllo e con la voce rotta raccontò all’uomo che la osservava tutte le cause per cui non era d’accordo con quei complimenti. Marco la guardava titubante.

- In effetti, hai osato un po’, era pur sempre il tuo vicedirettore. –

Laura strinse i denti.

- Marco, mi aveva trattata male. –

- Laura, ti ha solo ripresa. L’ha fatto per il bene dell’azienda, se l’avessi ascoltato, forse saresti ancora lì. –

La donna sospirò.

- Ormai quel che fatto è fatto e io sono qui. Mi sono rifatta una vita. Per fortuna non tutti la pensano come Serpi. –

- Laura, è un uomo in gamba, non puoi negarlo. E non pensare che sia facile stare al suo posto, fidati, lo so. –

“Certo, adesso è lui il vicedirettore!”

Laura si morse il labbro, era bello e odioso come dieci anni prima, non era cambiato. Ed era il vicedirettore della Favenza Corporation. L’unico elemento che giocava a suo favore era la sua età. A differenza di Serpi, non poteva vantare trent’anni in più sulla carta d’identità, era addirittura più giovane di lei. Il rispetto verso chi ha più esperienza poteva benissimo essere archiviato, si confortò Laura.

- Ti ricordi quella sera che abbiamo ballato sulla spiaggia, dieci anni fa? –

Marco la guardò sorpreso.

- Sì, più o meno. Ma perché? –

Laura avvampò di rossore.

- No, non c’è un motivo, mi piace ricordarlo. –

Marco non riuscì a trattenere una risatina.

- E perché? –

Laura scosse la testa, confusa. Aveva ragione, cosa c’era di piacevole da ricordare se lei era stata rifiutata? Era passata per una masochista, mentre lui sorrideva da nuovo vicedirettore.

- La luna era meravigliosa. –

- Non mi ricordo, scusami. –

- Era piena e si rifletteva con una scia d’argento sul mare. –

- Sì, possibile. –

- E tu ballavi benissimo. –

Questo, almeno, era vero. Laura ricordò le mani di Marco che le afferravano la vita e il suo bacino che ondeggiava ad un ritmo che lei non era riuscita ad imitare.
 
- Tranquilla, offro io. Aspettami qui. –

Laura si riscosse dai ricordi, senza aggiungere una parola, mentre Marco si alzava dal tavolo. Si limitò a fargli un cenno con la testa, almeno lui era uno di quei rari uomini che si comportavano da cavalieri, pensava. Ma che ne valeva? Guardò il tavolo, desolata. Marco non aveva gradito le sue avance dieci anni prima perché caratterialmente non sentiva un feeling coinvolgente – ricordava ancora quelle parole, semplici ma letali – ma non le aveva mai detto che non fosse una bella donna, e con tutte le probabilità non lo aveva mai pensato. Il carattere? Il carattere delle persone cambia, e lei si sentiva un’altra persona, dopo quei dieci anni in cui aveva cambiato pure lavoro e città. Non doveva arrendersi subito, pensando che tra lei e Marco ci fosse troppa incompatibilità caratteriale, no, poteva ancora avere qualche speranza di recuperare una gradevole sintonia con lui. Lo vide uscire dal bar, alto, senza un filo di grasso, con quegli occhi azzurri come il cielo della primavera. Era bello, aveva pensato fin dal primo giorno che lo aveva conosciuto. Certo, su alcune cose non andavano d’accordo, ma quelle erano divergenze che si potevano appianare. Era bello, ed era stato quasi suo, così come lei era quasi una dipendente della sua prestigiosa azienda. Era ora, dopo dieci anni, di togliere i quasi. La missione del posto di lavoro perfetto assunse nella sua mente un’altra sfumatura. Sorrise maliziosa e prendendo la borsa si avvicinò a Marco.

- Hai da fare? –

Lui guardò l’orologio.

- Sì, si è fatto tardi. Buona domenica. –

Laura strinse i pugni, dietro la schiena.

- E’ stato bello aggiornarci, dopo tanto tempo. Per qualche giorno starò qui, da mia zia, possiamo rivederci.  –

Lui allontanò lo sguardo, verso il Grande Viale.

- Non so, vediamo. –

Laura sospirò.

- Va bene, buona domenica a te, mi ha fatto davvero piacere rivederti. –

- Ciao Laura. –

 Si allontanò per il viale, sola, in silenzio, senza dare un colore ai suoi pensieri confusi.

- Laura! –

- Marzia? Angelo? –

I due colleghi comparvero davanti a lei,  uscendo di fretta dal negozio di scarpe.

- Ti abbiamo aspettata. Ma che avevate di così importante da dirvi? –

La donna sospirò e riferì il loro dialogo. Angelo le sorrise.

- Non ti preoccupare, in qualche modo lo freghiamo. –

Laura lo guardò incuriosita.

- Ce l’hai con lui, per caso?  -

- Credo che lui mi odi, potrebbe evitare di fare il prezioso, però. -

La donna gli lanciò uno sguardo d’intesa.

- Lo facciamo smettere subito, tranquillo. Che tu sappia, è fidanzato? –

Angelo annuì.

- Sì, con una cuoca del ristorante dell’hotel Riveira. –

Laura sgranò gli occhi.

- Quello vicino alla Favenza Corporation? –

- Proprio quello. Io l’ho vista più volte, e venerdì li ho anche beccati insieme, sembrano innamorati. –

- Ah sì? Chissà come lo sopporta! Però beata lei, alla fine. –

- Laura, dovresti chiarirti un po’ le idee. Non so se la conosci, si chiama Silvia Tomelli. –

- Silvia Tomelli. No, non la conosco. Stanno insieme da tanto tempo? –

Angelo rise.

- Quattro giorni. –

- Interessante. –

Laura scoppiò a ridere con lui.
 
 …
 
Silvia chiuse la porta dietro di sé, incredula. Rosa, in jeans e camicetta, stava in piedi al centro della sala, nel corridoio centrale che si snodava tra le due ali di tavoli e che portava al bancone alla cucina. Parlava concitata con Carlo Lorenzetti, il loro collega più longevo, contando gli anni di servizio. Silvia non ricordava se fossero 15 o 20 o addirittura di più. Lui l’ascoltava, passandosi una mano sui capelli brizzolati e guardandola di sbieco.

- Tu sei cieco e sordo, fai finta di non capire. Ma non ti rendi conto dei vantaggi di cui potremmo beneficiare? –

- Ma beneficia tua sorella! Io sono un cuoco, mica un imprenditore! Non è che così, dall’oggi al domani, intraprendo dei progetti, ma tu lo sai cosa ci vuole? Credi che si faccia in un attimo? –

- Mi prendi per un’irresponsabile? Non può essere una giustificazione, Carlo. Nulla si fa dall’oggi al domani e lo so benissimo. Ma si deve pur cominciare, no? Ascoltami, valuta quello che ti sto dicendo. –

Carlo Lorenzetti si mise a ridere.

- Non c’è nulla da valutare. –

Mentre Rosa rispondeva esasperata, appoggiandosi al bancone che faceva da bar, Silvia ascoltava immobile. Il desiderio di capire cosa bollisse nella testa ricciuta della sua superiore era fortissimo, ma un velo d’inquietudine la stordiva. Cristina e Michele, con la divisa verde del locale e il grembiule da cucina abbinato, si muovevano frenetici dalla porta al bancone, portando dei vassoi pieni di cornetti. Si allontanò dal gruppo che discuteva e si avviò in cucina. Cristina le venne incontro.

- Grazie, Silvia. –

- Scherzi? E’ lavoro. –

- Come procede la discussione? –

Silvia la seguì verso un banco di vassoi vuoti.

- Non ho capito niente, credimi. Solo che Rosa ha un’idea che a Carlo non piace per niente. E’ strana la cucina quasi vuota. –

Si avvicinò a loro Michele, con aria trafelata.

- La curiosità, ah la curiosità! Diamoci da fare, quei dormiglioni in vacanza hanno fame. –

A lui rispose la voce argentina di Cristina.

- Se hanno fame vengono qui a farcire cornetti, o meglio ancora tirano le orecchie a tutto il personale che chiacchiera in salotto. –

Silvia scoppiò a ridere, e con lei Michele e Cristina. L’importante era, comunque, che quelle sfoglie sul banco venissero riempite. Spalmò sul foglio di pasta le creme già pronte nelle ciotole davanti a lei e lo tagliò in quadrati regolari che ripiegò poi su se stessi. Infornò il vassoio e si avvicinò a Cristina.

- Con croissant e le sfoglie ci siamo, credo. Se vuoi riposarti un po’, continuo io con le torte. –

La collega le sorrise.

- Grazie. Starò attenta io alla roba in forno. –

Ricominciò a farcire e decorare mentre i suoi pensieri si disponevano a nuvolette come la panna sulla torta. In quegli istanti capì perché amava tanto la cucina, e la desiderava così spesso e così urgentemente. Quando cucinava non c’era bisogno di pensare: non contava che i suoi dirigenti discutessero delle questioni che lei non conosceva, o che in cucina erano soltanto in tre a lavorare o che Marco le avesse rivolto un invito per quella sera. In quel momento la sua unica priorità era che la torta alla frutta attesa dagli ospiti dell’albergo fosse dolce e fresca al punto giusto. E quella era una preoccupazione che non le gravava mai, e che prendeva sulle spalle sempre di buon grado.
 
 
“Non hai mai pace”

Erano le parole che Laura Trani gli aveva sussurrato una sera stellata di tanti anni prima, quando entrambi erano universitari. Erano le parole che non aveva mai dimenticato e che dopo quell’incontro gli risuonavano nella mente. Dovette ammettere che erano veritiere: lui, Marco Carini, non aveva mai pace e Laura, chissà per quale ragione, era riuscita a farglielo notare in maniera cruda e cinica come nessun altro. Gli ritornò alla mente lo sguardo cocciuto della donna e il suo tono di voce acuto. Scosse la testa, come infastidito nel pensarla. L’aveva rivista e non aveva nessuna voglia di rivederla ancora. Lo squillo del cellulare scacciò via dai pensieri il ricordo di Laura Trani.

- Pronto, direttore? –

- Giulio. –

- Sì, scusami. Che succede? –

- So che è domenica e non dovrei disturbarti, ma qui è fallita un’impresa. E anziché il nostro dipendente che se ne occupava hanno chiamato me, il direttore. Volevo renderti partecipe. –

Marco sgranò gli occhi.

- E’ fallita l’attività, quindi hanno disdetto il contratto? –

- Naturalmente. –

Il tono di voce che percepì Marco era affranto.

- Giulio, chi era il responsabile? E perché è fallita? –

- Puoi immaginare il motivo. Conti in rosso, la banca ha portato via tutto. –

- Sì, in effetti non era difficile indovinare, ma, chi? –

Sentì Giulio sospirare. Il nome che giunse alle sue orecchie dipinse sul suo viso un’ombra di profonda insofferenza. Il cielo nei suoi occhi si incupì.
 
 
- Scusate, io, Cristina e Michele abbiamo finito la colazione da soli. Ma il pranzo per tutti gli ospiti e per il servizio esterno non è roba di cui ci possiamo occupare in tre. –

I colleghi si voltarono sbigottiti. Lei si sentì avvampare le guance. Era stata troppo autoritaria, per essere solo una dipendente come loro? Alcuni si diressero verso la cucina, altri rimasero a guardarla. Lorenzetti si voltò verso di lei con una smorfia.

- Tomelli, interrompi i tuoi superiori? –

Lei arrossì in maniera ormai visibile e palese. Indietreggiò di un passo, ma ritrovò la voce.

- Signor Lorenzetti, mi dispiace, ma non potete discutere di altri progetti se non riusciamo a offrire il servizio standard. Ci buttano fuori e possiamo farli sotto i ponti i nuovi progetti. –

Rosa abbassò lo sguardo. Lorenzetti con un gesto di noncuranza voltò le spalle a Silvia.

- Ecco, la signorina ha ragione. Dedichiamoci a progetti standard anziché perderci in utopie. –

- Signor Lorenzetti, non ho detto che sono d’accordo con lei. –

Silvia lo sentì sospirare, come di ritorno da una maratona. Qualunque fosse l’idea di Rosa perché tanta insistenza nel contrastarla?

- Silvia, scusate, avrei dovuto mettermi a lavorare come sempre. Quel palloso mi ha fatto volteggiare le pentole. –

Lei guardò Rosa e scoppiò a ridere. Era una donna estremamente sincera, e parecchio enigmatica, ma in merito a professionalità e umorismo si era stabilizzata al primo posto nella personale classifica di Silvia. Sentiva di potersi fidare.

- Avete fatto anche troppo per oggi, vieni con me e fammi da assistente, è bene che mi metta un po’ a lavorare. –

- Tranquilla, ce la siamo cavata. –

- Ho visto. -

Alzò lo sguardo e ammiccò in uno dei suoi sorrisi enigmatici.

- Non smetto di sperarci, anche se quella testa calda di Lorenzetti non capisce. –

Silvia passò una pentola vuota a Rosa e le chiese, sperando finalmente di riuscire a capire.

- A cosa ti riferisci? –

- E’ un’idea folle. –

Silvia alzò le spalle.

- E io ti sembro una persona apposto? La comprenderò. –

Rosa si voltò e la scrutò.

- Ultimamente mi stai più simpatica, Silvia Tomelli. –

Lei sentì un brivido percorrerle la schiena.

- Te lo dirò. –

Il brivido si trasformò in un lampo di curiosità, che le passò fulmineo negli occhi mogano.

- Ti ascolto. –
 
 
Marco uscì dall’ascensore e girò le chiavi nella toppa della porta. Entrò in casa e lo raggiunse una voce sottile, appena provocatoria.

- Buongiorno! –

Si voltò verso Dalia che lo guardava dalla porta della cucina, con un vestitino di cotone, uno spolverino e il suo viso da folletto.

- Mamma, buongiorno. –

- Tra mezz’ora si parte. Dobbiamo andare da zia Federica. –

Si avvicinò e le accarezzò i cortissimi capelli castani.

- Ricevuto. Tra mezz’ora sarò qui. –

S’infilò in corridoio e sparì oltre la porta della camera che condivideva col fratello. Si tolse la giacca e la lasciò cadere sul letto. Diede una rapida occhiata alla scrivania, ma non vide ciò che cercava. Alessandro doveva averlo nascosto, o dimenticato da qualche parte. Si guardò intorno e vide vicino al letto del fratello la borsa nera del computer portatile. Come immaginava, era lì dentro. Spostò la giacca sulla sedia e si sdraiò sul letto supino, davanti al computer in via d’accensione. Una volta avviato il sistema digitò pochi caratteri nella finestra di ricerca di tutti i file del computer. Trovò la cartella ribattezzata dei babbuini rampicanti e dentro il documento che cercava. Con un sospiro evidenziò in grigio l’attività che era appena fallita e osservò il colpo d’occhio. Come una coperta bucata. La soluzione era relativamente facile, trovare un’altra impresa che riempisse il buco. Ma era un’altra la questione irrisolta che lo preoccupava: perché la coperta si era strappata proprio in quel punto lì? Cosa era successo? Risaltava ai suoi occhi il nome maschile scritto nella caselal grigia, seguito da un altro femminile che figurava come assistente. Non gli piacevano per niente quei due nomi. Lui era una persona razionale e così era anche il suo lavoro, doveva basarsi solo sui fatti e lasciar perdere i suoi presentimenti o le sue sensazioni. Cos’era successo nei fatti? Che l’attività affidata ad Angelo Liguori e Marzia Granato era totalmente persa! Si alzò nervoso dal letto. Non era un evento ordinario, dovevano esserci delle dinamiche che lo spiegavano. Giulio era preoccupato di come l’avrebbero rimpiazzata, lui no. Era altro che lo turbava. Camminando da un angolo all’altro della stanza vide il suo cellulare sulla mensola. Allungò una mano. No. Era domenica. Avrebbe dovuto aspettare fino a martedì. Non poteva permetterselo. Quindi sì, anche se era domenica.

- Pronto, Angelo? –

- Ehi, vice, non dirmi che dobbiamo parlare di lavoro. –

- Sì, invece, e subito. –

Sentì un mugolio.

- Come procede la catena di attività che avete in gestione tu e Marzia? –

Sentì di nuovo qualcosa, come un sospiro inquieto.

- Avete chiuso i bilanci in positivo? Rispondi. –

- Sì, per un pelo. –

Marco si accigliò.

- Ma stavate giocando agli acrobati in equilibrio sul filo? Non avevate cercato un modo per stabilizzare la situazione? –

- L’instabilità è dovuta alla crisi, mica io posso svaligiare le case dei politici per dare agli Italiani il denaro che gli spetta e rilanciare il commercio? –

Marco perse la pazienza. Tuttavia, s’impose di mantenere un contegno decoroso.

- Non divagare. Semplicemente, come consulente potevi, anzi avresti dovuto, proporre una diversa soluzione nel gestire le risorse. –

- Ma la nostra attività, comunque, è ancora in piedi, quindi mi sembra che tu abbia sollevato un polverone inutile. –

- Ti piacerebbe! Il proprietario si fidava così poco di voi che ha telefonato direttamente a Giulio Favenza per dirgli che l’attività ha fallito! –

- No! Non può essere! –

Pur non volendo, Marco alzò il tono della voce.

- Sì che lo è. E ti consiglio di non mentire più al tuo vicedirettore. Come vedi, nascondere i debiti con la banca non risolve i problemi. –

- Quei bastardi ci hanno tolto il terreno! –

- Avresti dovuto saperlo. –

- Ma avremmo sistemato tutto nell’arco di due mesi, al massimo tre. Potevano aspettare. –

- Avete fallito, mi dispiace. E martedì mattina voglio vedere tutti i documenti, dovete spiegarmi per quale motivo avete preso decisioni così avventate. –

- Possiamo cercare qualcos’altro, magari..-

-Hanno disdetto il contratto con noi, non si fidano più dopo che la Favenza Corporation, nella persona di te e Marzia, ha fatto fallire tutte le loro attività. –

- Oggi ne falliscono a migliaia, non va bene per nessuno. –

- E allora perché tutti gli altri uffici se la cavano? Pensi che non incontrino difficoltà di nessun tipo? Pensi che io non abbia mai preso in gestione delle attività che erano nella merda? –

- Marco, non lo so, ormai è fallita, hanno disdetto tutto. Peggio per loro che hanno perso l’aggancio con la Favenza Corporation e pazienza, morto un papa se ne fa un altro. Oggi è domenica e vorrei godermela senza pensare al lavoro. Quindi buona domenica, indomito lavoratore senza una vita privata. –
Liguori chiuse la telefonata. Marco fissò il telefono senza capire, gli occhi sgranati e il respiro corto. Tutte le cose che avrebbe voluto dire al collega non erano neanche minimamente sbucate fuori in quella conversazione. Avrebbe voluto tracciare due schizzi su un foglio per mostrargli come girava il mondo e invece si ritrovava con un telefono chiuso in faccia. Si lasciò sfuggire una smorfia di ribrezzo. Il Casio argentato gli segnalava che tra 5 minuti, secondo i programmi di sua madre, dovevano partire per il pranzo che aveva organizzato la zia. Spense il computer e lo ripose nella borsa del fratello, afferrò la giacca, infilò nella tasca il telefono e le chiavi e uscì dalla stanza.

- Mamma? –

Nel salottino verde e bianco non c’era nessuno. Marco si appoggiò con il gomito allo stipite della porta, con l’altro braccio sul fianco e le chiavi in mano. Le faceva oscillare con le dita e fischiettava.

- Sì, due minuti, Marco, io e papà stiamo incartando i biscotti per la zia. –
 
 
- Silvia, ripeto, è un’idea folle, ma non riesco a smettere di sperarci. –

Lei la guardò in attesa.

- L’estrema disponibilità di Lorenzetti in effetti aiuta tantissimo a sperare. –

- Lo so, lo so, lui è proprio ottuso, ma quel pensiero non se ne va dalla mia mente, continuo a vederlo come possibile. –

- Ma cosa? –

Silvia scoppiò a ridere. Rosa rise con lei. Fissò la scintilla negli occhi della sua collega più giovane.

- Una sala ricevimenti. Si vendono i locali della scuola di danza qua, nel nostro stesso isolato. Si trasferiscono, lo sai? –

Silvia sgranò gli occhi.

- Una sala ricevimenti. Sarebbe magnifico. –

Appoggiò la schiena al bancone dietro di lei. Nella sua mente si costruì l’immagine di una sala perfetta: un enorme salone dai colori pacati, con le tende ricamate, con i tavoli ben sistemati, non troppo vicini, non troppo lontani. Vide anche i lampadari, giochi di gocce di vetro, vide le finestre, ampi punti luce per illuminare le pareti. Vide i menù sparsi sui tavoli, con delle scritte eleganti e una frase d’augurio per il bambino che era stato battezzato, o per il matrimonio di una coppia innamorata. E i piatti, gli immancabili, piatti che volteggiavano dalle mani dei camerieri ai tavoli e alle posate della gente. Rosa la guardava, aspettando una risposta, o forse soltanto per vedere come la sua idea si rispecchiava nel viso della collega. Ma Rosa la guardava da un altro mondo, dalla cucina del ristorante dell’hotel Riveira. Silvia, tra le luci di una sala arredata a festa, il rumore gioioso delle forchette sui piatti, le risate dei commensali che festeggiano e il profumo dei cibi, spettacolo e scenografia allo stesso tempo, se ne accorgeva appena.
 

 
- Angelo, sei proprio sicuro? –

Carlo Lorenzetti sbuffò, ascoltando la risposta. Non andava bene, per niente. Tirò un sospiro.

- Va bene, se è così non possiamo farci niente. Ci risentiamo. –

Allontanò il telefono dall’orecchio e si fermò un istante a fissare lo schermo. I suoi occhi grigi trapassavano i caratteri digitali, persi nel vuoto. Il figlio portava notizie desolanti. Non poteva trasferirsi in città almeno per il mese successivo. In un mese l’affare sarebbe andato perduto, molto probabilmente. Il locale che serviva loro era già stato messo in vendita e il pericolo che qualcun altro lo comprasse era dietro l’angolo. E loro, se Angelo non tornava in città, non potevano acquistarlo. Oltretutto, Rosa voleva farne la sala ricevimenti dell’hotel. Carlo sbuffò di nuovo, si trovavano già a dover fare i conti con diversi problemi, non potevano essere intralciati addirittura da Rosa e dal progetto della sala ricevimenti, come se ce ne fosse realmente l’esigenza.. Era una complicazione che nasceva dal nulla, ma almeno, si poteva stroncare. S’incamminò per il corridoio e bussò alla porta dell’ufficio di Federico Masetti, l’uomo magrolino, d bassa statura, che gestiva la ristorazione dell’hotel per il signor Riveira.
 
 
Marco guidava in autostrada, scorrendo veloce tra le poche auto che riempivano la doppia corsia, mentre il fratello, nel sedile del passeggero, guardava distratto dal finestrino e i genitori, nel sedile posteriore, si accarezzavano come una coppia di fidanzati. Era quasi mezzogiorno e la luce arrivava diafana, flebile, come da un altro universo. Il cielo era ancora bianco, come nelle ore precedenti. Risuonò nell’abitacolo lo squillo del suo cellulare. Un velo d’ansia coprì gli occhi di Marco. Con una mano sul volante, afferrò gli auricolari che teneva in auto e li sistemò al cellulare e alle orecchie.

- Pronto, Giulio? -

- Disturbo? –

- No, dimmi. –

- Liguori mi ha chiamato. –

Marco sorrise sorpassando un’auto grigia.

- Allora si è spaventato. –

- Sì, ha voluto sapere i dettagli e io glieli ho detti. –

- Ti sei fatto un’idea di come Liguori abbia gestito l’affare? –

- Sicuramente ha fatto una mossa rischiosa. –

- Non solo una, fidati. –

- Ma in ogni caso io mi chiedevo come mai tu gli avessi chiamato tempestivamente. –

Marco lasciò vagare lo sguardo nell’abitacolo dell’auto. Incontrò gli occhi scuri del fratello. Rispose determinato.

- Voglio capire se il fallimento sia dovuto a un atteggiamento superficiale di Liguori e Marzia, ma principalmente Liguori, oppure no. –

- Hai ereditato da Lorenzo l’amore per i licenziamenti? –

- Via la pula dal grano, dice il maestro Serpi. –

Giulio si mise a ridere.

- Ad ogni modo, se volevi terrorizzarlo ci sei riuscito alla perfezione. –

- No, volevo vedere la sua reazione. Per testare il senso di responsabilità che lui sente. Ma, anziché pensare a quel che aveva fatto e chiedersi quale fosse la causa degli avvenimenti, era interessato a discutere con me con argomenti irrilevanti, molto sicuro di sé. Male. –

- Martedì avremo modo di discuterne anche con lui. –

- Assolutamente sì, esamineremo tutti i documenti, come gli ho già detto. –

- E a mali estremi? –

Marco sorrise sterzando.

- Estremi rimedi. –

- Sai che significa, vero? –

- Nuove assunzioni e nuovo contratto da stipulare con un’impresa. Ce ne possiamo occupare anche martedì stesso, una volta che abbiamo analizzato e chiuso definitivamente il caso del fallimento. In questi due giorni posso anche guardarmi intorno. –

- Perfetto. –

A Marco parve sorpreso.

- Va bene, Marco, ora che abbiamo informato il nostro amico Liguori, possiamo goderci questo breve riposo. Buona domenica e Buon Primo Maggio. A martedì. –

- Anche a te, Giulio, grazie. Ci vediamo martedì. –

Mentre Marco staccava gli auricolari dal cellulare, giunse una vocina squillante dal sedile posteriore.

- Oh ma quanto è figo e professionale il mio vicedirettore! –

Risero tutti in coro.

Mezz’ora dopo l’alto e silenzioso Salvatore Carini suonò al citofono della cognata. Pochi secondi dopo la porta si aprì appena e sbucò un viso dai lineamenti delicati e gli occhi azzurri, in lacrime. Un viso che non avrebbero dovuto vedere.
 
 
- Silvia, ascolta, non è una stupidaggine, e noi lo sappiamo. –

- Cosa, signore mie? –

Rosa e Silvia si voltarono. Dietro di loro era comparso Federico Masetti.

- Buongiorno, signor Masetti. –

- Buongiorno. –

Federico le guardò in tralice.

- Non avete risposto alla mia domanda. Ma non ce n’è bisogno, Carlo mi ha detto tutto. –

Rosa mostrò un atteggiamento di sfida. Silvia impallidì.

- Bene, così non mi devo spiegare. –

- Rosa, è una nobile idea una sala ricevimenti, anche dal nobile guadagno, ma è anche una nobile utopia. Si dovrebbero ristrutturare tutti i locali e assumere altro personale. Non dimenticate che siamo in tempi di crisi, e non dimenticate che siamo alle dipendenze di un hotel. Non possiamo inventare nuovi locali come ci pare e piace. –

- Non sarebbe il primo caso di alberghi che aprono sale ricevimenti. Noi abbiamo già aperto al pubblico il ristorantino sulla strada. –

- Rosa, non mi fare ripetere delle cose che ho già detto. Avranno una situazione economica perfetta, tanto piacere per loro. –

- Abbiamo capito, ma ci sono delle possibilità di guadagno che non possiamo ignorare. –

- No, cara, che non possiamo realizzare. Comunque, ero venuto soltanto per dirvi che non è realizzabile in questo periodo. Spero non vi siate entusiasmate troppo, perché, purtroppo, non ci può essere nulla di cui entusiasmarsi. Scusate per l’interruzione, buona giornata e buon lavoro. –

Federico Masetti uscì dalla cucina mentre un’altra figura esile entrava dirigendosi verso di loro.

- Scusa, Silvia, c’è una cliente del ristorante che ha chiesto di te. Vorrebbe gustare un pranzo a base di pesce, con i piatti a tua scelta, cucinato da te naturalmente. Vuole sapere se è possibile. –

La donna trasalì.

- Ti ha detto come si chiama? –

- Laura Trani. E’ con un uomo biondo che non si è presentato. –

Silvia si guardò intorno smarrita. Chi era Laura Trani? Perché doveva cucinare per lei?

- Allora, Silvia, ti lascio libera, e per favore, conservami un po’ dei piatti che cucinerai, anch’io sono curiosa. –

Silvia sospirò incerta.
 
 
- Natalia! –

- Zio, zia, Marco, Alessandro. Venite. –

Marco lasciò entrare gli altri e per ultimo s’infilò nel piccolo appartamento degli zii, chiudendosi la porta alle spalle. Raggiunse il resto della famiglia turbato, salutò gli zii, la cugina Daniela, e i vecchi nonni Luigi e Angela. Titubante si avvicinò a Natalia. La cugina gli andò incontro precipitandosi tra le sue braccia. Aveva 27 anni, durante i quali aveva giocato spesso con lui e Alessandro nella grande villa in cui abitava prima. E poi, un po’ più grande, si era confidata tante volte con lui, in quei momenti in cui aveva avuto bisogno del conforto di un paio di occhi identici ai suoi. Mentre la stringeva, Marco sussultava a sentire i suoi singhiozzi. Cosa le era successo? Gli venne in mente, no, no, si disse tra se e se, non poteva essere.

- Natalia, che succede? Diccelo. –

Lei si scostò dall’abbraccio del cugino e guardò uno per uno i suoi parenti, con le fronti corrugate e lo sguardo in apprensione, tranne i genitori e la sorella, che lasciavano tradire dal viso solo una smorfia amara. Si sedette sul divano, mentre tutti si spostavano nella zona arredata a salotto del locale centrale del piccolo appartamento.

- Ho perso tutto, tutto. –

- Ti hanno licenziato? –

- Sì, zio. –

Marco rabbrividì, era esattamente ciò che non avrebbe voluto sentire, non dopo che l’aveva aiutata a sistemare le valigie in quel pomeriggio di paura e speranza per il futuro, non dopo aver ricevuto la prima telefonata di Natalia dalla Grecia, non dopo che aveva mangiato al ristorante in cui lavorava, l’estate precedente, non dopo averle sentito dire, contenta, che andava tutto bene. La guardava stringendo i pugni.

- Hanno chiuso il locale? –

- No, zia, hanno solo licenziato metà del personale. –

- Anche Chiara? –

- Sì, perché lei, come me, non aveva una famiglia da mantenere. Noi eravamo lì ad Atene da sole e quindi hanno licenziato noi, insieme ad altri. Forse meglio noi che le madri e i padri di famiglia, senza dubbio, ma è un disastro comunque. –

- Dai, bimbi, venite a tavola! –

Per un attimo la voce della zia Federica ruppe l’atmosfera greve, ma presto tra il tintinnare delle posate e il buon odore del cibo serpeggiò di nuovo quell’aria malinconica.

- Sì, è vero che in Grecia c’è una crisi peggiore della nostra ma Atene mi piaceva. Era una città moderna ma interessante, con quell’acropoli straordinaria, soprattutto alle luci della sera. Passato e presente insieme. E avevo imparato le ricette greche come se le avessi cucinate da sempre. –

- Confermo, mi ricordo ancora di quest’estate. Ma conti di tornarci? –

- Alessandro, non so, lì potevo stare perché avevo un lavoro. Trovarne un altro, con le loro difficoltà economiche, sarebbe quasi impossibile e nel frattempo non potrei né pagare l’affitto né mantenermi. Né posso chiedere qualcosa ai miei. –

Marco ingoiò il boccone che masticava e gettò uno sguardo all’ampio locale che faceva da cucina, sala da pranzo e salotto. Natalia aveva ragione. Non poteva chiedere nulla ai suoi, neanche un letto. In quella famiglia lavorava soltanto il padre di Natalia, abile architetto che negli ultimi anni aveva visto ridursi agli sgoccioli ogni guadagno, proprio mentre Daniela si iscriveva alla Facoltà di Medicina. Avevano venduto la villa che possedevano per rintanarsi in quell’appartamentino in periferia, pagando tasse e libri universitari per la figlia minore che dormiva nel divano-letto del salotto e studiava in cucina, se non, quando desiderava stare da sola, nella camera dei suoi, l’unica stanza da letto della casa. Aveva dimenticato in fretta l’ampia camera in cui dormiva quando abitava nella villa, pur di continuare a studiare e pensare a una sistemazione migliore, una volta diventata medico.

- Nati, adesso dove dormi? –

La cugina gli rivolse uno sguardo leggermente rincuorato.

- Almeno in questo sono stata fortunata. Stanotte abbiamo lasciato il divano a papà e abbiamo dormito in tre nella stanza da letto, io, Daniela e la mamma. Poi stamattina mi ha chiamato Chiara e mi ha detto che suo padre era disposto a offrirmi una stanza dell’hotel di cui è proprietario, tutto spesato, finché non avrei trovato una sistemazione migliore. L’unico problema è che si tratta dell’hotel Riveira, lontano da qui, dove abiti tu, ma almeno ho un posto dove dormire. –

- E anche un bel posto, cugina, lo conosco. –

- E come, Marco? –

- Conosco una delle cuoche che lavora al ristorante annesso all’hotel, del cibo ti puoi fidare, te lo garantisco. –

Negli occhi di Marco brillò una scintilla che Natalia era troppo amareggiata per cogliere, ma che non passò inosservata a qualcun altro nel tavolo.
 

Laura e Angelo sedevano ad un tavolo per due, nel ristorante dell’hotel Riveira. Davanti a loro c’erano solo i due piattini in cui era stato servito loro il semifreddo, due bicchieri e una bottiglia di ottimo vino bianco. Angelo si pulì la bocca col tovagliolo e bevve un sorso dal suo bicchiere.

- Allora? –

Laura tentennò con lo sguardo. Si era fatta descrivere Silvia da Angelo, ma voleva vederla.

- Non saprei, vediamo chi è. –

Con un cenno chiamò il cameriere. Due minuti dopo Silvia Tomelli comparve al loro tavolo.
- Salve, Silvia. –

Al tono sicuro di Laura Trani si unirono un cenno di saluto di Angelo e una timida risposta della cuoca.

- Salve a lei, spero il pranzo sia stato di suo gradimento. –

Laura squadrò la donna, ammirando i riflessi ramati dei capelli vaporosi che slegava dalla coda. Molto gentile e forse leggermente in apprensione, come suggeriva lo sguardo.

- Molto originale, le piace sperimentare? –

Lesse una certa diffidenza nella risposta della cuoca, mentre di nuovo legava i capelli.

- Sì, sperimento. –

Laura si concesse una risata.

- Non è che sperimentando ci avvelenate? –

Una sfumatura rosea spuntò sulle guance di Silvia. Si era infastidita? Laura rise ancora. Marco doveva averla scelta noiosa come lui.

- No, signora, non siamo scienziati pazzi. Piuttosto potrei sapere perché ha richiesto la mia cucina? –

Laura inarcò un sopracciglio. Piuttosto formale come atteggiamento. Silvia voleva sapere, non era sprovveduta. Come Marco, del resto.

- Mi hanno parlato di te, diciamo. –

- Si spieghi meglio, per favore. –

Laura sbuffò.

- Conosco Marco Carini, da tanti anni. Ti dice nulla? –

- Sì, e con ciò? –

Laura percepì il tono ostile della cuoca e si irrigidì.

- Allora saprai quanto è speciale, molto gentile, molto premuroso, mi ha pure offerto il caffè stamattina. –

Angelo intanto manteneva lo sguardo sotto il tavolo, per sottrarsi agli scopi di Laura. Suo malgrado, fu tirato dentro.

- Angelo, tu che lavori con lui, non è vero quello che dico? Dillo quanto è adorabile! D’altronde lei lo conosce solo da pochi giorni. –

Laura vide una scintilla tremolare negli occhi scuri di Silvia.

- Lo so, grazie. Lui vi ha parlato di me? –

- Sì, ci ha detto che eri bravissima. E io sono venuta a provare. Tutto qui. –

Scrollò le spalle con un gesto noncurante. Silvia si accigliava.

- Laura, basta! –

Le due donne si voltarono verso il ragazzo biondo che fino a quel momento era rimasto in silenzio. Silvia lo guardò sollevata, Laura cercò di nascondere il lampo di terrore che le riempiva gli occhi.

- Amore, parli sempre del tuo amico, Marco di qua, Marco di là. Io ti amo e tu sei innamorata del tuo amico. Vaffanculo, Laura, vai a stare col tuo amico, sarete una bella coppia. –

Angelo raccolse i suoi effetti personali e si alzò dal tavolo. Laura lo afferrò dal braccio. Lui si chinò e le strizzò l’occhio, attento a non farsi vedere da Silvia. Laura capì.

- Che dici? Non toccare i miei amici, neanche con un dito, che l’amicizia rimane, l’amore passa, l’amicizia vale molto di più. Vacci tu a fanculo, Angelo, vacci tu e restaci! –

Laura si voltò verso la donna e le vide nel volto l’ennesima smorfia d’insofferenza.

- Meglio così, mia cara, discutiamo solo noi due. Non ho ragione? –

- Non lo so, io sono qui per parlare del mio lavoro, se non le dispiace. –

- Sì, certo, parliamone. Complimenti per l’originalità, senza dubbio, ma alcuni accostamenti erano, non saprei, forse un po’ troppo esosi. Spero che per Marco non cucini così. –

Vide gli occhi della donna luccicare.

- Grazie, ma non sono affari suoi. –

Laura notò un certo tremore nella voce di Silvia.

- Infatti non sono affari miei, io lo dicevo per Marco, mica per me! Ma non te la starai mica prendendo? Mi pare di vedere una lacrimuccia. –

Silvia strofinò l’indice sotto l’occhio destro e lo ritrasse con una striscia umida.

- Marco è una persona molto forte, e tu te la prendi per così poco? Non pensare che un uomo come lui ti asciughi le lacrime. –

- Non ne ho bisogno infatti, grazie dei complimenti e degli insulti. Se non le dispiace ho altro lavoro da fare. Mi dispiace che non abbia gradito il pesce. Arrivederci. –

Si voltò di scatto e si allontanò. Laura non riuscì a trattenere una risata.
 
Silvia si fermò accanto alla porta della cucina. Con uno sguardo assente gettò gli occhi sul ghirigoro che colorava le mattonelle. Perché? Se lo chiedeva ogni volta: cosa volevano da lei, a trattarla come un ferro vecchio? Nello specifico, cosa voleva Laura Trani? Che avesse ragione il ragazzo biondo che l’accompagnava? Era gelosa? Era innamorata del suo amico?  

 “Ma perché proprio dell’uomo che sta con me? Ho avuto una cosa bella nella mia vita e questo è il prezzo che devo pagare?”

Silvia chiuse gli occhi e si appoggiò alla parete. Le tornavano alla mente ricordi d’altri tempi, sensazioni che aveva già provato, innumerevoli volte, nella sua monotona esistenza. La riscosse il tono frettoloso di Lorenzetti.

- Tomelli, al lavoro! –

Riaprì gli occhi e si precipitò in cucina, scorgendo un sorriso soddisfatto sul viso di Carlo, prima che lui lo nascondesse andando via. Silvia si voltò e indugiò un attimo sulla porta, guardandolo esterrefatta: stava andando a salutare Laura Trani?
 

 
Cinque minuti dopo le quattro del pomeriggio Silvia chiuse con uno scatto la porta a vetri del ristorante. Si avviò spedita lungo il marciapiede. Ancora non riusciva a capire quale fosse l’intento della donna. C’era qualcosa che le turbinava nella testa, come un dettaglio che le sfuggiva. 0L’aveva vista da qualche parte, in passato? Cominciò a scendere le scale che portavano alla metropolitana. C’era qualcosa che avrebbe dovuto ricordare e che non ricordava. Magari la sorella o l’amica di uno o una dei suoi compagni al liceo? O era qualcosa relativo al ristorante in cui lavorava prima? Nulla riaffiorava alla sua mente mentre superava il macchinario per convalidare i biglietti. I colori cupi della stazione rabbuiarono ancor di più i suoi pensieri. Rabbrividì nel giubbotto di jeans. Scese le ultime scale e si fermò in mezzo all’altra gente. Aspettava il treno mentre il sorriso superbo di quella donna non si cancellava dai pensieri. La guardava ancora con quel labbro sottile e quell’occhio sfuggente. Un altro brivido le percorse la schiena. Ancora una volta sentì di dover ricordare e non ricordava. Arrivò il treno. Aspettò di poter salire, s’infilò nel vagone e si strinse a una delle sbarre grigie. Ebbe un sussulto. Capì perché l’espressione saccente di Laura Trani le rimaneva scolpita addosso. Lo stesso disprezzo della donna dieci anni prima aveva riempito un altro viso, che si trovava improvvisamente a ricordare di nuovo, nelle sue fattezze e nei suoi difetti, e in quell’incantevole smorfia quando si meravigliava. Mentre i finestrini del vagone scorrevano su un lungo quadro scuro, nero come il buio, vecchi ricordi si rincorrevano nella mente di Silvia, una sequela d’immagini, chiare come una luce che, accesa all’improvviso, l’accecava. Angelo Lorenzetti. I suoi capelli ricci, lo sguardo sereno, l’atteggiamento appassionato nei confronti della cucina e il suo interesse vivo, tutte qualità che si concentravano nel formare un ragazzo appena più grande di lei,  piuttosto distaccato dal modo di fare comune. I consigli che si erano scambiati quando studiavano insieme li avevano formati entrambi, avevano arricchito le loro vite ed esserne consapevole accentuava il senso dell’abbandono che Silvia provava. Rievocare quei giorni in cui riuscivano a creare una nuova ricetta soltanto lavorando insieme era come infilarsi un ago nella pelle. Angelo era l’unico che comprendeva la sua passione, l’unico che non la invidiava, l’unico che quando emergevano le sue abilità la apprezzava quasi in adorazione. Insieme erano una squadra invincibile. A distanza di dieci anni Silvia sapeva con una certezza ancora più grande quanto fossero veritiere quelle parole e sospirava, avanzando nella galleria buia, immersa nei colori spenti del treno. Non avrebbe mai saputo quanto le voleva bene Angelo, quanto le importava di lei, che valore avevano quegli abbracci commossi, ma scommettendo avrebbe puntato sul nulla o su una sua approssimazione. Nella sua mente risuonava la sonorità vuota e devastante di quella parola che aveva pensato. “Nulla” , a volte definiva se stessa e la sua vita “zero” ma quando pensava “nulla” era nettamente più doloroso. Ancora ricordava quando, anni prima, aveva visto La Storia Infinita, il film in cui il “Nulla” distruggeva tutto e faceva paura, e suscitava morte e disperazione. Lo stesso nulla fu il padrone assoluto di alcuni avvenimenti tra lei e Angelo, risalenti a dieci anni prima, ancora scolpiti nella sua mente, che la portavano a gemere e a socchiudere gli occhi. Il nulla era la forse la sintesi perfetta dei sentimenti che avevano governato quei giorni. Nulla era ciò che sentiva Angelo delle sue carezze tenere, nulla ciò che lui provava durante quegli abbracci in cui lo stringeva orgogliosa di lui, nulla quello che lui notava dai piccoli miracoli con cui lei lo tirava fuori dai guai quando era convinto di non farcela, nulla quello che lui capiva quando lei gli rivolgeva quegli sguardi bisognosi d’affetto, dolci e palpitanti. Nulla era quello che aveva concluso, quando, spazientita, gli aveva rivelato l’acqua calda, quando gli aveva fatto notare che ormai vivevano fianco a fianco, e nulla quello che aveva ottenuto quando, dopo lunghi attimi di indecisione, gli aveva detto che lei al suo fianco non era animata da carità cristiana, né da feeling professionale, tantomeno da una semplice amicizia. E poi le era arrivata come un pugno allo stomaco la risposta di Angelo. Non voleva ricordarla, l’aveva seppellita in fondo al cuore, in fondo alla memoria, in fondo all’anima. Spesso quando si era trovata con Marco nei giorni precedenti, le era passato un bagliore fulmineo negli occhi. Quell’attimo tentava di tornare alla sua coscienza, e ogni volta lei lo ricacciava giù, in fondo ai pensieri, in fondo ai ricordi, in fondo a tutto. Risaliva soltanto il sapore acre del disprezzo e dell’abbandono che ingoiava come un boccone amaro, volta per volta. Angelo aveva iniziato un elogio interminabile della sua bravura, molto superiore alla sua, davvero straordinaria, unica e incomprensibile dagli altri studenti, che al suo confronto non potevano definirsi neanche aspiranti cuochi. Silvia non aveva sorriso neanche un attimo a quell’interminabile lista di complimenti, aveva notato subito la tracotanza e il gusto mellifluo. Lo aveva fissato con uno sguardo rovente, implorandolo di arrivare al dunque, e dopo aveva capito che quell’urgenza di sapere cosa pensava lui era assolutamente immotivata. Il suo presentimento si avverò e in un attimo un tuono squarciò ogni cielo sereno che quello o mille altri momenti avevano creato fra loro due, bruciò ogni sensazione di benessere provata al suo fianco e tutto si trasformò in fumo nero. Ancora prima che lui terminasse il suo onorevole ed elegante discorso lei si era vergognata di ogni sentimento provato, di ogni pensiero rivolto a lui, di ogni parola spesa per lui. Si sentì una bambina stupida umiliata mentre lo guardava scettica e mentre si sforzava di non piangere, per non sembrare ancora più stupida. Poi la bambina Silvia Tomelli, di otto anni e non più diciotto, era andata via, aveva risalito le scale ed era uscita dalla stazione della metropolitana, sbucando nel Grande Viale. La sua femminilità, le sue capacità e il suo flebile orgoglio scivolavano via nelle grate della strada, come un rifiuto di cui qualcuno voleva liberarsi, inutile in mezzo a tante attrattive e potenzialità. La bambina camminava verso casa, spogliata di ogni caratteristica fisica che potesse attrarre un uomo, privata di ogni carattere femminile, svalutata alla stregua di un manichino frigido e svuotata di qualsiasi interesse. Un’ombra senza corpo, una figura su un libro, e proprio Angelo le aveva detto tante volte che “non si giudica un libro dalla copertina”. Lui si era rifiutato di aprire il suo libro dicendole che la copertina lo lasciava indifferente, ammesso che addirittura non lo ripugnasse. Poi, qualche giorno più tardi, aveva cercato di capire quale fosse il legame che univa la filosofia del libro che non si giudica dalla copertina e il suo rifiuto basato proprio su quella che si poteva definire la copertina di una persona. Glielo aveva chiesto con la stessa tecnica infida che usava solitamente lui, linguaggio vago, allusioni e mai frasi dirette. A lui piaceva così. E poi di quel suo rifiuto non si doveva parlare. Glielo aveva chiesto con un “esempio” in una di quelle poche volte che più tardi gli aveva rivolto la parola, quella di continuare ad essergli amica intima come prima era una promessa mai mantenuta, la prima di una lunga serie. La risposta era stata “Se la copertina non ti incuriosisce il libro non lo apri” . La ricordava ancora. Come sarebbe dovuta essere la sua copertina per incuriosirlo? Cosa c’era di così brutto e ripugnante nel suo aspetto? Stupida, umiliata, trascurata e distrutta si era lasciata alle spalle il suo bell’Angelo e tutta quella storia come nell’esatto momento in cui il passato staccava la spina dei ricordi e lei scendeva dal treno, poggiando i piedi su una nuova stazione, un nuovo antro sottoterra, buio e cupo. La stessa caverna sotterranea in cui quei ricordi un giorno erano stati realtà. Un nuovo fiotto di nervosismo la invase. Salì le scale in fretta, quasi correndo. Voleva fuggire. Finalmente riemerse nel Grande Viale, la strada ampia e ricca che la riportò al presente. E ricordò dove aveva visto Laura Trani: al locale fuori città, dove lavorava lei fino a un anno prima e dove ancora lavorava Clarissa. Quando l’aveva vista, Laura Trani aveva chiesto proprio a Clarissa di poter parlare con lo chef e aveva cominciato a srotolare alla sua amica una lunga lista di complimenti. Ricordava ancora il tono mellifluo di quelle parole. Il ricordo disegnò sul suo viso una smorfia di ribrezzo mentre qualche cavo nella sua testa si allineava al posto giusto. Laura Trani aveva conosciuto Clarissa, e conosceva Marco. Ricordò di averli visti salutarsi al ristorante la sera prima. Marco e Clarissa si conoscevano e Laura Trani li conosceva entrambi. Che mestiere faceva? Non sapeva neanche questo. A metà del Grande Viale guardò lo schermo del cellulare: le 16 e 20. Aveva ancora abbastanza tempo, prima dell’appuntamento con Marco, per fare qualsiasi cosa. Se non ricordava male il turno di Clarissa doveva ancora iniziare, forse durante quell’ultimo anno avevano contribuito ad allontanarle anche quegli orari che non coincidevano, sicché quando era libera una non lo era l’altra. Però, se i suoi calcoli erano giusti, poteva acchiappare l’unica fascia oraria strategica. Schiacciò il tasto di chiamata del cellulare iniziò a percorrere a ritroso il Grande Viale.

- Pronto, Clarissa? –

- Ciao Silvia, allora vieni domani sera? –

- Sì, sì, ma, ascolta, hai un minuto libero? –

- Sono già per strada verso il locale, sto andando un po’ prima perché indovina un po’, dobbiamo lavorare per domani sera. –

- Non ne puoi più, o mi sbaglio? –

- Non ti sbagli affatto, non ne posso più, di niente, e soprattutto di questa smania di attirare la clientela. E’ soffocante. –

- Finirà amica mia. –

- Lo voglio credere. –

- Allora, se ti raggiungo al locale, puoi dedicarmi un minuto della tua attenzione? –

- Sì, forse. Ma di che si tratta? –

- Ho avuto un piccolo problema con una cliente, un brutto tipo, che quando io lavoravo lì da voi è venuta e ha anche parlato col direttore e con te. –

- Con me? –

- Sì, si chiama Laura Trani, ricordi? –

- Vagamente, ve bene, ci vediamo al locale. –

- Sì, arriverai prima tu, io ancora devo prendere la macchina. –

- Ok, a dopo. –

Silvia rituffò nella borsa il cellulare e tirò fuori le chiavi del garage, continuando a camminare e oltrepassando il cartello rosso della fermata.

“Silvia, ti prego”

Il ricordo di quella voce maschile che la chiamava, tre giorni prima, proprio vicino a quel cartello rosso, le infiammava le vene. La sfumatura ansiosa nella voce dell’uomo ancora la afferrava e la scuoteva. Il pensiero che quella donna fosse legata in qualche modo a lui la stringeva in un’angoscia insopportabile. Girò la chiave nella serratura del garage.
 
 
Più di un’ora dopo, Silvia guardava il cielo dalla finestra della grande cucina. Si trovava nella sala in cui anni prima aveva riversato speranze e amarezza. In quel momento aspettava solo che si riaffacciasse Clarissa. Negli occhi di Silvia si rifletteva lo stesso colore dello sguardo spento dell’amica. Il giorno prima si chiedeva se Clarissa fosse o meno un’amica, ma Clarissa dov’era? Il suo viso traspariva una stanchezza alienante, forse la stessa che spesso asfissiava anche lei. Mentre ascoltava il racconto di quando Laura si era presentata lì in quel locale, poco prima, aveva pensato che la loro lontananza era simile nel suo colore e nel modo in cui le stringeva, entrambe erano perse nei meandri di una stanchezza verso il loro contesto personale che le isolava. Silvia si sentiva alleggerita soltanto insieme a Marco e in quella giornata i meandri che voleva lasciare si avvicinavano sempre di più con i loro ricordi.

- Eccomi. Quindi ti dicevo, lasciala perdere. –

- Clari, non..-

- Scusa, torno subito. –

Silvia sbuffò sulla sedia. Si sentiva come se parlasse in una stanza insonorizzata.

- Dicevo, non devi pensarci. –

- Clarissa, l’ho vista confabulare con Lorenzetti. Già che non io a lui non vado giù! –

Il viso dell’amica si contrasse in una smorfia.

- No, in effetti, così non va bene. –

- Se quella gli parla male di me potrei essere rovinata. –

- Non so che dirti. –

Clarissa sparì di nuovo in corridoio. Silvia si alzò e rivolse lo sguardo alla porta. La tentazione di andarsene era sempre più forte. Ma dove? E poi c’era ancora una cosa che doveva dire a Clarissa, che rispuntava dall’altra porta.

- Clari, conosci Marco Carini? –

- Sì, ma non benissimo.-

- Come? –

- E’ una storia lunga. –

Silvia si avvicinò al bancone e si sistemò a braccia conserte davanti a lei.

- Ho tutto il tempo che vuoi. –

Lei si allontanò verso il corridoio.

- Io no, purtroppo. –

Silvia avrebbe voluto urlare. E invece, pronunciò poche parole con un tono di voce schietto e asciutto.

- Ha a che fare con Laura Trani, purtroppo. –

Lo sconcerto si dipinse sul volto dell’amica, che tornò indietro.

- Valeria, puoi andare tu da Lucia, se non ti dispiace? Finisco io di cucinare questo. –

La collega di Clarissa alzò il volto annoiato e si precipitò in corridoio.

- Allora, ieri sono uscita con Giuliana, una mia amica da tanti anni. Aveva appuntamento con un tale Angelo Liguori e non voleva andare da sola. Ho dovuto accompagnarla, pur tra tanti impegni, glielo dovevo. L’altro giorno con un passaggio all’ultimo minuto mi ha salvato il culo. –

Silvia annuì.

- Non conosco nessuno dei due, ma vai avanti. –

- Certamente. Angelo è collega di Marco, e si sono incontrati mentre passeggiavamo sul lungomare, giù alla costa. Ecco dove l’ho visto la prima volta. E poi l’ho incontrato di nuovo al ristorante ieri, quando ho salutato te. –

Silvia assentì.

- Sì, vi ho visti. Cosa sai di me e lui? –

- Nulla. Solo che a quanto pare vi conoscete. –

Dicendolo, le rivolse uno sguardo malizioso.

- Ci frequentiamo. –

Le sue stesse parole le giunsero all’orecchio distorte, come se “frequentarsi” non fosse la parola giusta per descriverli. Era qualcosa in più, qualcosa in meno? Scosse la testa, non era certo la prima volta che Silvia avvertiva quell’incertezza nel descriversi.

- E’ molto carino, mi fa piacere. E pure atletico, quando l’abbiamo incontrato era a correre. –

Balenò un lampo nello sguardo di Silvia.

- Questo non lo sapevo. –

- Adesso lo sai. –

- Laura dice di essere sua amica. Perché quella donna deve avere contatti proprio con le persone vicine a me, odiandomi? –

- In effetti non capisco perché ce l’abbia con te. –

- Figurati io. –

- Non hai un interesse economico. –

- Che intendi dire? –

- Non lo so, mi è sembrata molto subdola, in cerca di occasioni di guadagno. Non mi è piaciuto per niente come si è complimentata con lo chef quando è venuta qui. E poi ho scoperto che lui è cliente proprio nella banca che dirige lei. –

- Non la immaginavo così viscida. –

- Magari è solo gelosa di Marco. –

- Peggio ancora. –

- Silvia, mi dispiace. –

Comparve sulla soglia la collega di Silvia che prima stava cucinando al posto suo.

- Ti manda a chiamare lo chef. –

Clarissa sparì per il corridoio sbuffando mentre Silvia osservava i dettagli minuscoli delle mattonelle del pavimento. La cuoca lì vicino, sua ex collega, non le rivolgeva nemmeno un cenno di saluto. Non che la cosa le dispiacesse. Sentiva l’angoscia assalirla. Cosa voleva Laura Trani? Il cielo era pesante e angoscioso quanto lei. Spostò lo sguardo su altri ghirigori, quelli delle nuvole, ingabbiata senza neanche vedere le sbarre, se fossero in ferro o in oro. In lontananza udiva il tono arrogante dello chef, suo ex superiore. Lo visualizzò, non tanto alto e non tanto magro, con gli occhi nocciola. Ricordava molto bene quell’uomo distratto e opportunista. Molte volte si rammaricava, sola nella sua stanza, di avere la pessima abilità di fissare nella memoria le esperienze negative. Le rimanevano impresse come un tatuaggio che vedeva ogni volta che alzava un determinato lembo dei vestiti e che purtroppo non vedeva soltanto lei. Lo vide passare per la cucina.

- Buonasera Silvia. –

Rispose frettolosamente al saluto scostante e notò un particolare che le abbagliò lo sguardo. Aveva lo stesso taglio di capelli che portava Angelo Lorenzetti, e per giunta lo stesso colore. Purtroppo, anche lo stesso disprezzo nello sguardo. Strinse i pugni.

“No, no.”

Un’altra ondata di amarezza del passato riaffiorava alla mente mentre Clarissa afferrava un foglio sul bancone e ritornava in corridoio. Erano schegge di ricordi, erano scene istantanee, erano spruzzi di veleno, erano poche parole, erano frammenti di tempo, erano dolore senza gusto. Erano alcuni gesti e alcune parole di Angelo che non voleva ricordare, ma che ritornavano prepotenti.

- Silvia, scusami, qualche minuto e torno. –

- Figurati. –

Si voltò di nuovo verso la finestra, ritrovandosi tra ricordi che non poteva più scacciare, per quanto lo desiderasse. Si trovò a rimestarli ancora una volta, nell’attesa di poter parlare di nuovo con Clarissa. Nella galleria buia della metropolitana Angelo le aveva detto che la cosa migliore per il loro rapporto era che rimanesse un’amicizia. Lei gliel’aveva chiesto. “Perché?” Lui si era perso in un altro dei suoi patetici discorsi e lei aveva ripetuto la domanda. “Perché? Cosa mi manca?”. Angelo aveva indugiato un po’, poi le aveva aperto appena il giubbotto e aveva fissato il suo corpo con occhi assenti, sfiorandolo con le sue mani. Aveva farfugliato delle parole che lei ricordava ancora troppo bene, impresse nella memoria insieme alla sensazione calda del tocco delle sue mani, che inizialmente le aveva riscaldato il cuore, ma, mentre Angelo andava avanti nel suo discorso, lentamente il piacere si trasformava in autentico fastidio.

“Silvia, ci dovrebbe essere qualcosa che mi attira verso di te, che mi spinge a possederti, ma non sento nulla, Silvia, poi, sai, quando l’altro giorno si parlava della donna ideale, ti ricordi? Fisicamente, era tutt’altra cosa, questione di gusti, il tuo valore è altrove. Silvia, tu sei straordinaria come cuoca e come amica. Non dico che sei brutta però, insomma, voglio dire..”

 “Basta! ”

 Silvia si era scostata dalla sua presa e si era allontanata.

“Ho capito, Angelo, me ne vado.”

La voce di Angelo si era macchiata d’un improvviso terrore. La implorava di non rovinare la loro amicizia per quella chiacchierata, le chiedeva di comportarsi come se non fosse successo nulla, le ripeteva che le voleva bene. Tutto quello che aveva ottenuto da lei era stato un gelido “ciao”. E poi quello che era successo dopo lo aveva già rievocato sul treno e non ritenne utile ricordarlo ancora una volta. Mentre aspettava Clarissa indugiava su quelle parole: “non c’è nulla” Agli occhi di Angelo non c’era nulla in quel suo corpo esile, non c’erano i due seni prosperosi che magari lui avrebbe desiderato o i fianchi larghi che avrebbe considerato tocco elegantissimo di autentica femminilità. Lei non aveva mai avuto niente di tutto ciò, solo due seni piccoli e sodi e una vita stretta che una modella avrebbe invidiato, ma evidentemente il mondo cercava altre donne, com’è che le definiva lui? Generose. Era un aggettivo che aveva sempre odiato, perché una maggiorata con la maniglie dell’amore sui fianchi era bella, avvenente e generosa e lei, che la natura aveva scolpito sottile, modesta e proporzionata non poteva avere nulla da offrire? Si voltò e camminò lungo la finestra. La riscosse la voce di Clarissa.

- Eccomi, scusa. –

- Amica mia, grazie. Penso che sia inutile continuare a parlare. Spero che Laura Trani non esca fuori uno dei suoi bei progetti. –

- Lo spero anche io, dai, ci vediamo domani. –

- A domani. -

Si scambiarono una bacio frettoloso. Silvia uscì dal locale, incamminandosi per il marciapiedi. Doveva camminare un po’ prima di raggiungere la macchina. Sentiva addosso un’inquietudine che non riusciva a spiegarsi. In parte, forse, era dovuta ai ricordi che aveva evocato in quello strano pomeriggio. Era risalita a galla quella sensazione che l’aveva penetrata raggiungendo le sue stesse ossa e nascondendosi nella danza dei giorni tutti uguali. Sentirsi una figura accessoria, privata di identità, una bravissima cuoca, un’essenza incorporea che cucinava da meraviglia, come una divinità greca lontana dai terrestri. No, scosse la testa, le divinità greche erano belle. Lei era semplicemente una presenza senza forma, un’entità professionale. Il suo non era un corpo ed era meglio che lo nascondeva nei vestiti e tornava a cucinare che in quello era brava. Solo una cuoca, non una donna. Molto semplicemente era un ritratto senza colori, bianco e nero, riposto in un angolo insieme agli altri come lei, e intorno a loro i colorati quadri delle persone interessanti. Oppure un bicchiere vuoto, uno dei calici da cui non c’era più nulla da bere in mezzo ad un tavolo di coppe piene. Erano dei pensieri che le davano la sensazione che ogni giorno lei, Silvia Tomelli, si assottigliasse sempre di più, mentre tutto il contorno davanti ai suoi occhi si rivelava una fitta trama di bugie, ad esempio, che ciò che conta è quello che la gente ha dentro. Sì, forse era vero nell’interpretazione che senza organi interni non si vive, ma non di certo nel significato metaforico che il carattere conquista più dell’aspetto esteriore. Al momento pratico il ragazzo che le piaceva se ne era fregato di quel che lei aveva dentro, che, per giunta, lui considerava magnifico ed eccelso. E lui, che con quell’arma micidiale l’aveva declassata, aveva negli occhi lo stesso disprezzo di Laura Trani quando sosteneva che lei non era all’altezza del suo mestiere e del suo Marco. Alla fine il cerchio si chiudeva, e non c’erano porte da cui scappare. Sentì una cappa fredda e bagnata avvolgerle i piedi. Guardò sotto di sé. Una pozzanghera. Ma come? Aveva piovuto? Scosse la testa. Soltanto una porzione del marciapiedi davanti a lei era bagnata, e nel punto in cui lei aveva poggiato i piedi l’asfalto era risucchiato a formare una piccola fossa. Si sentì incastrata tra avvenimenti al di fuori della sua portata. Le ballerine di stoffa verde erano zuppe d’acqua e così i gambaletti che portava ai piedi. Una preoccupazione all’improvviso l’assalì. L’appuntamento con Marco. Marco Carini, che apparteneva ad un’altra vita, lineare e sensata. Doveva sbrigarsi. Iniziò a correre sperando di vedere al più presto la sua macchina rossa. Pretendeva forse di farcela, di uscire, bella e attraente, con il suo uomo? Immaginava la risata altezzosa di Laura e lo sguardo assente di Angelo. E in effetti, era preoccupata, intristita, con i piedi bagnati e il cielo già si striava di scuro. Si sentiva incolore come il cielo che aveva illuminato quella domenica. Una gabbia senza colore e senza luce, senza valore e senza pace. Rivide gli occhi chiari di Marco, i suoi bei capelli corvini, il passo deciso e il sorriso leggero. Sentì una fitta al cuore, ma non fu nulla in confronto a ciò che lesse nel display del cellulare quando si sedette in macchina e lo estrasse dalla borsa.

18:59

Silvia rilesse ancora una volta l’orario, sperando di aver visto male.

19:00

Giusto per fugare ogni dubbio. Ci voleva quasi un’ora di strada per tornare in città e arrivare al Grande Viale, rischiava anche di non farcela. Oltretutto non era nelle condizioni di uscire, parlando di abiti e scarpe. Quella considerazione logica e razionale la scosse e il martello pneumatico nella sua testa smise di trapanarle i pensieri, mentre scorrevano calde le lacrime sul suo viso. Iniziò a singhiozzare mentre s’insinuava nella sua mente il sottofondo flebile della città che si muoveva intorno a lei. Il rumore delle auto, che scivolavano veloci lungo il viale, il ticchettio dei passi della gente, il rombo di qualche moto che sfrecciava, il brusìo delle persone che si avvicendavano tra le strade e i palazzi. Più versava la sua attenzione sul respiro della città più perdeva il senso di ogni sua lacrima e sentiva se stessa rimpicciolirsi nel sedile in pelle. Si sentiva piccola tra le voci di una vita immensa. Guardava il suo volto nello specchietto retrovisore e non scorgeva colore nel suo viso. Seguendo il movimento nello specchio lucido si tastò una guancia, come a proteggersi. Non ci aveva mai pensato, ma in quel momento le appariva tempestosa la verità. Non aveva pianto per la frustrazione che portava con sé da anni, quei sentimenti piuttosto le passavano in viso come una folata di vento e nulla di più. Quelle lacrime non erano di tristezza, né di sconforto, no. Avevano un gusto acre e le tagliavano il respiro, le ribollivano dentro. Erano rabbia. Piangeva tutta la rabbia che provava per se stessa, tutto il disprezzo per ciò che era riuscita ad ottenere, per come aveva tirato fuori le unghie. Lo zero o il nulla che chiamar lo si voglia, non era come il mondo l’aveva annichilita, no, era come lei si era lasciata annullare pian piano, come lei si difendeva. Marco Carini. Non doveva bastarle, per sorridere? Tutta la fiducia e l’affetto che le dava, non erano un motivo valido per sentirsi amata? Soltanto come l’aveva portata con sé il terzo giorno che si conoscevano, come l’aveva protetta come un pulcino infreddolito, non dovevano farle dimenticare ogni maledetto malessere malconcio che si portava dietro? Non le bastava come lui la guardava con tutta la tenerezza che potessero contenere gli occhi di un angelo, come lui le parlava con tutta la serenità innocente e sicura di chi non ha nulla da temere? Se il suo volto azzurro per lei era stato tutto, perché si perdeva, sorda e cieca, in un labirinto vuoto? Perché anziché tornare a casa e prepararsi per lui girovagava da un pomeriggio in cerca di risposte che in fondo non valevano niente? Perché tanto tormento nei confronti di una donna che non aveva voce in capitolo? Secondo quale legge del buonsenso la cosa aveva un minimo di valore o la voce di quella donna subdola aveva un minimo di credito? E intanto lei era ancora in jeans e maglietta, con delle scarpe bagnate fradice, e un volto altrettanto bagnato. Si agitava nella sua testa una verità inconfutabile. Sapeva che se fosse tornata a casa a cambiarsi avrebbe perso troppo tempo. Inspirò profondamente. Per non finire di nuovo nell’orlo del baratro e riuscire a raggiungere Marco doveva presentarsi all’appuntamento così com’era. Oppure annullare tutto, rimandare l’uscita. Immaginò il viso di Marco, con gli occhi azzurri che tanto le piacevano. Lo visualizzò mentre pensava a lei e mentre raggiungeva casa sua, guardando l’orologio per assicurarsi di farsi trovare al posto giusto al momento giusto. Nuovi singhiozzi la scossero. Non poteva fargli questo. Non poteva deluderlo. Non lo meritava. Accese il motore. Si inserì nel traffico cercando di scacciare il rimpianto di non aver sfruttato più serenamente quel pomeriggio, il rimpianto delle ore già passate e diventate ombre di errori in un passato già passato che nonostante passato passa e ripassa ancora nelle vene, trapassa la testa e passa via nell’ombra, nell’inutilità di una scena ormai passata. E intanto la strada con gli edifici, la piazza e la gente, le passavano intorno. La rabbia è nera, è velenosa, è truce. La rabbia è rossa, è furente, è cruenta. La rabbia è cercare di risolvere, cercare di fuggire, la rabbia è furioso tentativo di non soccombere. Avrebbe comprato un altro paio di scarpe durante il tragitto e si sarebbe presentata all’appuntamento in jeans e maglietta. Non sarebbe corsa a casa. Non erano a casa le sue risposte. Sarebbe andata al Grande Viale, dov’era attesa, al suo posto, senza pretendere di essere bella, né di essere sistemata. Non l’aveva voluto, lo aveva lasciato alle mani del vento, inseguendo le sue paure e i suoi ricordi. E dal vento non tentava di riprenderselo. Dal vento non si prende niente, se non aria, il vento non aggiunge nulla alla realtà, semmai, porta via qualcosa quando ha troppi nodi.
 

La Grande Punto blu si allontanò dall’hotel Riveira mentre Natalia camminava spedita verso la porta a vetri dell’ingresso, trascinando il trolley viola dietro di sé.

- Ce la farà, stiamo tranquilli. –

- Sì, Marco, se tu, come hai promesso, le troverai questo lavoro. –

- Alessandro, ho promesso che farò il più possibile. –

- Il più possibile è proprio trovare il lavoro. –

- Ragionamento ineccepibile, fratello. Ce lo auguriamo. –

Mentre i due uomini discutevano si levò la voce sottile di Dalia.

- Amore, ce la farai, anche se, tra l’azienda e Natalia, ti hanno ridotto a work-scout, ma tu ce la puoi fare. –

- Il prossimo carnevale voglio travestirmi da Super Man, anche se ho trent’anni. –

- Ma tu già lo sei, tesoro, in due ore e 10 minuti siamo quasi a casa. A che si deve questa velocità? –

- Già, babbuino rampicante ,cosa bolle in pentola? –

Marco sospirò, guardando lo sterzo. Alessandro aveva la stessa ironia pungente della madre, e la sua innata capacità di punzecchiare. Dal sedile posteriore sentì suo padre sospirare, da sempre estraneo a quei giochetti della moglie e del figlio minore.

- Fratello, non è che per caso volevi essere lasciato all’hotel Riveira? –

Dalia lo fissò sorpresa, avvicinandosi ai sedili anteriori.

- Che c’entra l’hotel Riveira? –

- Mamma, non hai notato che a pranzo Marco lo raccomandava a Natalia, dicendo che era sicuro che si mangiasse bene? –

Dalia sorrise.

- Dai, figliolo, nostra adorabile cavia, chi conosci tra i cuochi, o tra le cuoche? –

Marco sterzò sgranando gli occhi. Non smetteva mai di sorprenderlo l’intuito della madre, preciso come una freccia che centra il bersaglio. Lo avrebbero punzecchiato fino a torcergli ogni loro curiosità. Imboccò il Grande Viale con un sorrisetto sadico.

- Silvia Tomelli, 28 anni, cuoca al ristorante che serve l’hotel dalle 08:30 alle 16:00, volete pure il codice fiscale? –

Scacco matto.           

Dalia e Alessandro sospirarono delusi.

- Ma non c’è gusto a giocare così, fratello. –

- Zitto, Alessandro, noi siamo professionisti. Apriamo un’altra partita. Che fate stasera tu e Silvia Tomelli? –

Marco gettò lo sguardo oltre il finestrino. La madre aveva capito tutto, di nuovo. Meglio arrendersi e giocare al loro gioco, facendosi estorcere lentamente le informazioni che volevano sapere? Scosse la testa, era troppo divertente deluderli subito, anche a costo di rivelare tutti i suoi segreti.

- Appuntamento alle 20:00 nella traversa dopo quella di casa nostra, niente programmi e per vostra informazione siamo arrivati a casa. –

Parcheggiò di fronte al portone e scese dall’auto sorridendo.
 
 
Silvia guardava il buio davanti a sé, illuminato dalle luci  bianche e rosse delle altre auto. Guardava l’asfalto della strada scorrerle sotto la visuale, il bordo grigio del guard-rail e la linea bianca della corsia d’emergenza. Prima di allora non aveva mai preso l’autostrada per compiere quel tragitto, perché il casello era lontano dal Grande Viale, ma quella sera aveva paura di non farcela seguendo il solito percorso e sperava che non ci fosse troppo traffico in città, così che non si annullasse il vantaggio dell’autostrada. Quando spense il motore dell’auto nel garage il display del cellulare segnava le 19:43. Aveva un quarto d’ora per raggiungere casa sua. Esausta aprì la borsa per riporre le chiavi della macchina. Sgranò gli occhi. Nella borsa c’erano un eye-liner verde smeraldo e un rossetto, che aveva cacciato là dentro chissà quando. Si mise a ridere. Il disordine che da sempre l’accomapagnava a braccetto le sorrideva dal fondo della borsa. Ne rovesciò il contenuto sul sedile del passeggero e scoprì c’era anche un campioncino di profumo. Sorrise ancora e si truccò guardandosi nello specchietto sopra il cruscotto, si spruzzò un tocco di profumo e rimise in fretta tutte le sue cose nella borsa, tranne gli scontrini e i foglietti accartocciati che lasciò sul sedile, in quel buio garage. Scese dalla macchina, premette il tasto rosso e le luci dell’auto lampeggiarono. Uscì dal garage e lo richiuse. Ammirò la comodità delle nuove scarpe che aveva comprato una volta uscita dal casello, verdi come le ballerine ma con una cinghietta nera e un tacco di 10 centimetri. Mise in tasca il telefono, che segnava le 19:47. Era ancora lontana dall’appuntamento. Prima che si diramasse nella traversa di casa sua, dove l’attendeva Marco, era ancora lungo il Grande Viale con i suoi negozi, i suoi palazzi e la sua gente di fretta. La rabbia è nera, è velenosa, è truce. La rabbia è rossa, è furente, è cruenta. Camminava più in fretta che poteva, più velocemente di quanto faceva Marco in quelle mattine in cui aveva sbattuto contro di lei. Procedeva spedita, respirando a pieni polmoni quell’aria che ormai si era colorata del buio di una sera tiepida, l’ultima di aprile. Si affrettava, sola, fragile, aveva sbagliato, aveva perso, ma ci sarebbe stato ancora Marco pronto ad afferrarle la mano, alla fine di quella corsa. La stava solo aspettando. La rabbia rimaneva comunque nera e rossa, velenosa e furente, truce e cruenta, ma nessuno glielo aveva portato via, ci sarebbe stato ancora Marco. Marco era il nome che lei, come Bastian faceva nella storia infinita, urlava nel suo cuore, con tutta l’energia che aveva, per fermare il Nulla.
 
 
Marco diede una rapida occhiata all’orologio. Le otto meno due minuti. La doccia era stata un ottimo rifugio per gli ultimi attacchi dei due impiccioni di casa Carini e alla fine, eccolo puntuale all’appuntamento, pur con i primi vestiti che aveva trovato nell’armadio e il cellulare con la batteria poco carica. Guardava la città, immobile. Appena sceso dall’auto, col respiro concitato in gola, un turbinio confuso si agitava tra i suoi pensieri. Laura Trani era in città, sospettosamente immischiata con Marzia Granato e Angelo Liguori, e di nuovo addosso a lui a far delle avance, come dieci anni prima. La Favenza Corporation aveva bisogno di una nuova attività da prendere in gestione. Doveva trovare un lavoro per Natalia. Sentiva una sorta di agitazione per tutte quelle preoccupazioni che non portavano una lista di istruzioni per risolverle e allo stesso tempo una punta di sollievo, la flebile speranza che, comunque, una soluzione l’avrebbero avuta. Si guardò intorno: le luci tremolavano nell’aria fresca, nel cielo buio sopra di lui. La volta celeste che per tutto il giorno non aveva avuto un colore, avvolgeva il mondo silenziosa. Guardava incerto verso la direzione in cui aspettava Silvia. Sentì il ticchettio di un tacco dietro di sé, accompagnato da un respiro concitato, un’ansimare che terminava in una risata. Si voltò sorridendo, con la certezza che fosse lei, mentre quell’ultimo istante prima di vederla durava un secolo.
 
  
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