2.
Un Piano Folle
«Perché
è da quasi mezz’ora che fissi quel
cartello».
Da quasi mezz’ora… da quasi
mezz’ora… mezz’ora? L’aereo!
Il suo volo per
Torino! Guardò terrorizzato l’orologio: le quattro
meno un quarto. Non ce l’avrebbe
mai fatta, il suo volo partiva da lì a quindici minuti, non
avrebbe mai
raggiunto l’aeroporto.
«C’è qualche problema?»
Riportò
la sua attenzione sulla ragazza dai capelli rossi che lo fissava con
aria
gentile. «Io… dovevo recarmi
all’aeroporto, ma non credo di arrivare in
tempo».
«Fra quanto tempo parte il tuo volo?»
«Un
quarto d’ora».
Lei
sorrise. «Già, non ce la farai mai».
Detto questo, allungò una mano in un breve
salutò e fece ritorno all’interno del teatro. Lui
non sapeva cosa fare. Rebecca
era lì, o almeno lo sarebbe stata, a pochi metri da lui.
Cosa avrebbe dovuto
fare? Cercarla? Ignorarla e aspettare un altro volo per tornare a casa?
Ma lei
era lì, non poteva rischiare di non rivederla. Trasse un bel
respiro e, non
ancora del tutto convinto, seguì la ragazza
nell’atrio. Aveva ripreso posto
all’interno del botteghino e stava sistemando alcuni fogli
alla scrivania,
consultando ogni tanto il computer.
«Oh, sei ancora tu! Io sono Aberdeen, fra
parentesi, molto piacere».
«Davide».
«Bene Davide, posso aiutarti in qualche modo? Vuoi un
po’ di compagnia a
guardare quella locandina fuori?» All’udire la
battuta contrasse un po’ la
mascella, non gli andava granché che la gente si facesse
beffe di lui, ma il
sorriso della ragazza indicava che non lo aveva detto con cattiveria,
solo con
l’intento di fare una battuta, appunto. E forse poteva
davvero aiutarlo.
«Il balletto della locandina
fuori…»
Lei lo guardò incuriosita. «Il Lago dei Cigni,
sì».
«Ecco…
ci sarebbero ancora dei biglietti, per caso?»
Il suo sguardo passò dalla curiosità
a puro sgomento. «Stai scherzando?
Quei biglietti sono finiti da settimane! Sai cosa vuol dire un balletto
con
Alberto Pecetto e Rebecca Petrini insieme?»
«Ad essere sincero, no». Sapeva cosa voleva dire
osservare Rebecca
mentre trasformava una sequenza di passi in una coreografia da mozzare
il
fiato, quello sì. Non lo aveva mai dimenticato.
«E si vede. Biglietti finiti dopo due giorni e
teatro al completo, ecco
cosa. Un mare di gente piena di soldi e la più alta
società irlandese tutta
nello stesso edificio. Rende l’idea?»
«Abbastanza».
«Non
ne sai molto di danza tu, vero?» chiese Aberdeen con
l’aria di chi aveva già
vissuto quella scena. Quella di dover mandare via giovani ammiratori
senza
poter esaudire le loro richieste. Quando si trattava di eventi
così importanti,
spesso, la metà di quei biglietti era stata prenotata da chi
poteva permettersi
di spendere più del dovuto, ancor prima di essere messa in
vendita.
«Non
ne sai molto di danza tu, vero?»
«Già…»
E così, era
sfumata. La sua possibilità di rivederla era andata
all’aria nel giro di pochi
minuti. Non sapeva il perché di questo improvviso desiderio,
in fondo, in
quattro anni non aveva mai fatto alcun tentativo per riuscirci. Non ne
aveva
motivo, ma soprattutto, il solo pensiero lo spaventava a morte. Aveva
paura di
provare ancora tutte le emozioni che avvertiva quando era con lei e
doversene
poi separare.
«Perché volevi quei biglietti?» Ancora
una volta, la voce della ragazza
lo riportò alla realtà.
«Rebecca, lei… tanti anni fa noi
eravamo… noi ci conoscevamo…» Ormai non
era sicuro neppure di quello: l’aveva davvero conosciuta in
fondo? In tutte quegli
sguardi, in tutti quei bisbigli, quelle notti passate a dormire insieme
e i
pomeriggi a studiare… possibile che fosse davvero lei in
quei momenti, in
quegli istanti solo loro? No. No, lei era sé stessa solo
quando ballava.
«Adesso
stanno provando».
Scosse la testa, riemergendo dai suoi pensieri. Ultimamente si
distraeva
un po’ troppo facilmente. No, non ultimamente, solo da poco
meno di
un’ora.
«Cosa?»
Lei alzò gli occhi al cielo con finta aria spazientita.
«Ho detto che adesso
stanno provando».
Sbarrò
gli occhi: «Davvero?»
«Sì… vuoi
vederla?» gli chiese con un sorriso intenerito. Lui
annuì,
incapace di rispondere. La guardò uscire dal botteghino e
dirigersi verso
l’entrata, girandone il cartello appeso sulla scritta
“CLOSED”.
«Da
questa». Gli fece cenno con una mano di seguirla,
indicandogli una rampa di
scale. Esitò solo per un momento, di nuovo preda del panico,
poi si diede una
scossone e la raggiunse, quasi percorrendo di corsa i gradini. Salirono
di un
piano, fino a raggiungere un corridoio la cui parete destra era
composta da una
gigantesca vetrata che dava proprio sull’interno del teatro,
mostrando platea e
palcoscenico, dove due ragazzi stavano ballando. Nonostante i muri e il
vetro
spesso, la musica raggiungeva anche i piani più alti,
avvolgendo ogni
spettatore e trascinandolo in un mondo di pura armonia. Era una
sinfonia che
conosceva anche lui, che di danza classica e teatro proprio non si
interessava,
pur non riconoscendone il titolo. Seduta in mezzo alla platea, come una
normalissima spettatrice, stava una donna, dall’aria
piuttosto matura, che li
guardava con un sorriso soddisfatto sulle labbra.
“Dev’essere la loro
coreografa” pensò Davide. Non aveva
l’aria con cui
vengono dipinti spesso i coreografici, ovvero come persone rigide,
severe,
amanti della perfezione, ossessionati dall’idea di dover far
capire chi sono
anche dall’aspetto fisico. Quella donna somigliava
più ad una nonna che osservava
orgogliosa i propri nipoti, non portava i capelli raccolti strettamente
in uno
chignon, era disposti in un carré alla spalla leggermente
spettinato, che le
conferiva l’aria di chi è troppo impegnato per
prendersi cura del proprio
aspetto. Ad un tratto, la musica finì. La musica
finì e lui vide entrambi i
ballerini concludere la coreografia e mantenere la posa un paio di
secondi. Si
rilassarono solo nel momento in cui si sentì la donna
applaudire e
complimentarsi con loro. Quello che sicuramente doveva essere Alberto
prese fra
le braccia Rebecca, sollevandola e facendola volteggiare un paio di
volte,
prima di posarla di nuovo a terra. Lei scoppiò a ridere,
divertita, portando la
testa all’indietro e solo in quel momento si accorse della
loro presenza. Con
un sorriso, alzò un braccio in segno di saluto. Lui si
paralizzò sul posto,
mentre Aberdeen salutava con la mano.
«Ci… ci ha visto? -
balbettò, contorcendo le mani – Mi ha
riconosciuto?»
Lei continuò a
fissare pensierosa le tre persone al di sotto che avevano cominciato a
chiacchierare e a mimare qualche passo giusto per piacere.
«Ci ha visto, sì, ma
non ci ha riconosciuto, almeno non te. Siamo troppo distanti e
leggermente in
controluce, non possono distinguerci bene, ma Rebecca sa che spesso
vengo qui a
dare una sbirciata delle prove, ecco perché ha
salutato».
«Vieni spesso
qui? Scusa, ma da quanto tempo sono a Dublino?» chiese
sospettoso.
«Oh, be’, saranno circa dieci giorni».
«Die-dieci
giorni?» ripeté sconvolto. “È
qui da dieci giorni e io… io…” Prima
che potesse
prendersi a pugni da solo, Aberdeen interruppe il filo delle sue
ingiurie
contro sé stesso.
«È
da molto che non vi vedete?» gli domandò
cominciando a scendere le scale per
tornare nell’atrio.
Lui sospirò. «Abbastanza… circa quattro
anni». “Ma non l’ho mai
dimenticata”.
Aberdeen
parve colpita da un’illuminazione: «Facciamo
così: presentati qui questa sera,
verso le nove. Mi raccomando, sii puntuale e indossa l’abito
più elegante che
hai, tutti gli uomini presenti porteranno il tight o lo smoking e tu
non dovrai
essere da meno».
«Scusa, credo di essermi perso il
motivo…» disse lui inarcando il
sopracciglio sinistro. Oh Dio, quel gesto… era
un’abitudine (una delle tante)
che aveva preso proprio da Rebecca, che spesso si limitava a rispondere
o a
rimarcare una domanda in quel modo.
«Per
riuscire a incontrare Rebecca, no? Avessi visto anche tu la faccia che
hai
fatto quando si è girata… è stata
quella a farmi prendere la decisione di aiutarti.
Il piano è questo: all’ingresso ti mescolerai fra
tutti i ricconi che saranno
qua in attesa di prendere posto in platea e aspetterai che arrivi
anch’io».
«Sbaglio o sei stata tu a dirmi che non c’erano
più posti disponibili?
Come oltrepasso le maschere senza un biglietto? In volo?»
chiese poco convinto.
Lei roteò gli occhi. «No, mio caro,
semplicemente non le oltrepasserai.
Dal retro del botteghino si estende un corridoio…indovina
dove porta?» chiese
con un sorriso sornione.
«Dietro le quinte?» provò a
rispondere speranzoso.
«Meglio,
alla platea. Più precisamente, dietro l’ultima
fila di poltrone. Da là potremo
osservare tutto lo spettacolo, anche se ci toccherà stare in
piedi per un bel
pezzo. Quelli che ti vedranno ti scambieranno per una maschera, quindi
nessun
problema» precisò con un gesto noncurante della
mano.
«Sembra che io debba introdurmi alla sede
centrale della CIA come spia
degli Emirati Arabi, piuttosto che in un teatro per rivedere una
ballerina».
Aberdeen fece un piccolo saltello sul posto, congiungendo le mani con
aria sognante: «Già! Non ti sembra eccitante tutto
questo?»
Lui roteò gli occhi: «No, più da folli
in realtà. Perché fai questo?
Perché mi vuoi aiutare?» chiese diffidente.
«Sono un’inguaribile romantica. E perché
vorrei anch’io che qualcuno mi
guardasse nello stesso in cui tu hai guardato Rebecca non appena
l’hai vista»
gli rispose con aria velatamente triste. Quella frase lo
lasciò spiazzato: come
la guardava lui, come una vecchia amica? No. Come una sorella lontana?
Neppure.
Come un qualcosa di irraggiungibile? Forse.
«Cioè
come?» chiese titubante.
Lei gli fece l’occhiolino. «Lo sai, devi solo
ammetterlo a te stesso. Io
l’ho capito subito».
“Ammettilo”.
Come un qualcosa di bramato, ecco come.