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Autore: Chambertin    25/08/2014    2 recensioni
● || What if? | Post!ACIII | Post!ACBlackFlag | Desmond Miles X Nuovo Personaggio | REVISIONE IN CORSO || ●
«Desmond, per piacere, almeno ascolta quello che abbiamo da dirti!»
«Ho detto no.» il ragazzo stava già per chiudere la porta anche se gli altri due cercavano ancora di parlare.
«Ti capiamo, ma-»
«Ecco, allora se mi capite giratevi e tornatevene da dove siete venuti!»
Il ragazzo inglese prese fuori dalla tasca una chiavetta USB bianca, Desmond aggrottò la fronte non capendo – o non volendo capire – cosa fosse, poi con un movimento di dita, l’altro, fece girare l’oggetto sul quale spiccava un simbolo triangolare interamente nero e il nome di quella società che sarebbe dovuta sparire dalla faccia della terra, per il bene di tutti.

[Questa fic fa parte della serie Assassin's Creed Genderswap © No al PLAGIO]
Genere: Avventura, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Desmond Miles, Nuovo personaggio, Rebecca Crane, Shaun Hastings
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'Assassin's Creed: Genderswap'
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ricordo 0.6 scheletri nell'armadio.
 
 
Il locale sembrava immerso nel vuoto più assoluto. Le luci erano spente, e la maggior parte delle finestre erano chiuse dalle imposte scorrevoli, nere; quelle uniche due che erano rimaste aperte illuminavano il bancone lasciando nell’ombra più totale il resto della sala. Ed era proprio lì sul bancone che il ragazzo dormiva con la fronte poggiata sulle braccia: il respiro regolare significava che stava dormendo da un bel po’ e che lo stava facendo anche pesantemente.
La porta principale si aprì con il rumore di due mandate di chiave e ne entrò un uomo alto, robusto, dalle spalle larghe, che indossava gli stessi vestiti della sera precedente, eccezion fatta per la maglietta che ora era interamente nera senza il logo del locale di un verde fluorescente – quello si illuminava al buio; effettivamente poteva essere confuso con il buttafuori ma in realtà era il proprietario del pub.
«Ma che caz…?» imprecò nel momento in cui si accorse del ragazzo. Rimase qualche istante fermo con le sopracciglia alzate. Di certo non si aspettava di trovare nessuno, anche perché le porte erano state chiuse, ma osservando bene il locale era tutto pulito: la pista lavata, le sedie capovolte sui tavoli, il bancone lucidato… ma quell’atteggiamento proprio non lo poteva concepire.
Una volta arrivatogli di fronte prese lo strofinaccio blu da dentro il lavello; lo soppesò sul palmo della mano, spostò lo sguardo dall’oggetto al ragazzo come a prendere una buona mira e sogghignando glielo lanciò contro, colpendolo in piena faccia.
«EH? Cosa?!» urlò quello svegliandosi di colpo, e senza neanche accorgersene la sua mano afferrò un coltello cominciando a brandirlo sulla difensiva, incespicando qualche passo all’indietro. Sentiva le ginocchia formicolare e la vista gli si era annebbiata per lo scatto troppo veloce.
«Ma… Desmond! Piano con quella cosa! A meno che tu non voglia affettarti qualche arancia per una spremuta mattutina, ti conviene metterlo via!»
Desmond si portò la mano libera sulla fronte, poi sentì tutto un colpo la pesantezza dell’oggetto che teneva talmente tanto stretto da lasciarsi il segno delle unghie sul palmo. Nel momento in cui realizzò cosa stava facendo, la mano cominciò a tremare e lasciò la presa. Il coltello cadde all’interno dal lavello facendo un gran fracasso per le sue orecchie. Metallo contro metallo non è mai un suono piacevole. Si portò le mani sulle orecchie per non sentire più quel suono sgradevole.
«Cristo, scusa…» la vista continuava ad essere annebbiata, ma lentamente – molto lentamente – le due figure davanti a lui si riunirono nell’unica persona di Miguel Cerrito.
«Ci sei andato giù pesante ‘sta notte, eh?» Miguel sapeva parlare molto meglio l’inglese di quanto Desmond sapesse lo spagnolo.
Desmond si guardò intorno e riconobbe quel posto come il T-Yub, si portò le mani sugli occhi, strofinandoseli.
«Quanto ho bevuto?» si sentiva uno schifo, debole, senza forze per reggersi in piedi e per farlo si dovette appoggiare al bancone.
«Ieri sera c’è stato il pienone, e posso dirti con certezza che nel momento in cui si presentavano due belle chicas che ti chiedevano qualcosa “di buono”, tu prontamente ne facevi uno in più per te.» Miguel rispose incrociando le braccia al petto possente.
Desmond lo ascoltava incredulo. Solitamente, si è vero, beveva qualcosa durante la sera, ma perché glielo offrivano i clienti, non perché c’era una bella ragazza che gli diceva qualche parolina dolce!
Si passò una mano sul viso, soffermandosi sul setto nasale. Era come se qualcuno gli avesse tirato un possente pugno, ma sapeva fin troppo bene che era l’effetto dell’alcol.
Calò il silenzio per qualche minuto, aspettando uno la reazione dell’altro, perché entrambi sapevano cosa comportava quel comportamento.
«Desmond, le entrate sono già abbastanza poche senza che tu ti metta a bere come un cliente, quindi le opzioni sono due» Miguel cominciò a tenere il conto sulle dita tozze «o mi paghi quello che hai bevuto, e ti ripeto non è poco e non so come tu abbia fatto a resistere e non vomitar, oppure devo mandarti a casa…»
Desmond lo ascoltava, e lo guardò amareggiato nel momento in cui fecero i conti della serata. La cifra era spropositata, se si fosse reso conto di quello che stava facendo avrebbe fatto pagare tutti quei chupitos alle ragazze. Si grattava la nuca con fare quasi nevrotico «Io… Miguel, ascolta, in questo momento non ho la diponibilità per pagarti, ma ti prometto che li troverò… non posso perdere il lavoro, lo sai io ed Elena abbiamo da finire di pagare ancora la casa!»
Per un momento sentì una sorta di contrazione allo stomaco. Era incredibile come fino a cinque anni prima pensava solo a se stesso e fuggire da qualcosa più grande di lui, mentre ora era alle prese con i problemi comuni della gente comune.
Miguel sospirò «Ok, ti do due settimane di tempo per rimediare, se per allora non mi avrai pagato, non mi farò scrupoli a buttarti fuori, he sido lo suficientemente claro?»
Desmond guardò il dito rozzo del titolare sventolare davanti al suo viso e poi indicare la porta d’ingresso. «Como el cristal, me atreveria a decir…» rispose con il suo forte accento americano.
 
 
La casa era sprofondata nel silenzio più totale. Si sentiva solo il ticchettio dell’orologio in cucina che scandiva ogni minuto in cui Desmond non arrivava a casa. In controluce si potevano vedere minuscole particelle di polvere fluttuare in aria come se non ci fosse gravità sulla terra. Peccato che ci fosse eccome invece, e sembrava che gravasse tutta su Elena, che stava rannicchiata cingendosi le gambe con le braccia, sotto le coperte, sul divano.
Ogni rintocco contribuiva a far aumentare in lei quel senso di disorientamento e di disagio che l’aveva pervasa subito dopo la visita dei due sconosciuti.
Il ricordo la fece quasi piangere dall’ansia, piegò la testa verso le proprie gambe e fece aderire gli incavi degli occhi alle ginocchia. Continuava a pensare “Desmond, torna presto” ma ogni volta che alzava lo sguardo per mettere a fuoco la porta, quella rimaneva chiusa, immobile.
Ognuno aveva un modo diverso per affrontare gli attacchi di panico, ma il fine era sempre il medesimo: trovare il proprio spazio sicuro; c’era chi con le braccia si creava una barriera davanti al petto, chi invece le braccia aveva bisogno di sentirle attorno al proprio corpo, chiuse in un abbraccio sicuro; lei si chiudeva – o meglio, barricava – in casa, era quello il suo spazio sicuro.
Eppure nonostante le finestre chiuse, il sole oltrepassava le imposte illuminando il salone di strisce chiare alternate a quelle scure, e il cinguettio di alcuni uccelli molesti imprimevano l’aria di una nota primaverile, quando ancora la primavera era ben lontana.
“Aggiungiamo pure la beffa al danno!” pensò Elena continuando a fissare quel punto imprecisato sul legno scuro della porta.
Però quel tepore, quella calma, quel suono, in un qualche modo inducevano le palpebre a chiudersi contro la sua stessa volontà, la testa era diventata tutto un tratto troppo pesante per essere sorretta solo dal collo.
Poi il rumore. Quel rumore.
Il rumore delle chiavi nella serratura.
All’improvviso tutto quel senso di stanchezza scomparve, lasciando il posto al senso di felicità, propagandosi in tutto il corpo come un formicolio caldo.
A primo acchito Desmond non si accorse di nulla, si girò per richiudere la porta sospirando e solo quando si rivolse verso la stanza sentì la sensazione di disagio.
«Ehi…» fece lui, una volta vista la ragazza, aggrottando le sopracciglia scure «che ci fai lì?» lo sguardo vagò per tutta la sala come se stesse cercando la personificazione trasparente del disagio per poterlo catturare e buttare fuori casa.
Aveva il presentimento che ci fosse qualcun altro in casa, pronto a tendergli un imboscata, chissà magari per metterlo fuori combattimento con un colpo in testa.
Elena alla domanda del compagno fece spallucce e si lasciò cadere di peso verso sinistra sul divano, mantenendo la posizione fetale sotto la coperta, neanche fosse stata colpita da un colpo di pistola al tiro a bersaglio.
«Ero preoccupata, non arrivavi.» rispose atona.
Desmond rilassò leggermente le spalle sedendosi vicino a lei, le poggiò una mano sul fianco cominciando a carezzarla da sopra la coperta.
«Ho avuto problemi a lavoro…» era stanco, quello che avrebbe voluto fare in quel momento era salire in camera e dormire, magari assieme ad Elena, ma comunque dormire.
«E non potevi avvisarmi?» Elena urlò rialzandosi di scatto facendo cadere la coperta a terra, rivelando il suo fisico asciutto e snello, e sembrò recuperare tutta l’energia che le serviva in quel momento.
«Io… scusa, il cellulare è morto» anche Desmond si alzò, e riprese a guardarsi intorno circospetto.
«Mi spieghi perché diavolo continui a cercare qualcuno quando in realtà non c’è nessuno?!» Sbottò Elena infastidita, sentiva le lacrime riempire i suoi occhi, ma per quanto faticoso fosse cercò di trattenerle il più possibile.
Se nel momento in cui era entrato in casa aveva avuto il presentimento che fosse successo qualcosa durante la sua assenza, ora ne aveva la certezza.
Desmond si mise di fronte a lei, le poggiò le mani sulle spalle esili e cercò di farsi guardare negli occhi.
«Elena, dimmi la verità, cos’è successo?»
Lei spostò lo sguardo dagli occhi di Desmond, mordendosi l’interno della guancia, le lacrime continuavano a spingere perché negli occhi non c’era più spazio per loro.
«Elena…» insisté Desmond sempre più preoccupato «è entrato in casa qualcuno? Ti hanno fatto del male?» Elena si scostò dalla presa dell’altro e si sedette di nuovo sul divano, sconfortata. «No… non è entrato nessuno, Desmond.» rispose secca, alla fine.
«Allora, parla, dimmi cos’hai…»
Calò un silenzio carico di tensione fra i due, e mentre Desmond con gli occhi cercava di spronare Elena a parlare, lei cominciò, così velocemente, come se fosse stata un fiume che esondava dagli argini.: «Oh, Des… Io non so cosa sia successo, ma due persone sono venute a chiedere di te, e io non sapevo chi fossero, e loro hanno parlato di cose che non conoscevo di te, di università, facoltà di lingue, dicevano di essere amici tuoi ma hanno sbagliato il tuo cognome…»
Desmond ebbe un sussulto «Aspetta… hanno sbagliato il mio cognome?»
«Si… ti hanno chiamato Desmond Miles… perché?»
 

 
La stanza non era particolarmente sofisticata: un armadio a due ante, una scrivania con sopra una tv da pochi pollici e un decoder digitale, due comodini con due abatjour ai lati dei due letti singoli, poi il bagno: specchio a parete con i due lavandini incastrati nel marmo, una vasca da bagno con la possibilità di chiudere il vetro e usarla come doccia, e ovviamente un water e un bidet. Era proprio dal bagno che usciva la ragazza portandosi dietro una nuvola di vapore come farebbe un cucciolo con la madre che ha una preda in bocca.
L’asciugamano bianco non impediva però a sottili ciocche di capelli scuri di ricaderle attorno al viso.
Una volta vista, Shaun tossicchiò mentre si rimetteva gli occhiali sul naso dopo averli puliti dal vapore, distogliendo lo sguardo dall’amica.
«Reb… capisco che tu non abbia il senso del pudore ma…» cominciò lui sempre più imbarazzato. L’accappatoio color latte le arrivava fino alle ginocchia lasciando scoperte le gambe magre e lucide, e la cintura in vita faceva notare che una trentotto, come taglia dei pantaloni, era anche larga. «potresti, come dire… vestirti?»
Rebecca gli si era piazzata davanti, in piedi di fronte a lui e lo ascoltava con un sopracciglio in su, mentre si lavava i denti; la sua espressione poteva essere un misto fra l’offesa e la sfida, tutto tranne che imbarazzo o disagio.
«Oh, Shaun… ci conosciamo da anni, abbiamo addirittura dormito insieme, siamo come fratelli in pratica… perché mai dovrei essere imbarazzata? A girare in accappatoio, poi!»
Shaun si arrese e si mise di nuovo a controllare fra mille foglietti e altrettante mille pagine aperte sulla schermata del computer, cosa gli fosse sfuggito di quella mail di spam, che tanto normale non era.
A partire dal file allegato che si presentava verso la metà del testo: conoscendo come verificare se quel file contenesse virus, Shaun, aveva constatato che nessuna delle estensioni usate solitamente per infettare un computer era compatibile con quel file: ABT.
Lo aveva aperto la prima volta e lo schermo era diventato immediatamente nero con vari disturbi e distorsioni, poi una serie di codici cadevano a cascata dalla sommità dello schermo.
Shaun era riuscito a decifrare una buona parte di quei codici, ma ancora gli mancava il lampo di genio e l’intuizione finale.
«Vogliamo parlare della pessima figura che abbiamo fatto oggi a casa di Desmond?» chiese sarcastica Rebecca infilandosi una maglietta a maniche corte color perla.
«È evidente che la sua ragazza non sa nulla del suo passato…» disse l’altro stendendosi sul letto.
«…e ora noi gli abbiamo messo una pulce nell’orecchio...» rimasero in silenzio, dispiaciuti dalla situazione. Fosse stato per loro avrebbero cercato di risolvere quel mistero da soli, ma il messaggio della mail era chiaro: “ho trovato il Soggetto 17”.
Ma quella frase aveva tutt’altro significato di quello che i due assassini credevano.
 
 
Desmond quasi si sentì cedere le gambe «cosa…?» chiese con un fil di voce, incredulo.
«Desmond, ti prego, dimmi cosa sta succedendo!» Elena era spaventata, non ci capiva più nulla, erano successe troppe cose strane quel giorno e la reazione del suo compagno non faceva eccezione.
Lui si girò, si passò le mani sul viso e cercò di fare mente locale della vita che si era inventato per non dire ad Elena la verità. Eppure più ripensava alle mille bugie dette, più non riusciva a venire a capo di quella situazione. Non aveva messo in conto che qualcuno di loro potesse tornare a cercarlo. Dopo cinque anni non si era fatto vivo nessuno né di una fazione né dell’altra perché molto probabilmente non era più importante come prima, perché molto probabilmente avevano trovato qualcuno con più risorse su cui investire il loro tempo, o molto semplicemente perché il suo ruolo era finito. Aveva salvato il mondo, dopotutto.
Proprio in quel momento flash di luoghi che non ricordava di aver mai visto gli si materializzarono negli occhi: acque cristalline con spiagge bianchissime e rovine maya, gocce di sangue cristallizzate, bunker sotterranei e macchinari ospedalieri.
Alla fine le sue gambe cedettero.
Cadde a terra inginocchiato, con la vista annebbiata e la testa che gli scoppiava, cercava di reprimere gli urli di dolore.
«Des!» urlò Elena chinandosi su di lui. Ma lui non rispondeva, continuava a vedere sprazzi di ricordi mai visti; ancora foreste, palafitte, animali selvatici, scale che conducevano a porte con accesso privato magnetizzato e riconoscimento vocale, barelle e bombole d’ossigeno. Giunone.
A quel punto Desmond urlò con tutto il fiato che aveva in corpo.
Poi tutto tacque.
Il respiro di Desmond tornò regolare.
Elena sembrava non respirare più, invece.
«Des…?» lo chiamò sottovoce, aveva paura a toccarlo, nel caso potesse avere un’altra crisi.
Lo aveva visto in quelle condizioni una sola volta, all’ospedale dove faceva la volontaria, dove l’aveva conosciuto.
Dopo qualche minuto, che sembrarono ore, Desmond si rimise in piedi, a fatica, tenendosi ai braccioli del divano.
«Elena… non devi più aprire a quelle persone.» la voce, pur essendo bassa e roca, era estremamente fredda e quasi cattiva.
Lei non ce la faceva più, da troppo tempo quel giorno tratteneva le lacrime.
«Desmond, io mi sono stancata! Tu non vuoi dirmi niente del tuo passato, arrivano dei tizi che chiedono di te chiamandoti con un altro nome, te ne parlo e tu hai una crisi, con allucinazioni, molto probabilmente ricordi che affiorano alla tua mente passivamente!» ricordava quelle parole quando il medico curante all’ospedale gliene aveva parlato in seguito a quanto era successo. «Quindi le tue possibilità sono due: o mi dici la verità, TUTTA la verità, o esci da questa casa!»
Elena piangeva a dirotto, le guance paonazze e il collo tirato, non voleva che se ne andasse, voleva solo che la persona che amava fosse sincera con lei quanto lei lo era con lui.
Desmond la guardava, non sapeva se ribadire il concetto di non investigare sul suo passato oppure se scusarsi e… di certo non dirle la verità, ma quanto meno tranquillizzarla.
«Elena, io…»
«No, sono stanca.» lei si asciugò il viso con la manica della maglietta «Non voglio le tue scuse.» concluse con un altro singhiozzo, mentre si girava e si dirigeva al piano superiore.
Desmond rimase in sala, e li ci restò per il resto del giorno e della notte.
 
Improvvisamente la luce invase i suoi occhi. Per qualche strano motivo aveva il fiato corto e quando si portò una mano sul petto sentì la maglietta nera madida di sudore.
Deglutì e cercò di ricordare quello che era successo. Si trovava in salotto, sul divano e la coperta scozzese addosso. Odiava quella coperta, pizzicava, ma era l’unica che potesse tenerlo un po’ al caldo durante la notte.
Si mise a sedere. Si sentiva come se avesse avuto un delirio durante la febbre alta, sudato, disperato, più stanco di prima.
Dalla cucina provenivano dei rumori, Elena era già sveglia, evidentemente.
Cosa doveva fare a quel punto?
Rimase seduto, sospirò, poi la chiamò la prima volta. Poi anche la seconda, e la terza.
«Elena, ti prego. Vieni di qua…» lei sbucò dall’arco a tutto sesto che separava la cucina dalla sala, mentre si asciugava le mani.
La sua espressione oltre che arrabbiata – anzi furiosa – era delusa, e si sa, la delusione è la peggior nemica della vita di coppia.
«Cosa c’è?» chiese incrociando le braccia sotto il seno, facendo un cenno con le sopracciglia come per dire “ho da fare, io”.
«Elena, dai, siediti…» lui forse era ancora più deluso di lei, deluso di se stesso, però. «Ascolta, perdonami… se non ti ho detto nulla, era perché non volevo coinvolgerti in qualcosa da cui poi potrei non riuscire a tirarti fuori…»
Elena non aveva dormito per niente quella notte, continuava a girarsi e rigirarsi nel letto nella vana speranza di trovare una spiegazione plausibile a tutta quella storia – o solo per cercare una posizione comoda per addormentarsi. «Quelle persone… ti hanno chiamato in quel modo, perché prima avevi quel cognome, giusto?»
Desmond assentì silenziosamente col capo. Non riusciva a guardarla negli occhi. Le aveva mentito, e continuava a mentirle finché non le avesse detto tutta la verità.
«Des… ascolta, io… non lo so…» cominciò lei. Effettivamente aveva pensato a qualche risposta, ma per quanto ne fosse convinta la notte precedente, ora le sembrava solo una stupidaggine «non lo so se è giusto, se sto dicendo una cavolata, ma… se quelle persone ti hanno cercato perché in passato hai avuto problemi di droga, sai che…»
Desmond si voltò di scatto verso di lei. Droga? Tutto poteva pensare, e lei pensava alla droga? «sai che mio padre potrebbe aiutarti, e…» lei continuava a parlare senza guardarlo in faccia, si anche lei si sentiva una stupida per aver pensato a quello.
«Elena, ho avuto milioni di problemi, ma la droga non rientra nella lista…» prima che potesse continuare la frase, il campanello suonò.
Il cuore di entrambi cominciò a battere velocemente, sapevano entrambi che sarebbero tornati per quanto cercavano di eliminare quella eventualità.
«El, vai di là in cucina, ci penso io, va bene?» le diede un bacio sulle labbra, facendole capire quanto la amava, e lei obbedì.
Quando aprì alla porta, le due figure sotto l’ombrello blu scuro lo salutarono e senza lasciargli il tempo di controbattere dissero: «Abbiamo qualcosa da mostrati, qualcuno ci chiede aiuto, ti chiede aiuto.»

  ~~

Ebbene sì, finalmente proprio quando sono in vacanza, senza internet, senza campo, senza tv perchè la casa in cui sto sembra essere una baracca delle favelas, l'ispirazione torna al suo posto. 
Questo è il ricordo forse più importante di tutta la sequenza genetica, infatti è anche il più lungo. Ho stimato che ci saranno altri due capitoli poi riprenderò con una nuova sequenza e si entrerà nel vivo della storia.
Se vi state chiedendo che fine abbia fatto Astrid, sappiate che il prossimo capitolo sarà su di lei, niente paura (;

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