Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |      
Autore: Dream_Dust    25/08/2014    1 recensioni
La sinistra vendetta di un uomo, che attraverso lo studio dell'anima, trascina lentamente e inesorabilmente il proprio paziente verso il baratro della follia...
«Per favore... la scongiuro… l-la prego…» non riusciva ad andare avanti, troppo scosso dalla richiesta che lui stesso stava per porgere. «La supplico…»
«Cosa ha intenzione di chiedermi di fare, Clyde?» Il tono di voce del dottore si fece di colpo più caldo, profondo, un invito serafico a proseguire.
Un brivido freddo e oscuro corse su per la spina dell’uomo, quando scosso dall'ennesimo fremito che lo fece agitare come sotto la potenza distruttiva di un terremoto, si apprestò a esalare in un sussurro strozzato : «…Mi uccida».
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Gioco di menti

Si udì bussare alla porta.
Il rumore risuonò per tutto l’ufficio, infrangendo il silenzio del luogo immerso nell’oscurità della notte. Soltanto la tenue luce di una lampada da scrivania rischiarava le tenebre.
Qualcuno si alzò dalla sedia. Rumore di passi, ritmici, leggeri.
Una pallida mano si posò sul pomello brillante d’ottone e con un movimento secco, aprì la porta che divideva il breve corridoio dallo studio immerso nel buio.
Oltre la soglia, un piccolo uomo rannicchiato su sé stesso mugolava suoni indescrivibili, simili a singhiozzi che somigliavano vagamente agli uggiolii di un cane impaurito; talvolta tirava su col naso.
L’uomo sollevò il capo lentamente. Tra le mani stringeva un cappello logoro e sgualcito che in quel momento sembrava il pupazzo di peluche che i bambini tengono con sé per tranquillizzarsi.
I suoi occhi chiari erano lucidi, invasi dalle lacrime, e gridavano una disperata richiesta d’aiuto.
Provò a dire qualcosa, ma le labbra gli tremarono, la lingua rimbalzò sul palato un paio di volte per poi giacere muta senza un singolo movimento.
Ancora all'interno dell’ufficio, oltre la sottile riga dorata che separava la moquette rossa dalle fredde piastrelle azzurre del corridoio, una figura se ne stava appoggiata con una mano allo stipite della porta; una maschera di fredda sicurezza simulava distante preoccupazione.
«Clyde. Ha bisogno di qualcosa?» Disse, con voce ferma.
Clyde mosse la testa in cenno affermativo, ed i radi capelli ramati si agitarono disordinatamente sul capo.
«Non ha un bell'aspetto. Prego, entri pure» l’altro si scostò dall'uscio, invitandolo con un ampio gesto del braccio.
Il visitatore chinò la testa, e puntando lo sguardo a terra farfugliò dei ringraziamenti.
L’uomo richiuse la porta alle sue spalle e seguì l’ospite fino a due comode poltrone foderate in pelle, poste l’una di fronte all'altra.
Entrambi si sedettero; Clyde raccolse le ginocchia e le portò al petto, cingendole con le braccia, mentre l’altro accavallò le gambe elegantemente, intrecciando le lunghe dita da pianista, e poggiò le mani in grembo.
Passarono alcuni minuti di silenzio, scanditi solo dall'incessante ticchettio delle lancette di un orologio.
La quiete venne poi infranta da dei nuovi singhiozzi.
«M-mi scusi, dottore. I-io… non sarei dovuto piombare qui da lei n-nel bel mezzo della notte…» Le sue parole vennero interrotte da altri singulti violenti che gli mozzarono il fiato in gola e lo fecero boccheggiare, mentre il suo corpo veniva scosso da fremiti incontrollati.
Si portò una mano agli occhi coprendoli con vergogna, ma le lacrime passarono fra le fessure cutanee e gocciolarono giù dal mento, riversandosi in una pioggia di piccole sfere perlacee sulla stoffa della camicia. Con l’altra mano invece si arpionò la spalla per interrompere i fremiti, invano. Piantò disperato le unghie nella carne fino a provare dolore, ma il suo corpo non smise di agitarsi.
«S-sono… t-terribilmente spiacente…» Fece una piccola pausa, asciugandosi il volto con il braccio, poi si guardò attorno. «Dottore… T-tutti questi scaffali pieni di libri, così alti, c-così imponenti… Sento che potrebbero crollare da un momento all'altro…» Il solo pensiero lo fece tremare più forte, provocandogli un immediato moto di paura incontrollata. «N-non voglio che crollino… C-ci seppellirebbero…» Farfugliò sgranando gli occhi e afferrandosi la testa fra le mani, rannicchiandosi come un bambino impaurito.
«Non accadrà nulla di tutto ciò, Clyde. Le sue paure sono infondate» la voce dell’uomo si impose sicura, tranquilla. «Si fidi di me».
«M-ma…»
«Ho mai tradito la sua fiducia, prima d’ora?»
«No…»
«Infatti. Adesso, se se la sente, potrebbe dirmi cosa è accaduto?» Domandò il dottore.
 I suoi profondi occhi neri trapassarono il paziente da parte a parte, scrutandolo con vaga curiosità professionale. Cercò di captare anche il più impercettibile spostamento dello sguardo o movimento dei muscoli facciali, tentò di intercettare i suoi pensieri.
Non fu affatto difficile; quella che aveva di fronte agli occhi, era l’ennesima anima tormentata dall'angoscia, pervasa dalle più strazianti emozioni umane. Il tutto amalgamato con un pizzico di follia accuratamente instillata.
Di certo non il primo caso che gli era capitato fra le mani.
Clyde scosse violentemente la testa, ancora compressa tra la stretta ferrea delle dita tozze.
«Io… Io non ce la faccio più!» Gridò, in preda alla totale disperazione «Non voglio più vedere quelle cose orribili, non voglio essere un nevrotico o soffrire di manie ossessivo - compulsive! Sono stanco…!»
Si alzò di scatto dalla poltrona, avventandosi contro il medico. Lo afferrò per il bavero della giacca e lo strattonò un paio di volte con irruenza. L’uomo lo lasciò fare, fissandolo dall'alto verso il basso, impassibile.
«Dottor Vandeett, mi aiuti, sto impazzendo!» Sbraitò ad appena pochi centimetri dal suo viso, investendolo con una forte zaffata di alito caldo che sapeva di alcool. «Sento… sento di star lentamente e inesorabilmente scivolando nella follia, ed è come un vortice che mi trascina giù, sempre più giù... Dottore, le giuro che io la sento, qui dentro» si picchiettò una tempia e la sua voce divenne un flebile sussurro quasi impercettibile, rauco. Alla tenue luce della lampada, il volto dell’uomo si tramutò in una grottesca maschera d’orrore. «Si sta impossessando di me, mi corrode dall'interno senza alcuna pietà come la bestia nera dei miei sogni. Dottore, è lei, è la follia, è la pazzia… Mi sta facendo diventare suo schiavo, mi ha incatenato con l’ansia e col terrore e adesso sta arrivando… sta arrivando a prendere ciò che resta di me, gli ultimi brandelli di ciò che una volta era la mia coscienza…»
Il dottore non si scompose, sostenendo algido lo sguardo febbrile del paziente «Clyde, adesso si calmi. So che per lei questa è una situazione difficile che può apparirle insormontabile, ma sono certo che continuando la terapia la sua situazione migliorerà».
«La terapia non mi sta aiutando affatto!» Gridò Clyde di rimando, stringendo la presa attorno ai lembi della giacca gessata dell’uomo, tanto che quello iniziò ad avvertire una spiacevole sensazione di soffocamento. «Il suo aiuto, ha solo rallentato il mio inevitabile destino, anzi, forse ha addirittura peggiorato le cose…»
«Le avevo consigliato di cercare un altro psicoterapeuta, se non sbaglio…» Le parole del dottor Vandeett colpirono nel segno perché Clyde gli diede un altro violento strattone, tanto che le sue nocche sbiancarono completamente e la stoffa della camicia minacciò di strapparsi.
«Lo so! Me lo ha detto, ma io mi sono rifiutato…»
«Perché si è rifiutato, Clyde?» Gli occhi dell’uomo si ridussero a due fessure d’ebano, percorse dal riflesso ambrato emanato dalla flebile luce della lampada.
«Perché… perché lei è il solo vero amico che ho» sussurrò con voce che nascondeva malcelato affetto, sentendo di essersi tolto un peso. Clyde allentò la presa, rilassando i tendini ormai doloranti. Fece scivolare le dita più in basso, fin sopra il petto dell’uomo e lì vi poggiò la fronte umidiccia. «Lei è l’unico di cui mi fidi davvero… l’unico a cui possa rivolgermi per cercare conforto e sicurezza, l’unico che mi sia rimasto accanto…»
Il dottore non disse nulla. Si limitò a rimanere immobile, osservando quella scena con freddo distacco.
«So che mi dice spesso, che tra medico e paziente è meglio non instaurare alcun rapporto di amicizia, però… Come posso non considerarla una persona a me cara?» I suoi occhi vennero invasi di nuovo dalle lacrime, che andarono a inzuppare gli abiti dell’uomo.
«Clyde… Le ho già spiegato che questo processo si chiama transfert  e…»
«Non mi interessa come diavolo si chiama!» Urlò l’altro, aggrappandosi disperatamente alla stoffa della giacca, come per paura che il suo proprietario potesse fuggire se non lo avesse trattenuto. «I-io, mi fido ciecamente di lei, ed è per questo… è per questo che le chiedo di farmi un enorme favore…» Lentamente, iniziò ad accasciarsi a terra. Nella sua discesa, non mollò per un istante la presa sull'uomo, giungendo infine a reggere tra le mani i risvolti dei suoi pantaloni. Clyde venne scosso da nuovi singhiozzi e poggiò vilmente il mento sul petto, senza il coraggio di guardare in faccia il suo psicoterapeuta.
«Per favore... la scongiuro… l-la prego…» non riusciva ad andare avanti, troppo scosso dalla richiesta che lui stesso stava per porgere. «La supplico…»
«Cosa ha intenzione di chiedermi di fare, Clyde?» Il tono di voce del dottore si fece di colpo più caldo, profondo, un invito serafico a proseguire.
Un brivido freddo e oscuro corse su per la spina dell’uomo, quando scosso dall'ennesimo fremito che lo fece agitare come sotto la potenza distruttiva di un terremoto, si apprestò a esalare in un sussurro strozzato : «…Mi uccida».
In quell'istante, il tempo nello studio si fermò. Tutto giacque sotto la sconvolgente gravità di quelle parole, sotto una singola espressione carica di una tale disperazione, una tale stanchezza… Le parole di un uomo che aveva perso tutto, al quale adesso non rimaneva che separarsi dalla cosa più cara che avesse mai posseduto: la vita.
Il silenzio pregno d’orrore, l’aria carica di tensione. Le ombre lunghe e sbilenche proiettate dagli oggetti ebbero un tremore, infrangendo per un effimero attimo la sicurezza del luogo avvolto dalle stesse tenebre che essi offrivano. Tra quelle quattro mura, dove nessuno poteva udirli, o poteva vederli, due uomini solitari stavano per decidere se infrangere il più grande dei tabù.
Un pianto. Un pianto familiare, percorso da sfumature infantili celate dalla voce matura, frantumò il clima cupo che lui stesso aveva generato. Stretto alle gambe del proprio medico, Clyde pianse lacrime amare, ardenti come lava.
Il dottor Vandeett non lo guardò, non lo toccò o tanto meno cercò di consolarlo.
Solo dopo pochi istanti, un sorriso largo, malsano e soddisfatto, perturbò il suo volto come uno squarcio grondante di sangue.
Finalmente, le parole che attendeva di poter udire da una vita erano giunte. E chi era lui per poter negare al suo benamato paziente questo favore?
Una gioia immane lo pervase, come una scossa rigenerante. Il suo sorriso si allargò, divenne un ghigno, un ghigno pazzo di felicità, vittorioso.
Finalmente, finalmente aveva raggiunto il suo obbiettivo ultimo, il suo scopo finale. Ogni singolo sacrificio che aveva compiuto, ogni singola azione scellerata lo aveva portato a quell'istante, a quel solo singolo istante tormento di tutti i suoi incubi e sogni.
L’apice della sua dolce e lenta vendetta.
 
«Mio caro Arthur, sappiamo entrambi che la nostra è una conversazione a senso unico, non è vero?»
Un uomo seduto comodamente nella sua poltrone girevole, prese un’altra generosa boccata del suo sigaro – rigorosamente di marca cubana e importato su richiesta – e soffiò il fumo direttamente negli occhi del giovane situato oltre la scrivania di vetro che gli separava. Quello tossì copiosamente e si passò una mano sugli occhi divenuti lucidi e rossi.
L’uomo ridacchiò, tenendo il sigaro stretto tra due dita, osservando il fumo salire verso l’alto in spirali che delineavano disegni perfetti.
«La prego, signor Morgan…» riuscì a dire il giovane dopo qualche istante, interrotto da diversi colpi di tosse «I-io ho bisogno di questo lavoro». I suoi occhi d’inchiostro si illuminarono di una scintilla supplichevole, grandi e profondi come pozzi scuri.
Il signor Morgan inspirò a fondo e sbuffò il fumo grigiastro dalle narici, somigliando in  parte a una sorta di demonio dall'espressione beffarda.
«Arthur, Arthur, Arthur… Giovane amico mio. Questo, è il momento che lei capisca che al mondo esistono solo due tipi di uomini; ci sono quelli che rimangono al proprio posto per tutta la vita, nascosti nella mediocrità della loro esistenza senza azzardarsi a far nulla per cambiare la propria condizione. Questi, mio caro, io li chiamo codardi, falliti». Si sporse appena in avanti e scandì le parole con lentezza, dando modo al giovane di leggergliele sulle labbra.
Arthur deglutì silenziosamente, avvertendo gocce di sudore, fredde e pungenti imperlargli la fronte.
«E poi ci sono quegli uomini», il signor Morgan smise di sporgersi dalla scrivania, abbandonandosi con fare rilassato sulla poltrona «che per ottenere ciò che vogliono sono disposti a lottare e fare sacrifici. Sono disposti a tutto, persino a calpestare la faccia di qualcun altro, se necessario». Fece una pausa, portandosi il sigaro alla bocca in un gesto ampio e fluido, gustando a fondo il sapore di tabacco.
«Quest’altri, mio caro Arthur, io gli chiamo vincenti, uomini con le palle. Le è chiaro il concetto?»
Il giovane annuì timidamente, allargando con due dita il colletto della camicia,sentendosi pervaso da una sensazione di soffocante calore e completamente in preda al nervosismo.
«Bene, lieto di essermi fatto intendere» Morgan sorrise, compiaciuto «Perciò a questo punto, penso che lei abbia intuito a quale categoria appartengo io, e a quale appartiene lei». L’uomo puntò il sigaro contro  Arthur con nonchalance, non rivolgendogli neanche lo sguardo.
Il giovane abbassò il capo, posando lo sguardo verso i pugni stretti sopra le cosce. Tutto ciò non stava realmente accadendo, non poteva star accadendo.
Lui, la sua famiglia. Sua moglie, le sue bambine. Avevano bisogno di quel lavoro. Cosa ne sarebbe stato di loro, di lui, altrimenti?
Represse  velocemente quei pensieri, non osando nemmeno immaginarsi una risposta che di certo, lo sapeva, gli avrebbe straziato il cuore.
Si decise a fare un ultimo disperato tentativo. Non poteva permettersi di fallire, non poteva…
Con un groppo alla  gola, si inumidì le labbra e prese un profondo respiro, consapevole che dall'esito delle parole di quell'uomo, sarebbe dipeso il loro futuro.
"Non posso essere cacciato, non posso…"
«Signor Morgan, la prego di ascoltarmi. So che la sua industria di recente ha subito un calo dei guadagni, e lei non dispone di sufficiente denaro per pagare tutti i lavoratori, ma non capisco il motivo per cui debba licenziare proprio me. Ho prestato servizio alla sua impresa per cinque lunghi anni, sono sempre stato un buon impiegato, ho lavorato sodo, ho fatto tutti gli straordinari che mi ha chiesto, notte dopo notte, giorno dopo giorno. Mi sono sempre spaccato la schiena per lei, le sono sempre rimasto fedele, non mi sono mai lamentato, anche quando il mio stipendio si riduceva a meno di cento dollari al mese. Non mi sono mai  venuto a lamentare da lei, mai. Ma in questo caso devo farlo… Per questo non può licenziarmi, signor Morgan. Non può». Arthur si alzò dalla sedia e puntò gli occhi ardenti di passione in quelli freddi e annoiati del suo capo. «Io… Ho una famiglia».
 
«Clyde, lei si rende conto della gravità di ciò che mi sta chiedendo di fare? Lei… ha una famiglia».
«La mia famiglia se ne è andata! Mi ha abbandonato come tutti gli altri. Era troppo spaventata, troppo terrorizzata dal cambiamento che stava avvenendo dentro di me. Io ricordo come mi guardavano, e oh, le posso assicurare che i loro occhi non traboccavano affatto di amore». Clyde strinse le labbra con forza e lanciò uno sguardo carico d'ira verso il proprio dottore. «L'unica cosa che ho visto nei loro occhi… era il più totale disgusto. Capisce? Non riuscivano neanche a guardarmi in faccia!»
«Questo, dopo che lei ha tramortito suo figlio e cercato di uccidere sua moglie. Può biasimarli?» Disse l'uomo, con una sorta di dolce spietatezza.
Clyde digrignò i denti, sentendoli stridere tra di loro. «No… non posso. Sono un mostro…»
«Lei non è un mostro Clyde, è solo un uomo che ha bisogno di aiuto. Ed io… » Il medico si piegò verso il basso, posando una mano sopra la spalla del paziente, facendolo sobbalzare.  «…Sono disposto a offrirglielo». Sussurrò al suo orecchio, con voce melliflua e profonda.
"Vecchio mio, ti seguirò fino all'ultimo passo del tuo cammino attraverso l'inferno. Non ti ho mai abbandonato, d'altronde; sicuramente non lo farò proprio ora. Attendi in mia compagnia che giunga il tuo momento. La notte è lunga, non c'è fretta…"
 
Il signor Morgan se ne stette qualche istante in silenzio a guardare il proprio sottoposto, vagamente irritato.
Diede qualche colpetto al sigaro facendo cadere una pioggia di cenere, poi lo portò alle labbra  «Arthur, non dica di aver capito se poi deve rendermi partecipe di queste fastidiose manifestazioni di insubordinazione».
Con queste poche parole, l'uomo riuscì a ridurre il giovane al silenzio, facendo sfumurare davanti ai suoi occhi anche il più piccolo rimasuglio di speranza covato nel cuore.
Arthur tornò a sedersi lentamente, con lo sguardo vacuo e la bocca semi aperta, incredulo.
Era finita. Aveva perso tutto.
«La sto licenziando signor Smith, guardi in faccia la realtà e la smetta di fare il bambino. Dio, lei è così ingenuo. Veramente patetico».
Arthur sentì gli occhi pizzicare
«Non c'è posto per quelli come lei, in questa azienda. Sono tempi difficili per tutti, e soli i migliori sopravvivono. Come si dice, pesce grosso mangia pesce piccolo, no?»  Il signor Morgan mandò il capo all'indietro, ridendo di gusto «Ebbene, adesso io la voglio fuori dal mio laghetto, mi ha capito bene? Se ne vada». Terminò, con il volto duro e crudele di colui che non ammetteva repliche.
Arthur annuì piano, come un automa, e con una lentezza inaudita si alzò dalla sedia, diretto verso l'uscita.
«Non se la prenda Arthur, non è niente di personale. Anzi, guardi il lato positivo, adesso avrà più tempo da passare assieme alla famiglia che tanto ama». Lo schernì a gran voce.
Ma le parole giunsero al giovane ovattate e lontane, come in sogno. Senza accennare a voltarsi, Arthur posò la mano sul pomello, che in quel momento gli parve freddo come la prima neve d'inverno.
Uscì, chiudendo la porta alle spalle. Chiuse dietro di sé per sempre la sua carriera, lo stancante lavoro di una vita. L'ancora di salvezza che fino a quel momento aveva tenuto lontana la sua famiglia dalla rovina.
Arthur tirò su col naso, lasciando che due lacrime solitarie gli solcassero le guance. Adesso, cosa avrebbe fatto?
 
«L'unico modo in cui può aiutarmi dottore… è fare quello che le ho chiesto. La prego...» mugolò Clyde, in ginocchio sull'elegante tappeto ricamato con disegni di complicati ghirigori.
«Uccidere un altro essere umano è un gesto che può lasciare molte turbe psichiche, che alcuni non riescono a superare. Purtroppo sono costretti a conviverci» rispose Vandeett in maniera professionale, fissando un punto indefinito della parete  «Perché non vuole togliersi la vita lei stesso, Clyde?»
A quella domanda, l’uomo nascose il volto tra le mani «Ci ho provato! I-io non ci riesco... non ci riesco...»
«Perché non ci riesce, Clyde? Ha paura di morire? Questo risulta un controsenso, ai miei occhi. O forse, non possiede il coraggio necessario?»
L’uomo rimase in silenzio per un po’. Alla fine, giunse una risposta strozzata «Sono un codardo, non sono neanche in grado di fare una cosa così semplice...»
«Suicidarsi non è semplice, Clyde» lo interruppe l’altro «In molti casi, togliersi la vita risulta l’opzione finale, l’assoluzione a tutti i tormenti, ma io sostengo, che non ci sia cosa peggiore che morire con dei rimpianti. Lei ha dei rimpianti, Clyde?» Domandò.
L’uomo scoprì il volto dalle mani, gli occhi grandi e terrorizzati come quelli di un bambino. «Sì» disse infine «Ho dei rimpianti…»
«Be’, allora credo sia proprio il caso che lei ne discuta con me, se lo desidera. Una chiacchierata con un amico alleggerisce l’anima». Il dottore accennò un sorriso.
«Rimpiango… di non aver passato abbastanza tempo con i miei cari. E adesso loro mi hanno abbandonato per sempre».
Uno sprazzo di malinconia baluginò per un istante sul volto imperturbabile del dottore «Già. Anche io ho perso la mia famiglia. Ma in fondo, che senso ha annegare nei ricordi del  passato quando possiamo pensare al futuro? Siamo vivi, questo non basta a riempirci di gioia?»

Solo dopo pochi giorni che ebbe perso il lavoro, non mancò molto perché ad Arthur e alla sua famiglia venisse portata via la casa, non avendo terminato di pagare l’affitto.

Degli uomini dall'aspetto burbero e tarchiato erano venuti a ripulire completamente l’interno, portando via mobili, elettrodomestici e altri oggetti di diverso valore. L’unica cosa che erano riusciti a salvare, erano stati varie fotografie dei felici giorni passati e i alcuni giocattoli delle bambine. Tutto il resto, era andato perduto.
«Papà, ma quand'è che potremo tornare a casa nostra?» Domandò la piccola Evangeline, la manina rosea stretta forte attorno a quella di suo padre. «Quei signori non possono dormire in un altro posto?»
Arthur ridacchiò «Tesoro te l’ho detto, tra non molto ci ridaranno casa nostra. Così potrò tornare a leggere a te e a tua sorella tutte le sere le fiabe della buona notte, ti piacciono no?»
«Oh, sì! Mi piacciono un sacco. Meno male tra poco se ne vanno, altrimenti il mostro del termosifone potrebbe mangiarli!» Esclamò la bambina, allarmata.
«Sono sicuro che il mostro del termosifone non farà loro nulla di male».
Evangeline aveva iniziato a credere che all'interno del termosifone fosse nascosto un mostro da quando una sera la caldaia si era guastata, iniziando a fare fischiare ogni termosifone di casa.
La bambina si esibì in un sospiro di sollievo, affiancando poi la sorellina rimasta indietro.
«Clary dai muoviti, che se non stai al passo ti perdi e non potrai raggiungere assieme a noi il grande hotel! Papà dice che ci sono almeno un centinaio di stanze, forse anche di più e in ognuna c’è un letto soffice e morbido su cui poter saltare. E poi ti portano tutti i giorni almeno due servizi in camera a base di dolci» Evangeline si passò la lingua sulle labbra, con fare sognante «Non vedo l’ora di raggiungerlo. Anche se ho freddo e la neve birichina entra da tutte le parti, io non mollerò!» La bambina aveva un temperamento focoso, tutto l’opposto dell’atteggiamento timido e silenzioso della più piccola.
Clary strizzò un paio di volte i grandi occhioni castani, incantata dalle parole della più grande. «Davvero si può saltare sui letti?» Domandò in un sussurrò quasi inudibile.
«Certo!» Rispose emozionata Evangeline «Lo ha detto papà. Non è vero, papà?»
Arthur si voltò verso di loro «Certo che è vero! Altrimenti non mi chiamo più Arthur J. Smith!» Esclamò allegro, puntando un dito verso il cielo.
Entrambe le bambine scoppiarono a ridere, e il giovane sentì che le loro risate lo riscaldavano più di quanto avesse mai potuto fare una qualsiasi stufa elettrica.
In cuor suo però, sapeva che non potevano proseguire così.
L’inverno imperversava, e il freddo pungente di gennaio si era fatto spietato. Il vento del nord ruggiva inquieto, lacerando con le sue zanne di gelo i cappotti poco più che primaverili di cui i quattro erano forniti.
Ogni notte, erano costretti a dormire per strada e la mattina presto si alzavano alla continua ricerca di un rifugio sicuro dove dormire e poter rifocillarsi. Peccato che molti dei rifugi per senza tetto, erano già pieni e nessuno era desideroso di aiutare una famiglia intera.
Non passò molto tempo perché la moglie di Arthur, Sofia, si ammalasse gravemente.
Ogni giorno, lui e le bambine andavano alla ricerca di un po’ di cibo generosamente offerto da qualche anima misericordiosa e chiedevano di casa in casa, di persona in persona, qualche coperta, qualche panno o anche qualche giacchetta per tenerla al caldo.
«Non temere, troveremo qualcuno che possa aiutarti. Nel frattempo, ci prenderemo cura noi di te» le aveva detto una notte Arthur, stringendole la mano snella con forza. «Non mollare, tu sei forte, lo so. Sei forte…»
Sofia lo aveva guardato con dolcezza, alla luce tenue di un lampione. I suoi capelli biondi come fili d’oro non rilucevano più dello stesso splendore di un tempo. «Arthur, ti ringrazio, per tutto. Prenditi sempre cura di Evangeline e Clary, non abbandonarle mai. Avranno bisogno del loro papà…»
«Sofia, perché stai parlando come se tu… come se tu…» La sua voce si incrinò, e la sua gola vibrò, percorsa da un fremito. «No, Sofia, amore. Guardami, ti prego guardami» Arthur afferrò il volto della moglie tra le mani, disperato. Lei le rivolse un sorriso candido, seppur debole. «Non devi preoccuparti per me. Me ne vado senza rimpianti. Ho avuto una bella vita, con un fantastico marito e due splendide figlie. Cosa avrei potuto desiderare di più?»
«No Sofia, tu non puoi andartene! Non posso farcela senza di te, io non…»
Sofia interruppe le sue parole con un bacio. Le loro labbra premettero forte l’una contro l’ altra e le loro lingue si intrecciarono in un abbraccio d’addio.
Sofia si ritrasse, tornando con il capo poggiato a terra «Ehi, io mi fido di te. Non mi deluderai, ok? Ti amo…» La donna gli rivolse un ultimo sguardo, carico di dolce tenerezza, di speranza.
Arthur non si sarebbe mai dimenticato di quello sguardo, di quella notte. Il giorno, in cui perse la sua amata per sempre.
Solo il giorno seguente, decise di dare le figlie in affidamento. Dire loro addio, fu la cosa più straziante che avesse mai provato. Udire le loro voci che lo pregavano di non andarsene, fu come essere trafitto da un centinaio di lance avvelenate, dritte nell’anima.
Ma in fondo sapeva, che quella era la cosa più giusta da fare. Lo aveva promesso a Sofia, non voleva deluderla, non lei.
La settimana che seguì, fu l’inferno. Si sentiva svuotato, solo, depresso.
Fu solo quando, un dì di pioggia, capì. Capì ciò che era successo, ciò che aveva fatto in modo che accadesse tutto questo. Capì cosa, o meglio, chi.
La sua rovina, aveva un nome, aveva un volto. E l’anima nera di un dannato.
Clyde Morgan.
Lui lo aveva cacciato senza pietà, lui aveva fatto in modo che gli fosse stata portata via la casa, la dignità, la famiglia. Lui era la causa di tutti i suoi mali, era lui la piaga malefica che aveva distrutto la sua esistenza.
Ebbene, se adesso quella vita era stata fatta a pezzi, se ne sarebbe creata una nuova. La pioggia avrebbe cancellato il suo passato, lavandolo via da ogni traccia di misericordia.
Gli era stato detto che in quella società non c’era posto per quelli come lui…
Be’, adesso, aveva appreso la regola.
Da quel giorno, non vide più il buono del mondo, solo il marcio. Il marcio  insito nell’essenza di ogni persona. E oh, sfortunatamente, il mondo ne era gravemente afflitto.
La sua nuova vita, la sua nuova esistenza, sarebbe stata votata ad un unico singolo scopo.
Vendetta.
E la sua avrebbe avuto un nuovo nome: Johann A. Vandeett.
 
Nel suo studio il dottore sorrise, riconducendo con la mente il percorso che lo aveva portato a quell’ istante. Fortunatamente, il suo vecchio diploma in psicologia gli era tornato utile. Altrimenti, come avrebbe fatto a giungere al caro vecchio Clyde?
Era arrivato a conoscenza,  che il  poveretto soffriva di allucinazioni  in seguito a un tumore al cervello, e aveva sfruttato la cosa a suo favore. Un paio di sedute, e lo aveva già condotto alla pazzia. Lo aveva privato dei farmaci entrando in combutta con il suo psichiatra, fino a privarlo di ogni cosa a cui teneva di più, esattamente come aveva fatto con lui. Il lavoro, la famiglia… la coscienza.
Adesso, lo guardò piangersi addosso inginocchiato sul pavimento del suo studio, così debole, così inerte, e ne gioì. Voleva la morte, e chi era lui per negargliela?
Il dottore si avvicinò all’orecchio del paziente, tanto da sfiorarglielo con le labbra «D’accordo, Clyde, come tuo medico e fidato amico, voglio farti questo favore. Prima però, devi sapere una cosa…»
Johann si alzò e si diresse verso la scrivania, aprì un cassetto e impugnò un pugnale. Finalmente, il momento che aspettava da una vita, era giunto…
Si piazzò alle sue spalle e alzò il pugnale sopra la testa. L’arma mandò sinistri bagliori metallici nella semi oscurità.
«A-R-T-H-U-R. Questo è il mio nome. Buona Epifania, signor Morgan».
Abbassò entrambe le mani verso la sua schiena.
Poi, tutto si tinse di rosso.
  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: Dream_Dust