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Autore: ki_ra    27/08/2014    4 recensioni
In un punto imprecisato del tempo, in un luogo qualunque del mondo, due anime lontane incrociano le proprie vite.
Sangue e nome, rispettabilità e disonore, tradimento e amore li spingeranno l’una verso l’altra.
Mentre un mondo vecchio e superficiale si dibatte per continuare ad esistere, un amore nuovo nasce e sconvolge anime e cose.
Genere: Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
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. 20 .

Il fiume dell’ira

 

Le settimane che erano seguite alla partenza di Eìos per la provincia di Agharr le avevano insegnato cosa fosse la mancanza!
Nonostante avesse fatto di tutto per impegnare ogni momento della giornata con diverse occupazioni, l’assenza di lui le era apparsa concreta e tangibile, come una lettera di inchiostro impregnata nella trama di una pergamena.
Non era una sensazione, un sentimento; era, piuttosto, un malessere sottile al centro dello stomaco; una vertigine vacua che appariva improvvisa e intermittente in mezzo alle faccende che le occupavano mani e mente, lasciandola così sospesa e col fiato corto dell’attesa.
Aveva trascorso la maggior parte delle giornate in giardino, accudendolo come fosse un bimbo bisognoso di cure e affetto; con le mani alacri nella terra umida, ne aveva ripristinato l’assetto ordinato cui, ella stessa, aveva lavorato, all’indomani del matrimonio, fino al giorno della tempesta, la notte precedente la partenza di Eìos.
Aveva addolcito il camminamento tra il ferruginoso cancello e la porta di ingresso con due ali rigogliose di ortensie dai colori intensi dell’azzurro, del blu e del viola fusi tra loro, quasi il pigmento delle globose infiorescenze si fosse sciolto, come un acquerello sotto le gocce di pioggia. Aveva moltiplicato i piccoli vasi di coccio sui davanzali, lasciando, come solo confine, tra il giardino e le stanze, il vetro sottile delle ampie finestre. Aveva sospeso sui rami più alti casette di legno per i passeri, nelle quali lasciava il becchime per attirarli e distogliere il loro interesse dalle sementi e dai frutti che aveva piantato nel piccolo orto vicino. Il rosso dei pomodorini tondi e maturi, il verde variegato delle piantine timide che crescevano tra i solchi ben delineati nel terreno erano testimoni allegri e promettenti dell’attenzione feconda che ella vi aveva profuso.
Le piaceva sporcarsi le mani di terra, al contrario di tutte le signore della sua estrazione sociale, che mai avrebbero rischiato di rovinarsi la pelle e le unghie; le dava una sensazione di armonia vitale con la natura, la riconciliava con il mondo, infondendole, anche in quel frangente fastidioso dell’assenza del proprio sposo, la calma e la pazienza necessarie ad attendere il suo ritorno.
- Dov’è? – sentì chiedere con voce ruvida di fiamma rabbiosa. - Il tuo padrone, dov’è? – insistette, alzando il tono perentorio.
- Il padrone … - mormorò Alvita, chiaramente turbata, - Il padrone è fuori città, signore. – spiegò.
Ariela, assorta nei propri pensieri e intenta nella cura del giardino, non si era accorta che la campanella sospesa fuori dal cancello avesse suonato freneticamente, come le campane della chiesa che annunciano alla città un pericolo imminente. Aveva udito soltanto quella voce così contraffatta e affannosa, da non riconoscerne il proprietario.
Ripose le cesoie nel piccolo cesto di vimini, nel quale aveva raccolto rose canine e rami profumati di menta selvatica; si sollevò, sciogliendo il fiocco del grembiale bianco, indossato sull’abito; pulì le mani e si avviò verso il cancello.
Miran era lì, le mani aggrappate all’inferriata, come un prigioniero che pretende la liberazione, gli occhi chiari infangati da una rabbia tumultuosa e la bocca tirata, a scoprire i denti bianchi come quelli di una fiera.
Non l’aveva mai veduto così, preda dell’ira: di lui, fin dal giorno in cui aveva fatto visita a sua madre per chiedere la mano di Nubia, aveva ammirato la gentilezza e la mitezza del vero gentiluomo; il sorriso affabile, aperto dell’uomo sincero; la pacata inflessione della voce e il riverbero della sua anima attraverso gli occhi chiari. Vederlo alterato, il viso inficiato di rabbia violenta, le nocche delle dita deformate dalla stretta sulle sbarre del cancello, le minò il respiro; la intimorì e, al contempo, le provocò un senso di pietà e di dolore per quella metamorfosi.
- Bugiarda! – insistette, convinto che la risposta della cameriera fosse solo un temporeggiamento.
Ariela dominò la paura che sentiva rimbalzarle nel petto, regolarizzò il respiro acceso e si avvicinò, le spalle sicure, lo sguardo dritto verso la minaccia e affidandosi alla Vergine Celeste perché la sorreggesse, intervenne.
- Non mente. – disse con una voce che non sembrava uscire dalla propria bocca, tanto era ferma e determinata, - Eìos è in viaggio per faccende di famiglia e non tornerà che tra qualche giorno. – continuò, avvicinandosi alla servetta spaurita, che tormentava le cocche del grembiule. – Alvita … - le si rivolse guardandola rassicurante, - … apri il cancello al signore. –
Ella, con gli occhi stralunati, obbedì, ma, solo quando Miran superò la soglia e le fu di fronte a pochi passi, Ariela scorse il calcio d’avorio della pistola, spuntare dalla cintola dei calzoni, e tremò.
Raccolse il poco sangue freddo che sapeva di possedere, le mani strette a sollevare le vesti, perché non intralciassero il suo già precario incedere, e si avvicinò al cognato.
- Perché chiedi di mio marito con tanta malagrazia, Miran? – lo interrogò.
- Non è affare che ti riguarda … - rispose con la voce ancora corrotta.
- Sei in errore. – lo corresse, - Ciò che riguarda Eìos, riguarda me! Dunque, perché chiedi di mio marito? – ripeté con la sua usuale grazia, ma con tono perentorio e insistente.
- Per ucciderlo! – rispose freddo, con la voce compassata, quasi fosse un sicario avvezzo a portare la morte.
- Santa Vergine! – esclamò Alvita, portandosi entrambe le mani a coprire la bocca spalancata.
- Cosa dici? - esalò Arsela, un filo di voce quasi impercettibile, - Perché? – mormorò sbandata, pur conoscendo, in cuor suo, il motivo di tanta rabbia.
- Sapevi che è stato l’amante di Nubia? Sapevi che quel bastardo si è preso la sua carne, prima che ella la concedesse a me, suo sposo? – incalzò, il viso paonazzo e le mani tanto strette a pugno, da sbiancarne le nocche. - E sapevi che, per nascondere il proprio rivoltante misfatto, si è preso finanche il mio nome? – terminò, con il respiro corto ad un palmo da lei.
- Miran … - sembrò volersi scusare dell’inganno che anch’ella, seppur nolente, aveva perpetrato.
- Dunque, sapevi … - mormorò, deluso e amareggiato, più a sé stesso che alla sua interlocutrice.  - Anche tu, come mia madre, sapevi e hai taciuto! Come lei, mi hai ingannato … - continuò, di nuovo la voce alterata dalla rabbia che lo bruciava ogni qual volta il tradimento gli ricompariva nella mente.
- Per il tuo bene … fu solo per il tuo bene. – provò a rabbonirlo.
- Quale bene? Quale bene nasce dalla menzogna, dannazione? Vi siete arrogate il diritto di proteggermi dalla verità, come si fa con un bimbo fragile, e a lui avete permesso di prendere ogni cosa: il ventre della mia donna, la mia dignità, il mio nome, il mio orgoglio e la mia sanità mentale … - l’accusò, le lacrime ad invadergli gli occhi celesti, le labbra segnate dallo sconforto e una voce tremula proprio come un bambino che ha scoperto l’inganno della vita. – Ma giuro che lo ucciderò, con le mani nude, con una pallottola nel cranio o con una lama affilata nel cuore. Lo ucciderò, giacché, se l’inferno in terra è ciò a cui sono destinato, giuro che conquisterò lo stesso diritto anche per la mia anima, dopo la morte. –
- E’ tuo fratello, Miran … - ribatté, come se quel sangue che scorreva nelle vene di entrambi fosse sufficiente a distoglierlo dal suo intento omicida.
Miran rise beffardo: - Il sangue non basta! – citò le parole dello stesso Eìos che lo avevano deluso, quel giorno nel proprio studio, e che mai come in quel frangente gli sembrarono premonitrici.
- Egli non ha colpa alcuna per quanto è accaduto: quando conobbe Nubia, ella non era ancora tua promessa - cercò di giustificarlo. – Partì per un viaggio con l’intenzione di sposarla una volta tornato, ma la trovò già tua. -
- Meschino! - commentò sarcastico, - Dunque, molestato per l’ennesima volta dalla sorte, ingoiò tutti gli amorevoli propositi, la lealtà fraterna, l’onesta che lo aveva sempre distinto e si rivalse ricattando mia madre perché lo riconoscesse come figlio di Esem e costrinse te a sposarlo, in cambio del proprio silenzio? – insistette.
- No … Per l’amor di Dio, cerca di comprendere, Miran: egli era furioso per essere stato ancora una volta beffato dal destino; era deluso dall’inganno di Nubia, che aveva barattato il suo amore per un futuro più solido e conveniente, sposando proprio quel fratello il cui rispetto aveva inseguito per una vita; e fu la rabbia a guidarlo nel ricatto scellerato a tua madre. – spiegò, puntuale. - E, per ciò che riguarda me, non fu una costrizione il mio matrimonio con lui, fu una mia libera scelta! – gli assicurò, con voce calma e senza incertezze.
- Una tua scelta? Legare la tua vita a quella di un bastardo traditore, figlio di una cagna? – chiese retorico, con un risolino denigratore.
- Non mancargli di rispetto. – lo ammonì severa.
Miran rise sguaiatamente, come si ride delle parole di uno sciocco, poi guardandola dritta negli occhi, le ricordò: - Il rispetto si guadagna …  -
Le voltò le spalle, senza aspettare la sua risposta, aprì il cancello, che cigolò sinistro, quale presagio di sventura e morte, e quando ne ebbe superato la soglia, ancora di schiena, terminò: - Digli che tornerò e che non si nasconda né dietro le tue gonne, né in un qualunque anfratto del mondo, giacché non avrò pace fino al giorno in cui gli toglierò la vita! –

**********

Per mesi avevano nascosto la verità.
Come contadini che accumulano vanamente, lungo gli argini dei fiumi, sacchi di sabbia, perché la piena non inondi i campi coltivati, così avevano cercato scioccamente di contenere la verità per preservare la stabilità di tante esistenze che però si fondavano sulla sabbia molle delle menzogne e dei sotterfugi. Ciò che Ariela aveva scongiurato, dal giorno dell’arrivo di Eìos alla tenuta, era risalito in superficie, travolgendo ogni cosa sul proprio cammino, come proprio i torrenti ingrossati dalla pioggia.
Avevano mentito, tutti, per il bene di ciascuno, ma la menzogna è un cancro: consuma, come un ratto che rosicchia ogni cosa per limarsi i denti, fino a che non rimane altro che polvere e polvere.
Le lacrime si presero tutti i suoi occhi, lo sconforto le fece tremare i polsi. Si accasciò sull’ottomana di broccato verde, sulla quale aveva trascorso con lui, serena e innamorata, tutti i suoi pomeriggi estivi e si sentì svuotata, derubata, la dimora violata dai ladri, di quella esistenza che le era sembrata cucita su misura per loro. Un nodo spigoloso le salì per la gola, impedendole di deglutire e di proferire parola, così la sua mente e il cuore all’unisono dedicarono al cielo la propria preghiera devota e silenziosa.
Pregò ché Eìos non tornasse; sperò finanche che altra carne si prendesse i suoi sensi, pur di scongiurare il dolore ancora più potente, per la propria anima, di vederlo morto per mano del proprio fratello o assassino dello stesso.
- Signora?  - la riscosse Alvita dai propri pensieri, dopo aver richiuso il cancello e avvicinandosi a lei.
Ariela trasalì a quella voce, seppure sommessa e preoccupata; la guardò vacua, come se anche gli occhi, oltre che la mente, fossero impegnati altrove.
- Non abbiate paura, signora. – sussurrò, come a rassicurarla.
Ariela sorrise, grata, sollevata dallo sconforto, quasi un angelo le avesse parlato per bocca di quella ragazzina e si affidò alla misericordia di Dio riservata ai giusti, invocò il perdono per i peccati suoi e del suo sposo, e si sentì infusa di una forza nuova, disperata e potente, che la spinse a reagire.
- Fa preparare il calesse, Alvita, e corri dal dottor Elmisk. Raccontagli di Miran; delle sue intenzioni. Digli che è necessario avvisare Eìos, perché non ritorni in città, almeno fino a che la sua furia omicida non sarà placata e infine chiedigli di venire qui … da me. -  le ordinò, risollevandosi.
La ragazza annuì e, come un grillo, scattò veloce verso le scuderie, gridando a gran voce il nome dello stalliere, affinché il calesse fosse pronto nel minor tempo possibile.
Se quella, dunque, era la prova, a cui la vita beffarda la sottoponeva, l’avrebbe affrontata, forte, determinata, sicura, come la donna nuova che Eìos aveva fatto nascere. Avrebbe difeso la parte di sé che abitava il cuore di lui, sprezzante, come fanno gli animali con i propri cuccioli. Avrebbe abbandonato ogni cosa, se necessario: la sua amata madre; quella casa che l’aveva vista nuda, anima e carne; gli abiti e i gioielli; il denaro ed il nome, e avrebbe vissuto di niente, pur di poterlo amare ancora, pur di essere amata.

***********

Il cervello gli bruciava, arrovellato dalla scoperta infame che aveva fatto.
Anche la pelle bruciava, quasi gli abiti avessero preso fuoco, come quando ci si avvicina troppo ad un camino per scaldarsi e, inavvertitamente, la fiamma pericolosa ne lambisce il tessuto.
Quando, senza alcun preavviso, aveva deciso di tornare in città per farle una sorpresa, aveva immaginato la sua sposa bellissima corrergli incontro, stringerlo in un abbraccio caldo, il suo sorriso civettuolo illuminarle gli occhi e la bocca riempirlo di baci.
Amava Nubia totalmente: anche quelle piccole punte del suo carattere, che per altri erano difetti, lo coinvolgevano e lo ammaliavano, facendogli perdere il lume della ragione.
Adorava il suo corpo, che aveva immaginato più volte, durante il fidanzamento: il turgore dei seni, fasciati dal corpetto; attraverso le vesti di seta, i fianchi dalle movenze sinuose, come quelle di Salomè, che si era aggiudicata la testa del Battista.
Ma più ancora era innamorato della leggerezza del suo carattere giocoso, della capacità di prendere solo la parte dolce della vita, al pari di una bambina che, del bignè, lecca solo la crema e la ciliegina rossa che lo decorano.
Sua madre gli aveva consigliato di prendere in moglie un’altra fanciulla; lo aveva avvertito che quelli, che egli considerava moine e vezzi ammaliatori, non erano altro che segni di un’immaturità che non si addiceva alla donna che avrebbe dovuto accompagnato per la vita.
Gli aveva addirittura suggerito, come sposa, Ariela, giacché ella aveva tutte le caratteristiche che una buona sposa deve avere: serietà e giudizio; morigeratezza e misura e, soprattutto, sapeva, grazie alla sua assennatezza, governare una casa, amministrare i beni, come aveva dimostrato negli anni affiancando e sostenendo Asmha, dopo la morte del padre.
Miran, però, non aveva voluto darle ascolto: quale cuore innamorato dà retta alla ragione?
Ora, mentre, come un folle, rientrava a cavallo, la camicia sgualcita, il colletto slacciato, i capelli scarmigliati dal vento della galoppata e gli occhi segnati da linee rosse di lacrime rabbiose e delusione, li vedeva tutti quei difetti. Uno dopo l’altro, in fila come soldatini per la rivista, gli sfilavano davanti, ricordandogli amaramente il proprio errore.
Ma il dolore feroce non si limitava alla constatazione della propria scellerata scelta matrimoniale: ciò che lo feriva di più era l’inganno!
In primis quello di Nubia.
La scoperta che ella si fosse donata ad un uomo prima del matrimonio lo stomacava: era la rivelazione di una donna dalla condotta immorale e scandalosa; ma scoprire che ella aveva accettato la sua proposta, pur non essendo più immacolata, solo per assicurarsi un futuro migliore, era meschino e calcolatore, degno di una meretrice consumata.
Ad esso seguiva l’inganno di sua madre: era lacerante, sebbene fosse stato a fin di bene, un tradimento deludente e doloroso, il cordone ombelicale strappato, non tagliato, a forza, dalle stesse mani di colei che lo aveva generato.
Infine c’era Eìos!
Il ragazzo che egli, nell’ingenuità di fanciullo cresciuto nell’ovatta del nido materno, aveva ammirato per le esperienze di vita e la forza dignitosa, malgrado la povertà; lo stesso che gli aveva insegnato ad andare a cavallo, senza sella, né finimenti, un selvaggio aggrappato alla criniera, come fossero redini; quello con cui aveva bevuto cognac, fino a vomitare, e fumato il primo sigaro, ridendo con la gola in fiamme; lo aveva deluso e raggirato, uno stolto incapace nelle mani di un imbonitore. L’aveva amato e considerato un fratello, senza avere idea alcuna che lo fosse davvero; lo aveva rincorso, quando Leria, inspiegabilmente per lui, lo aveva scacciato; aveva continuato a chiedere sue notizie, durante gli studi, ed infine lo aveva accolto nella propria casa come l’amico ritrovato, offrendogli lavoro e ospitalità, contravvenendo alle raccomandazioni della madre.
E, quando aveva scoperto che erano nati dallo stesso seme, dopo il primo momento di squilibrio, si era sentito quasi ripagato di quelle speranze di fanciullo, finanche premiato per averlo amato senza sapere chi fosse.
Dunque, Leria e Nubia lo avevano tradito e umiliato, nascondendogli la verità, ma Eìos lo aveva ucciso, strappandogli il cuore generoso che egli gli aveva affidato.
- Figlio mio … - lo accolse Leria, appena entrato in casa, gli occhi devastati dal pianto, - Grazie a Dio sei vivo! – constatò, segnandosi. – Ti prego, dimmi che le tue mani non sono macchiate del suo sangue! – implorò, le mani giunte in preghiera come davanti ad un’icona sacra.
- Soltanto perché quel cane è in viaggio … - le rispose, senza rivolgerle gli occhi ed, entrato nello studio, colmò un bicchiere di liquore.
- Miran … - cercò di richiamare la sua attenzione.
- Dov’è quella … - ringhiò riferendosi a Nubia.
- Nella sua stanza, come le hai ordinato. – rispose, avvicinandosi, -  Miran, ti prego ascoltami. Non puoi ripudiarla, come hai minacciato: il tuo buon nome, l’onore, il rispetto di un’intera società, finirebbero nel fango di un porcile. Lascia che porti comunque il tuo nome, tienila nella tua casa, nascondi ogni cosa … -
- Siete ridicola! – la interruppe, - Non fate che pensare al nome e all’onore di questa casa, quando il fango, in cui temete di finire, ci arriva già alla gola e, se quella prostituta rimanesse impunita, continuerebbe ad aumentare fino a soffocarci. – le urlò contro.
- Comprendo il tuo dolore, ma, figlio, questa non è la cura. Come non lo sarebbe uccidere quell’uomo … - insistette.
- Avete ragione: per questo male, che mi avete inflitto, non c’è guarigione. – la assecondò, tracannando l’intero contenuto del bicchiere, che provvide subito a riempire nuovamente. – Ma la vendetta è un buon analgesico! – sorrise, bevve e riempì ancora il calice.
- Non bere così … - lo supplicò, Leria, afferrando la bottiglia, ormai quasi vuota.
- Berrò, invece. Berrò fino a che mi si annebbierà il cervello, fino al momento in cui non sentirò che silenzio e desolazione intorno e dentro la mia testa. E ora levatevi di torno! – ruggì, strappandole a sua volta, la bottiglia per ingurgitare tutto il liquido che rimaneva.
Leria si allontanò da Miran, lentamente, misurando i respiri e i passi, come se camminasse davvero nel fago scivoloso. Richiuse alle sue spalle la porta dello studio e, senza una lacrima, si diresse dritta nelle scuderie per cercare Saurion.

  
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