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Autore: Chemical Lady    27/08/2014    3 recensioni
[Seguito di No Good Deed]
Passò gli occhi da una cartina all’altra, soffermandosi un istante sull’astrolabio che l’uomo davanti a lei le stava mostrando, fino ad arrivare alla pelle conciata dell’abissino.
La prese fra le mani, passandovi sopra le dita e saggiandone i rilievi, prima di alzare gli occhi in quelli di Leonardo. Il momento era giunto e lei si era preparata per quel giorno sin dalla sua nascita.
Aggirò il letto, andando verso quel piccolo scrigno che aveva sempre portato con sé, in ogni suo spostamento, quasi come se in esso vi fosse il più prezioso dei tesori.
Invero, era proprio così: Il diario di suo nonno, la chiave, il libro di Bologna e tutti i suoi appunti. Ore e ore passate a tradurre, interpretare e cercare di comprendere ciò che volevano dire.
Poi era arrivato lui, quell’artista folle dall’intelletto unico e tutto si era svelato: i pezzi di quel intricato puzzle erano finalmente disposti davanti a loro, ancora sparsi, ma pronti a rivelare la loro celata trama.
Genere: Avventura, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Girolamo Riario, Leonardo da Vinci, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Amor onni cosa vince

 

Parte prima:

Raro cade, chi ben cammina.

Capitolo Terzo:

Iustus ut palma florebit.

 

 

*

 

 

 

Every demon wants his pound of flesh

But I like to keep some things to myself

I like to keep my issues drawn

It's always darkest before the dawn

 

And I've been a fool and I've been blind

I can never leave the past behind

I can see no way, I can see no way

https://www.youtube.com/watch?v=FyGUg9u_psU

                                                                                               

 

 

26 Marzo 1478, Repubblica Fiorentina,

Un mese prima della morte di Giuliano de’Medici .

 

 

 

 

“Non negherò che il rapporto con Firenze s’è fatto più aspro, in quest’ultimo periodo: ti pregherei quindi di recarti da tuo fratello un paio di giorni prima di me, mentre io svolgo un paio di faccende lungo il Chianti.”

Girolamo non s’era fatto scrupolo alcuno nel domandare alla moglie di precederlo in Fiorenza, la sera prima del giorno pattuito per la partenza.

Dal canto suo, Beatrice non s’era stupita affatto.

L’aria era sempre stata tesa fra la sua città d’origine l’Urbe, tanto che nemmeno il matrimonio tra lei e il nipote prediletto di sua Santità aveva posto una pezza a quella traballante pace.

Senza contare che Girolamo le aveva detto deliberamente che avrebbe dovuto intercedere presso Lorenzo.

Lì per lì, Beatrice avrebbe desiderato solamente rifiutarsi, ma l’amore per quell’uomo che aveva ormai imparato a conoscere meglio per se stessa la stava portando addirittura a mediare trattative fra Roma e Firenze.

La cosa non avrebbe portato a nulla di buono, ma sperava sempre nel buonsenso del Magnifico e in una sana dose di fortuna. Dopotutto, Girolamo sapeva essere assai persuasivo se lo voleva.

Beatrice pregò, quindi, per un lieto soggiorno in Fiorenza, lontano da drammi.

Pregò, ma era pronta al peggio, come ogni volta.

Le importava poco di ciò che sarebbe successo, avrebbe rivisto la sua famiglia e ciò le bastava. In particolare, aveva patito troppo la lontananza da Giuliano.

Nonostante i rapporti si fossero incupiti, le mancava troppo.

Alessandro meritava di conoscere suo zio, così come meritava di fare il suo ingresso a Firenze. Aveva metà sangue toscano nelle vene e sua madre era figlia dell’arte e della bellezza di quella città magica.

Beatrice avrebbe fatto di tutto, in futuro, per farlo studiare presso le migliori menti del loro tempo in quella città così bella e unica. A costo di litigare in eterno con suo marito.

Tornado al mattino della partenza, aveva salutato il marito dopo una frugale colazione consumata a letto –un lusso concessole solo al fine di ammorbidirla, ormai aveva imparato a leggere in mezzo alla ruffianeria di Girolamo-e s’era messa in marcia con le sue dame di compagnia, la balia a badare al piccolo Alessandro e una decina di soldati forlivesi, ai comandi di Edoardo.

Aveva indossato una veste più leggera, poiché ormai la primavera pareva aver deciso di albergare anche in Italia e aveva deciso di non negarsi quella lunga cavalcata, rifuggendo come di suo solito le comodità della carrozza.

Accanto a lei, su un destriero bruno, con un’ampia veste azzurra, c’era Camilla.

Dopo ciò che era successo a Roma, dopo ciò che il Papa le aveva fatto, qualcosa era radicalmente mutato in madonna Colonna. Seppur non portasse seco una spada, aveva sempre un pugnale sotto alle sottane e aveva iniziato a tirare di scherma e di arco.

Era ancora fin troppo lontana dall’essere un soldato abile come Beatrice, ma il farsi insegnare dall’amica quelle basi di combattimento l’aveva portata quanto meno al riuscire di nuovo a dormire la notte.

Il mutamento di Camilla era stato molto, molto più profondo di così.

S’era fatta più taciturna e l’essere stata violentata con tanta crudeltà l’aveva portata a chiudersi di più  e a fidarsi meno. Nonostante ciò, il caratterino frizzante che l’aveva sempre distinta, era rimasto intoccato.

Così come l’amore di Olivieri per lei.

 

La marcia fu lunga, ma Beatrice aveva la testa altrove, così quasi non si accorse d’aver infine preso la via che conduceva verso Firenze, una volta svoltato il passo degli Appennini.

A loro si affiancò un carretto, guidato da un uomo anziano.

Le guardie forlivesi s’apprestarono a fermarlo, ma Beatrice alzò una mano affinché non intralciassero il cammino del mercante, il quale appoggiò una mano alla visiera dell’ampio cappello che indossava sul capo, in segno di galante ringraziamento.

“Che il buon Dio possa vegliare su una così gentile Madonna!” disse questi, con un marcato accento marchigiano “Dirò una preghiera pe’voi, se mi fate la gentilezza di svelarvi chi siete, mia signora.”

“Costei è Beatrice Riario de’Medici.” Disse a voce alta Olivieri, stupendo l’uomo che immediatamente si levò il cappello, scendendo dal carretto e prostrandosi davanti alla contessa “Signora di Forlì e Imola, moglie del Conte Girolamo Riario”

La signora, senza scendere da cavallo, sorrise benevola all’uomo, lanciando poi uno sguardo a Camilla che accaldata la implorò silenziosa per una pausa.

Le fu concessa, visto che Beatrice allentò le redini, appoggiando le mani sul pomo della sella “Ditemi buon uomo, dove siete diretto?”

“Nella vostra bella Firenze, mia signora.” Rispose immediatamente l’anziano “Il mio nome è Ubaldo Vittori e  commercio vini dalle Marche. Vostro fratello, il Magnifico, m’ha incaricato di portare le migliori damigiane per il carnevale di stasera.”

Beatrice scambiò uno sguardo sorpreso con Madonna Colonna “Un carnevale, avete detto? Come mai?”

“Non saprei dirvi mia signora.” Rispose sempre molto educato Vittori “Si vocifera sia per festeggiare la Quaresima.”

“Quest’idea dev’esser di Giuliano” meditò divertita Beatrice, prima di unire le mani sotto al mento “Ci sarà una colombina, quindi! In marcia ora, non voglio rischiare di attardarmi!” Poi vece ceno alle guardie di occuparsi di Vittori “Vi scorteremo con noi, Ubaldo. Così che i vostri vini arrivino salvi alla tavola di mio fratello!”

Il mercante parve più che felice della scorta e in poco più d’un ora di viaggio, arrivarono alle mura fiorentine.

Ad attenderla a palazzo, così come le era stato comunicato da un messo, vi era Gentile Becchi.

Beatrice lasciò il cavallo a uno stalliere, prendendo in braccio il piccolo Alessandro che curioso scrutava il giardino interno a Palazzo de’Medici, mentre il consigliere si avvicinava, senza parole.

Vedere colei che per lui era ancora una bambina con quella creatura fra le braccia lo destabilizzò.

“Che bello rivedervi, Becchi” esordì Beatrice, mentre Edoardo le si affiancava, felice di non dover di nuovo recitare tutti i titoli della sua signora da capo. “Vi trovo bene.”

Per risposta, il consigliere sorrise, ritrovando poi la sua compostezza “Auguro un caloroso benvenuto alla Contessa di Forlì.” Recitò, così come gli era stato chiesto da Lorenzo in persona “Se volete seguire la servitù, vi condurrà ai vostri alloggi. Lorenzo de’Medici vi riceverà entro sera.”

Quella così formale accoglienza gelò Beatrice sul posto.

Un anno e mezzo prima Becchi l’aveva strinta in un abbraccio chiamandola ‘bambina mia’, e ora…. Contessa di Forlì.

Cercò di boccheggiare una risposta, ma fu Edoardo ad anticiparla, nel vederla così in difficoltà “La mia signora è grata dell’accoglienza. Non vede l’ora di rivedere i fratelli, ma giustamente deve riposare insieme a suo figlio, ora.” E senza aggiungere altro, appoggiò una mano sulla schiena di Beatrice, scortandola via da quell’atrio freddo.

Lontana da quel così distaccato modo e dalla tristezza profonda che esso le aveva lasciato nell’animo.

 

 

 

Giuliano si sistemò la camicia bianca e rossa che indossava quella sera per la centesima volta, prima di sfilarsela e buttarla con disprezzo oltre il letto.

Si passò le mani fra i capelli, rimirando la sua immagine nello specchio e desiderando ardentemente di romperlo frantumarlo in una miriade di piccole schegge di luce.

C’erano giorni in cui, per lui, essere un de’Medici era una condanna.

Il giorno in cui suo padre aveva iniziato a istruire suo fratello alla politica, ignorando del tutto gli altri figli. Il giorno in cui suo nonno era morto e si era sentito dire che mai lui avrebbe potuto rasentare la sua perfezione.

Il giorno in cui aveva compreso che non si sarebbe mai maritato per amore.

Il giorno in cui aveva visto sua sorella maritata con un uomo che non era degno nemmeno di un sorriso da parte di un angelo come Beatrice, per esempio. Il giorno in cui l’aveva quasi persa su un campo di battaglia e i suo maledetto cognome gli aveva impedito di farsi giustizia da solo.

Il giorno in cui lei aveva scelto quel marito, quella città così lontana e tutte quelle incombenze che la stavano distruggendo.

Poi era arrivata quella sera.

Non vedeva Beatrice da quando era tornata a Roma un anno e mezzo prima, dopo quella brutta lite che li aveva tenuti divisi e muti per mesi, prima di riprendere a scambiarsi lettere su lettere, sentendo al contempo un sapore amaro in bocca ad ogni risposta leggermente forzata.

Girolamo Riario non aveva solo portato via a Giuliano la cosa più preziosa che aveva, ma aveva anche distrutto un rapporto che sembrava prevalicare ogni cosa.

Non v’era persona al mondo che Giuliano amasse più di sua sorella e non v’era uomo al mondo che Beatrice prediligesse a Giuliano, ma tutto s’era fatto così difficile da distruggere entrambi i fratelli.

Nulla era più doloroso di quella separazione.

Giuliano non poteva nulla, per quanto si sforzasse.

Un bussare alla porta precedette la serva che gli annunciò che era giunto il momento, così prese un’altra camicia, indossandola.

Quella che doveva essere un’allegra serata stava tramutandosi in una lenta agonia.

Trovato il coraggio  necessario per uscire dai suoi alloggi, Giuliano si recò nell’anticamera in cui Lorenzo accoglieva sempre i suoi ospiti.

Lì trovò la sua famiglia al completo, ma non degnò di uno sguardo il fratello, preferendo la compagnia delle nipoti. Maddalena si aggrappò al suo braccio, tirandolo verso di sé affinché si chinasse su di lei. Solo quando fu alla sua altezza, la piccola portò una mano a coppa sino al suo orecchio e lì parlò direttamente, piano affinché i genitori non la udissero “Perché non possiamo andare da zia Beatrice quando entra?”

Giuliano aveva già la risposta pronta, ma dire che Lorenzo era un autentico deficiente sarebbe parso poco rispettoso e poco educativo; preferì usare le stesse parole del fratello.

“Tua zia è una contessa. Dobbiamo riserbarle l’atteggiamento che merita.”

O quello che lei stessa si era scelta, sposando Riario.

Maddalena parve confusa, ma non chiese altro. Si limitò a stringere la mano dello zio, abbassando gli occhi sul pavimento con muta rassegnazione.

Giuliano non era il solo a non capire quella situazione.

 Nessuno aggiunse altro, sino all’arrivo dell’ospite.

Fu preceduta da Olivieri, che entrò nella stanza con addosso la miglior divisa di rappresentanza: una casacca d’oro e blu scuro, i nuovi colori della città di Forlì in accordo con gli stemmi delle casate della Signoria.

Il rosso si schiarì la voce, salutando con un cenno Giuliano che l’osservava con trepidante nervosismo.

“La mia signora porge i suoi omaggi alla Signoria vostra de’Medici.” Disse con gentile osservanza il forlivese, facendo un piccolo inchino “Permettetemi di introdurvi a sua grazia Beatrice Riario de’Medici, signora di Forlì e Imola e suo figlio, Alessandro di ser Girolamo Riario.”

Scostandosi dalla porta, Olivieri fece spazio a madonna Colonna e madonna Pitti che precedettero l’ingresso di Beatrice di qualche istante.

Dietro di lei vi erano anche madonna de’Pazzi e monna Agnese, che teneva fra le braccia il piccolo Alessandro. Dietro ancora, almeno cinque guardie forlivesi chiudevano il piccolo corteo.

Per Giuliano, però, vi era una sola presenza lì insieme a lui. Quella stanza affollata era, di fatto, vuota ai suoi occhi.

Beatrice era così diversa da come la ricordava.

Dinnanzi a lui, l’austera signora di Romagna entrò con lo sguardo alto e serio, in totale disaccordo con gli occhi dolci e il sorriso sognante che aveva sempre posseduto.

Indosso aveva un abito in broccato nero, con ampie maniche trasparenti. Sul capo, i capelli erano intrecciati in un’elaborata pettinatori tenuta unita da un diadema di pietre preziose candide come neve.

Sullo scollo generoso del corpetto stretto, una collana d’oro bianco risaltava luminosa sulla pelle diafana della contessa.

Un’immagine gli balenò innanzi agli occhi, mentre la guardava avvicinarsi.

Una giovane ragazza con i capelli sempre liberi sulle spalle, sorridente e gioiosa con indosso una veste bianca merlettata di pizzi raffinati. Ballava accarezzata dal vento, che trasportava le sue risa per tutta la campagna, mentre il sole tramontava alle sue spalle.

Incoronata da rosse rose intrecciate, Beatrice, la sua Beatrice, le parve così differente dalla donna che ora gli stava innanzi.

Così lontana da parere irraggiungibile e persa per sempre.

Lorenzo, invece, si trovò incapace di spostare lo sguardo dal bambino.

Era piccolo, ma aveva lo sguardo molto vispo, nonostante se ne stesse buono tra le braccia della balia anziana.

Quegli occhi, grandi e dei colori del miele, erano identici a quelli di Riario.

Un insieme di pensieri si fece largo nella mente del Magnifico in quel frangente, destabilizzandolo; quello era sangue del suo sangue, che doveva condividere con la feccia romana.

Senza contare che, in un certo senso, l’onta del non aver concepito un erede maschio mentre quell’infame di Riario vi era riuscito al primo colpo facendosi sua sorella, era davvero troppo.

Nonostante ciò, trovò la prontezza d’animo di guardare verso Beatrice.

Le sorrise compiaciuto, allargando le braccia mentre scendeva quei pochi gradini che li separavano “Mia adorata.” Le disse, abbracciandola forte.

Si era preparato un discorso, ma non riuscì ad aggiungere altro.

Il conte non c’era e la più giovane delle sue sorelle era lì, dopo tanto tempo.

Lei sentì tutta la tensione scemare fra le braccia di Lorenzo.

Sospirò e chiuse gli occhi, mentre appoggiava il viso nell’incavo della spalla del fratello, sentendo di nuovo un profumo familiare che la riportò con la mente alla sua infanzia.

Quando si staccarono, la contessa di Romagna prese fra le mani il viso dell’uomo, baciandolo sulla guancia “Vi trovo bene, Lorenzo.” Gli disse, facendo un passo indietro, per poter guardare verso il resto della famiglia. Non abbastanza coraggiosa da chiamare a sé Giuliano, strinse forte Clarice che s’era avvicinata mentre ancora abbracciava il maggiore, lanciando poi uno sguardo alle nipotine che fremevano dalla voglia di raggiungerla “S’è persa l’usanza del saluto, qui?” domandò Beatrice proprio verso di loro, accogliendole poi fra le sue braccia, quando corsero da lei.

Anche Becchi , visto l’atteggiamento di Lorenzo, mise da parte la compostezza e accarezzò il capo di Beatrice, la quale finalmente guardò Giuliano.

Non  chiedeva nulla alla sua famiglia, nulla all’amato fratello se non un po’ di rispetto verso quel marito che lei stessa alle volte non capiva.

“Tuo marito l’hai lasciato nel porcile?”

Per l’appunto.

Giuliano non s’era fatto alcun pensiero nell’esternare ciò che gli passava per la testa e nemmeno l’occhiata di fuoco del precettore lo fece desistere dal sorridere sfrontato.

Vi era qualcosa d’irrisolto nell’aria.

L’argomento Girolamo era ancora spinoso e avrebbero dovuto parlarne, ma era così desiderosa di un abbraccio che non disse nulla.

Si lasciò cullare dal calore di Giuliano, rischiando di commuoversi in quel frangente, ignorando la pessima battuta e cercando di concentrarsi solo su di lui.

Su quanto le era davvero mancato.

Si staccarono di controvoglia e si sorrisero, poi finalmente Beatrice parlò “Sei sempre così delicato, fratello mio. Come un badile sbattuto ripetutamente sulla testa.” Lo schernì, prima di voltarsi e far cenno ad Agnese di avvicinarsi.

Finalmente avrebbe fatto qualcosa che bramava da mesi.

Prese il piccolo Alessandro fra le braccia e lui subito corse a stringere con il pugnetto l’orlo del corsetto, guardando con i suoi grandi occhi curiosi quelle buffe persone mai viste.

“Voglio presentarvi il nuovo uomo della mia vita.” Disse Beatrice, facendoli sorridere tutti, mentre Lorenzo allungava le braccia per prendere il piccolo.

La contessa glielo concesse, volendo imprimersi quell’immagine nella mente per non cancellarla mai più.

Per un istante, il mondo le parve giusto.

Per un istante s’illuse che forse, il tempo, avrebbe aggiustato ogni conflitto.

S’illudeva, lo sapeva anche da sola.

 

I fuochi del duomo accesi, i cittadini in maschera, la musica per le vie…

Questa era la Firenze che Beatrice tanto amava.

Per quanto si sforzasse di portare anche a Forlì un po’ di quella magia, non vi riusciva.

Il cuore della città toscana era nei suoi cittadini, nel loro non confacersi alle regole del loro stesso tempo.

Nonostante il rivedere Francesco de’Pazzi – il quale portò la fiaccola per l’accensione della colombina a Lorenzo, cedendola con non poca stizza mal celata- non le fece piacere, lo spettacolo fu sublime.

Giuliano l’aveva stretta a sé con un braccio, tenendo con l’altro il piccolo Alessandro, e aveva quasi urlato per l’entusiasmo quando quell’uccello meccanico era volato vicino a loro, senza esser sorretto da filo alcuno.

Beatrice non si stupì nell’apprendere che l’ideatore di cotanta arte era Leonardo da Vinci.

“Quest’artista è un eretico, si vede dalle diavolerie che architetta.” Aveva sussurrato maligna Maddalena de’Pazzi, trovando subito il consenso di Ombretta.

Beatrice s’era sforzata di non mandarla al diavolo, desiderosa di evitare inutili battibecchi: Leonardo era un genio, lo dimostrava in ogni cosa facesse.

“Lo spettacolo è stato di vostro gradimento?” aveva domandato il Verrocchio quando s’era ritrovato la contessa innanzi, dopo averla osservatamente salutata.

“L’ho trovato a dir poco strabiliante, tanto che vorrei congratularmi io stessa con il maestro da Vinci” aveva risposto lei, ricevendo uno sguardo esasperato come risposta.

“Vorrei tanto aiutarvi, ma non ho idea di dove possiate trovarlo” dispose il povero maestro, mentre un Zoroastro vestito da bacco si faceva avanti.

Il tartaro abbozzò un inchino goffo “Leo è come l’aria, difficile da catturare ma purtroppo, tristemente necessaria! Vi trovo meravigliosa come sempre, mia signora.”

S’erano visti un paio di volte, eppure quell’uomo le era rimasto impresso. Divertita, Beatrice rispose “Anche io vi trovo bene, messer Zoroastro.”

“Chiamatemi Zoroastro, o Zo. Non occorrono titoli inesistenti.” Aveva proseguito lui, sventolando una mano come per scacciare una mosca. L’aveva infine allungata verso la madonna, sorridendo suadente “Un ballo? Sarebbe un onore poter dire di aver danzato con voi.”

La ragazza non si fece pregare.
Appoggiò la mano chiara in quella più olivastra dell’uomo, “E sia! Ho voglia di ballare!”

La magia del carnevale consisteva in quello, dopotutto.

Abbandonare il proprio ruolo in favore di una maschera.

Beatrice si sentì libera, quella sera.

Libera di essere di nuovo una ragazza fiorentina, dedita alla leggerezza delle feste e all’ozio di una vita senza preoccupazioni.

Un lusso che non si sarebbe più concessa per molto tempo.

La città si spense dopo molte ore, sotto lo sguardo severo delle guardie della notte.

A riaccompagnare la contessa al palazzo de’Medici fu il giovane Sandro Botticelli.

“Vi ringrazio per la premura, Sandro.” Disse Beatrice, mentre camminavano con molte altre persone per le viuzze della città animata dalla festa “Ho seminato le mie guardie da molto. Saranno tutti in ansia e mi staranno cercando.”

Botticelli sorrise divertito “Come un tempo.” Replicò, porgendole un braccio affinché lo accettasse.  Una volta che Beatrice si fu appoggiata a lui, il ragazzo sospirò “Siete crudele Madonna, sono passati quasi due anni da quando m’avevate promesso di ritrarvi.”

Era vero.

Beatrice s’era fatto amico quel giovane di grandi speranze, quell’artista tanto decantato da suo fratello Giuliano, ad una festa molto simile a quella a cui avevano appena partecipato.

Ancora non gli aveva commissionato nulla e si sentì in colpa.

“Non so se riuscirete a ritrarmi prima della mia partenza per Forlì, ma in ogni caso vi chiamerò appena potrò. Stavolta lo prometto.”

Arrivarono innanzi alle porte, dove un Olivieri pallido fu più che felice di vedere rincasare la sua signora.

“T’avevo detto che stava bene! Non m’hai creduto, scemo!” gli disse Camilla, afferrandolo per un braccio e trascinandolo lungo il loggiato interno, mentre Beatrice ridacchiava.

Si voltò infine verso Sandro, che fece un piccolo inchino con il capo, baciandole il dorso della mano “Abbiate cura di voi, mia signora. Non aspetto altro che i vostri comandi per munimi di colori e arte per ritrarvi.”

“A presto, Botticelli. Abbiate un buon riposo, stanotte.”

Lasciato il giovane sulla porta, la ragazza andò verso i suoi alloggi, fermandosi prima per salutare Giuliano che però, a detta di Bertino, s’era perso con una giovane ragazza per la piazza.

Divertita, Beatrice andò verso la sua stanza, pronta a mandare a letto anche Monna Agnese che s’era ritirata con  Alessandro subito dopo il lancio della colombina.

Non trovò lei a vegliare sul sonno del figlio, però.

“Lorenzo.” Sussurrò piano la donna, fecendo qualche passo verso di lui.

Chino sulla culla, a osservare il nipotino beato, stava il maggiore della casata.

Le fece cenno di seguirlo verso la piccola saletta adiacente alla camera da letto, così da non disturbare il sonno del pargolo e lei eseguì.

Era stanca e sperava di poter riposare tutto il resto della notte, ma parlare un po’ con suo fratello le  avrebbe fatto piacere.

Per la prima volta, Beatrice realizzò che dinnanzi a lei aveva praticamente un suo pari.

Un uomo saggio che governava una città al meglio, così come si adoperava ella stessa di fare.

Sedettero su un paio di poltroncine, uno di fronte all’altra e Lorenzo si allungò per afferrare la spada della giovine, appoggiata al tavolino in mezzo a loro.

La estrasse dalla guaina, osservando la lama lucente e affilata, premurandosi anche di passare un paio di dita sullo stemma dei de’Medici e dei Riario, che spiccava in rilievo quasi alla base dell’elsa.

Poi notò le parole incise in oro sul corpo della lama.

“Iustus ut palma florebit…” Lesse con la voce bassa e leggermente arrochita “Un salmo?”

I  giusti fioriranno e persisteranno come la palma, che sempre verde sta.” Recitò a memoria Beatrice, accavallando le gambe e rilassandosi contro allo schienale della poltrona rossa “Dal Vangelo secondo Matteo, terzo canto, versetto dodici.”

“Il motto della famiglia Riario.” Ponderò Lorenzo, prima di rinfoderare l’arma, rimettendola laddove l’aveva trovata “Ambizioso, come motto, per un uomo avventato come tuo marito.”

“Ammetto che hai ragione.” Rispose a tono la mora, sorridendo però divertita “Io penso che non siano gli atti a rendere giusto un uomo, quanto l’intento.”

Lorenzo sbuffò una risata senza colore “Ti prego, non avventuriamoci in un discorso che non finirebbe bene. Sono troppo felice di riaverti qui per rovinare la giornata.”

“Hai ragione, ti chiedo scusa. Solo, ho una richiesta da farti.”

Il Magnifico la guardò  un po’ timoroso, accettando poi di sentire questa richiesta.

“Cercherò di renderti felice, sorella mia, ma sai che non posso promettere.”

La contessa annuì piano, consapevole “Lo so, ma vorrei lo stesso che ci provassi.” Gli disse, prima di sospirare e domandare “Vorrei che dopo domani, quando Girolamo verrà a comunicarti il motivo della visita, tu ti prenda un istante per ponderare la sua richiesta. Non essere anche tu avventato.”

Lorenzo scosse piano il capo “Deve essere qualcosa di brutto, se mi prepari così.”

“Vorrei solo che tu provassi a fidarti di lui.” Sussurrò Beatrice, già certa della replica del fratello.

 

“Fidarsi di Girolamo Riario è come stipulare un patto con il Diavolo e meravigliarsi quando viene a reclamare la tua anima.”

Cosa poteva dire, per discolparlo?

Nulla.

Girolamo aveva scelto da solo quella via.

Nonostante ciò, Lorenzo non riusciva a vedere così triste Beatrice, così si mise diritto sulla poltrona “Farò il possibile, posso prometterti questo.” Le disse, strappandole un sorriso intenerito “Ora parliamo d’altro, non so quasi  nulla della tua città. Parlami di Forlì.”

Rimasero quasi tutta la notte lì seduti a parlare di come governare e cittadini, di commerci e di leggi e per la prima volta in vita sua, Beatrice si sentì davvero vicina a Lorenzo.

Non avevano mai avuto una simile complicità.

 

 

 

 

 

I'm always dragging that horse around

Our love is pastured, such a mournful sound

Tonight I'm gonna bury that horse in the ground

So I like to keep my issues drawn

But it's always darkest before the dawn…

[….]

And it's hard to dance with a devil on your back

And given half the chance would I take any of it back

It's a fine romance but it's left me so undone

It's always darkest before the dawn

 

 

  
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