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Autore: hikaru83    28/08/2014    6 recensioni
Avete mai notato che gli album fotografici sono pieni zeppi di sorrisi? I nostri album sono pieni di fotografie dove siamo tutti insopportabilmente felici. Pensateci bene, voi ricordate di essere stati per così tanto tempo felici? [...]
La storia che sto per raccontare non è certo un ricordo felice, vorrei poterlo fare, vorrei davvero far in modo di scrivere un vissero tutti felici e contenti, alla fine di questa storia, come implicitamente faccio in ogni mia fic.[...]
Ma questa non è una fic, questa è una parte della mia vita, forse la più dolorosa, ma ho bisogno di scriverla, spero che non vi dispiacerà troppo se ho voluto condividerla con voi...
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Neve
 
Avete mai notato che gli album fotografici sono pieni zeppi di sorrisi? I nostri album sono pieni di fotografie dove siamo tutti insopportabilmente felici. Pensateci bene, voi ricordate di essere stati per così tanto tempo felici? Non ci lamentiamo forse tutti che la vita è piena di momenti bui, tristi. Quante volte ho sentito dire che la vita è ingiusta, lo ripetono tutti e allora perché nelle foto sorridiamo sempre? E non sono sorrisi falsi, non tutti almeno, riconosciamo i sorrisi falsi e generalmente scartiamo  quelle foto, teniamo solo quelle dove il sorriso è reale, dove il ricordo di quel momento è in grado di farci sorridere anche a distanza di anni, o almeno di farci provare un emozione reale. Eppure ci ostiniamo a dire che i momenti tristi sono di più nella nostra vita di quelli felici, perché? Forse siamo portati a ricordare più facilmente le cose che ci hanno fatto soffrire, rispetto a quelle che ci hanno reso felici. Perché i ricordi tristi ci aiutano ad evitare di farci del male, una volta che si è sbagliato e si è sofferto, difficilmente commetteremo lo stesso errore. Dovrebbe essere così, no? Ma invece capita di sbagliare ancora, e non sbagli nuovi, magari, no continuiamo ad incappare negli stessi errori giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, perché?

La storia che sto per raccontare non è certo un ricordo felice, vorrei poterlo fare, vorrei davvero far in modo di scrivere un vissero tutti felici e contenti, alla fine di questa storia, come implicitamente faccio in ogni mia fic. Perché il bello delle fic, e qui sicuramente qualcuno si sentirà defraudato di questa idea, me ne scuso se sarà così ma voglio assicurare che è sempre stata la filosofia con cui scrivo, il bello delle fic dicevo, è poter dare ai personaggi il lieto fine che nella vita noi non abbiamo ricevuto. Ma questa non è una fic, questa è una parte della mia vita, forse la più dolorosa, ma ho bisogno di scriverla, spero che non vi dispiacerà troppo se ho voluto condividerla con voi, e che non vi annoierò, anche perché di guai ne abbiamo tutti, e tutti voi che state leggendo, nessuno escluso, ha sofferto davvero, o sta soffrendo proprio in questo momento.

Quindi non è una storia felice, eppure, in un certo senso vorrei fosse un inno alla vita, perché di ricordi felici ne ho, sono fortunata sotto questo punto di vista, ne ho tanti.

Sembrerà strano, ma i ricordi felici sono l’unica cosa a cui riesco ad aggrapparmi in questo periodo. Ma andiamo con ordine. Ho scelto di pubblicare questo racconto oggi per un motivo molto semplice, oggi è l’anniversario della morte di mio padre. Due anni fa, alle cinque del pomeriggio, mio padre è morto in un maledettissimo letto d’ospedale.
 

Vi avevo avvisato che non era una storia felice.
 

Sono figlia unica, una benedizione per la maggior parte di chi ha fratelli e sorelle, una maledizione per quasi tutti i figli unici.

Sono stata amata, coccolata e sì lo ammetto anche viziata, da mio padre. E fino a quando avevo tredici, quattordici anni mi è andata di lusso, inutile negarlo, poi, beh poi cominciano i primi litigi, le prime incomprensioni, cosa del tutto normale, ma niente di così eclatante come mi è capitato di sentire dai racconti dei miei coetanei o da quelli che i loro genitori davano disperati ai miei. Io ho sempre evitato, per quanto possibile gli scontri. Probabilmente perché non ho mai sentito la necessità di uscire tutte le sere, e perché caratterialmente preferivo un buon libro che la bolgia della discoteca, esperienza che ho fatto, grazie a una mia cugina, e che non mi è dispiaciuta, anzi direi che mi sono divertita parecchio, anche se continuo a preferire un buon libro. In pratica, se non fosse stato che a scuola ero una capra, non ho mai creato grande scompiglio a casa.

Io ero la classica bambina prima, ragazza dopo, di cui maestri o professori ai genitori durante l’incontro scolastico dicono la classica frase: “Non se la cava male, ma potrebbe fare molto di più.” Qualcuno di voi si è sentito tirare in ballo? Bene so di essere in buona compagnia. In realtà non avevano tutti i torti, se racconto la mia storia mi sembra alquanto stupido raccontare bugie, andavo male a scuola perché non studiavo. Mi annoiavo a morte durante le lezioni, e vagavo con la mente chissà dove, fregandomene altamente di ciò che succedeva in classe.

Comunque sia, fino ai sedici anni, a parte il fronte scuola, la mia vita era assolutamente perfetta. Avevo due genitori che mi amavano e, che al contrario della maggior parte dei miei compagni di scuola, erano ancora sposati. Una cosa che da piccola non mi andava molto giù, perché tutti quelli che avevano genitori separati venivano trattati, anche se solo per un certo periodo, in maniera differente rispetto agli altri. Non avevano fatto i compiti? Beh poverini avevano una situazione difficile a casa, non erano pronti per l’interrogazione o la verifica era andata male? C’è da capirli poveri cari, con quello che devono subire a casa. Insomma a un certo punto ero andata dai miei genitori e gli avevo chiesto quando si decidevano a divorziare come gli altri. Inutile dire che si sono messi a ridere prima di spiegarmi che divorziare non era una cosa bella, e che un giorno sarei stata felice del fatto che fossero riusciti a rimanere insieme nonostante i problemi in cui tutti prima o poi incappano. Probabilmente se tra voi c’è qualche figlio di divorziati penserà che ero davvero una bambina cattiva e invidiosa per preferire il divorzio rispetto a una famiglia unita, ma ero solo una bambina, non riuscivo a vedere e a capire quanto le cose fossero complicate, per i bambini esiste il bene e il male, quando qualcuno si prende la briga di spiegarglielo,  le cose o sono giuste o sbagliate, o sono bianche o nere, il grigio nelle sue infinite gradazioni, non viene preso in considerazione.

Come detto fino ai sedici anni la mia vita scorreva come la maggior parte degli adolescenti. La mia era una di quelle famiglie numerose, caotiche, insomma la classica famiglia italiana che si immagina o si vede nei film. Il fatto che fossi figlia unica non voleva dire molto, tra zii e cugini eravamo, e siamo tutt’ora nonostante tutto, a sufficienza, fidatevi. Ci incontravamo tutte le domeniche, o a casa mia o dagli zii, pranzi, cene e pomeriggi a far casino, ma tutto prima o poi finisce. I guai iniziarono quando una mia cugina cominciò a farsi del male. Del male vero, non mangiava e se lo faceva vomitava tutto, cominciò a tagliarsi le braccia con mille lamette differenti e iniziò a prendere di tutto e tutto perché non stava bene con sé, o con noi ancora questo non l’ho capito. Non so cosa passa nella testa di chi, in un modo o nell’altro decide di farsi del male. Ma so, per esperienza diretta, cosa prova chi è vicino a queste persone. Ci si sente di una totale inutilità. Ci si sente inutili perché non c’è nulla che possiamo fare o dire per aiutare coloro a cui vogliamo bene. Nulla che impedisca loro di autodistruggersi. Ho provato a starle vicino, per quanto possibile, ad ascoltarla, a cercare di credere alle sue bugie prima, e a sbattergli la verità addosso dopo. Sempre senza giudicare, in fondo chi ero io per farlo? Nessuno, nessuno davvero. Ma nulla è servito, almeno fino a quando non ha capito di essere malata, fino a quando non ha deciso di smettere di farsi del male. Passarono però diversi anni prima che questo accadesse. Ancora oggi, a distanza di anni, ho ancora paura di dire la cosa sbagliata al momento sbagliato e di vederla allontanarsi un’altra volta.

I rapporti umani sono davvero complicati, ho sempre avuto la sensazione che io e gli altri, tutti gli altri, vivessimo su due binari differenti, a velocità differenti. Più il tempo passa e più questa sensazione sta diventando una certezza. Le ragazze (ormai donne ma shhhh non ricordatemelo) della mia età, sono sposate, con figli o almeno ci stanno pensando. Hanno un lavoro , o mille lavori dipende, e hanno organizzata la loro vita, o ci stanno provando. Io... io no, decisamente no. L’amore ad esempio, certo bello, idea caruccia non lo nego, ma l’amore è immensamente più complicato di quello che sembra, non esistono solo le nuvolette rosa, sole, cuore, amore, miele e zucchero a volontà, ci sono i litigi per nulla, le incomprensioni da superare, i rospi da ingoiare, bisogna essere in due a voler far funzionare le cose, e bisogna volerlo con tutte le forze, altrimenti non c’è scampo. Il lavoro... beh non dipende solo da me, o meglio forse anche io non mi do’ così tanto da fare però... boh però per ora nulla, e per quanto riguarda l’organizzazione della vita... io non sono in grado di organizzare la mia borsa, figuriamoci la vita.

E così osservo gli altri li guardo, li studio, e cerco di capire. Non sempre ci riesco, ma ci provo.

Nello stesso periodo in cui mia cugina aveva cominciato a costruire il suo inferno personale, uno dei fratelli di mio padre si ammalò, o meglio ebbe una ricaduta e in davvero troppo poco tempo per capire, morì. La domenica eravamo da lui come sempre ma non l’avevamo visto perché non si sentiva molto bene, la sera dopo era morto. Il dolore è stato un colpo al cuore, era un secondo papà per me, un dolore acuto, che trapassa da parte a parte, che ti lascia senza fiato, che non ti permette di sentire altro. Avevo 17 anni, altre persone che conoscevo, altri zii erano morti, ma vivevano lontano, avevo avuto meno tempo per amarli, avevo sofferto certo, ma era differente. Lui era il mio vice papà, era quello che mi difendeva sempre quando li facevo arrabbiare, o che prendeva le mie parti quando volevo uscire e papà non voleva. E in ventiquattro ore l’avevo perso. Anche ora, a distanza di anni, a volte ho la sensazione che mi basti voltarmi per ritrovarmelo seduto sulla poltrona, con il sigaro immancabile in bocca (perennemente spento) e quel suo modo di fare burbero ma con uno sguardo sempre limpido e divertito. Successe all’inizio dell’anno, era fine gennaio e io ancora non sapevo che per me il peggio doveva ancora arrivare. Ancora non sapevo che da quel momento la mia vita non sarebbe più stata quella di prima, che da quel momento avrei dovuto imparare a cavarmela da sola.

Le prime avvisaglie che qualcosa non andava, mio padre l’aveva già avute. Gli occhi gli davano problemi, a volte vedeva benissimo, a volte la vista gli si annebbiava completamente. Quella primavera però ebbe la conferma che le cose erano davvero gravi. Il primo medico che lo visitò fu diretto, cancellò ogni speranza, avrebbe perso la vista in sei mesi,  otto, un anno al massimo, e non c’era nessun modo per impedirlo.

Retinopatia maculare dovuta dal diabete. La prima volta che ho sentito queste due parole manco sapevo cosa fosse. Non sarò specifica, perché con tutto che l’ha avuta mio padre non ho ancora chiaro cosa sia in realtà, a parte una brutta bestia. E non per tutti la cosa è così grave, anzi papà era quell’uno su non so quanti milioni di persone in cui la malattia non dà speranze. Lui trovava anche la forza di scherzarci, potevamo vincere alla lotteria, diceva, ma sai che noia... perché mio padre scherzava, almeno all’inizio. Forse perché non ci credeva neanche lui, forse perché era davvero convinto che i dottori si sbagliassero, ha girato l’Italia, è andato anche in Svizzera, ma ogni tentativo fu inutile, ogni speranza che gli veniva data fu spezzata. Anzi tutto peggiorava sempre di più la cosa.

Gli anni passarono, veloci o lenti chissà è difficile ora capirlo. A casa l’atmosfera dire che era tesa è dir poco, io avevo lasciato il liceo e frequentavo una scuola professionale. Lo facevo solo per farli stare tranquilli, in quel momento l’unica cosa che volevo davvero era rinchiudermi in camera mia, mettere la musica a tutto volume e non uscire più. Ma non lo facevo, non l’ho mai fatto, ridevo, anche se non ne avevo la minima voglia, ingoiavo lacrime, e facevo di tutto per sorridere ogni fottutissimo giorno.

E intanto mio padre peggiorava, ogni giorno, sempre di più. A un certo punto aveva dovuto usare un aiuto per camminare, la vista l’aveva del tutto persa, e da lì a poco avrebbe anche smesso di camminare per sempre. Ma lui ancora sperava, lui ancora non voleva cedere, lui diceva che sarebbe guarito. Non successe ovviamente, non successe.

In casa eravamo attrezzati con tutto, attrezzi vari per spostarlo, trabiccoli che facevano sembrare casa un astronave aliena, tutto per far in modo di semplificare la vita a lui e a mia madre.

Di notte dormivo con la porta della stanza aperta, sempre pronta a scattare a ogni piccolo rumore, con il terrore che potesse cadere, e farsi ancora più male. Ma la notte era anche il momento in cui, nel silenzio il pianto di mio padre era forte, rimbalzava nella casa.

Voi avete mai sentito vostro padre piangere? Lo avete mai visto tanto debole da sembrarvi un bambino? Lo avete mai dovuto sollevare da terra perché è caduto e non riesce più ad alzarsi? O imboccare perché non riesce a mangiare da solo? Io non credevo avrei mai odiato in vita mia, io non pensavo di esserne capace e invece io ho odiato. Ho odiato chiunque, senza alcuna distinzione. Ho odiato i medici che non sapevano cosa fare, odiavo me stessa per non essere la figlia che si meritavano, le persone che vivevano felici intorno a noi che non capivano, non potevano capire, odiavo i loro sguardi, odiavo in maniera totalizzante ogni singolo sguardo pieno di pietà. E odiavo mia madre che faceva tutto quello che mio padre voleva, anche se lui la trattava malissimo, le persone colpite da una malattia diventano egoiste, è una sorta di autodifesa suppongo. Mio padre lo era diventato, non pensate che fosse diventato cattivo, solo che esisteva solo lui, tutto doveva ruotare intorno a lui. In quel periodo ho scoperto una parte di me che non sapevo di avere, e me ne sono vergognata, mi sono odiata anche per questo. Ora ho imparato che le persone, tutte le persone, hanno anche una parte oscura, fa parte di noi e bisogna imparare a conoscerla ed ad accettarla per star bene, ma allora ero spaventata da questo io pieno di odio, tanto diversa da ciò che pensavo di essere da non riconoscermi.

Avevo trovato una sorta di equilibrio ad un certo punto, avevo smesso di cercare di fare le cose perché era quello che la gente si aspettava da me, e le cose che mi sembravano difficili , anzi addirittura impossibili, divennero semplici. Presi il diploma, lavorando di giorno e andando a scuola la sera, e in tre anni recuperai tutto il tempo perso prima, che poi c’è da domandarsi se fosse davvero perso. Mi iscrissi all’università e mi sembrava assurdo averne avuto tanta paura prima. A casa le cose erano sempre quelle, peggiorate ancora, ma oramai era diventato normale anche quello. Anche i reni di papà avevano ceduto, tre volte a settimana alle sei del mattino venivano a prenderlo per fare la dialisi. Ma in un certo senso, ero in una sorta di stato di quiete, sembra strano ma posso dire di essermi adeguata, come se avessi trovato una specie di stabilità, come se fosse la vita che facevo, che facevamo a casa fosse del tutto normale. E qui non posso che citare Banana Yoshimoto e il suo romanzo Amrita(lo faccio a memoria quindi mi scuso se non è proprio uguale), quando dice: “In qualunque famiglia ci sono problemi che visti dal di fuori sembrerebbero insuperabili. Eppure ogni giorno si mangia lo stesso, si fanno le pulizie, il tempo scorre senza troppi drammi, ci si abitua alle situazioni più assurde. In una famiglia c’è la promessa implicita, incomprensibile per altri, di restare uniti, per quanto le cose possano farsi complicate.” Ecco, direi che questa frase spiega, molto meglio di come potrei fare io, il mio stato, la mia vita in quel periodo.

Ma la stabilità non dura mai molto, la maggior parte della vita è una continua lotta, una continua altalena, non si può stare molto fermi. E infatti le cose sembravano tranquille, come sistemate in un certo schema, ma in realtà stavano per precipitare, solo che non lo sapevo.

Avevo dato il mio ultimo esame a giugno, faceva caldo, dannatamente caldo, e stavo preparando la tesi. Per quell’estate sapevo che non avrei fatto nessuna vacanza, la laurea era ad ottobre e dovevo essere pronta! Ma era estate anche per me, anzi soprattutto per me che non ho mai sopportato il caldo, l’estate mi uccideva, la canottiera era persino troppo calda. La pelle appiccicosa, le zanzare che mi mangiavano allegramente, no, l’estate e il suo fascino su di me non hanno mai avuto molto successo.

Per sopravvivere all’ennesima bolla di caldo la mattina andavo in piscina, sul lago, dopo una nuotata anche i libri per la tesi non erano così terribili. Ma ogni volta che tornavo a casa sentivo che qualcosa non andava, che c’era qualcosa di diverso qualcosa di più opprimente del caldo.

Un rumore che non mi faceva dormire, tosse, una dannata tosse che non  passava. Tutto il giorno, tutta la notte, mio padre tossiva. I medici come sempre non erano di molto aiuto ‘avrà preso freddo.’ Certo, con 30 gradi di notte di sicuro ha preso freddo...

Era il 10 agosto, la mattina ero andata in piscina come spesso accadeva, buttata letteralmente fuori da casa da mia madre. Quando arrivai a casa la mamma era in crisi, non sapeva cosa fare, papà aveva la febbre altissima, il dottore le aveva detto di chiamare subito un ambulanza, cosa che aveva fatto andare in crisi papà “lasciatemi qui, non voglio morire in ospedale, fatemi morire qui.” e la rabbia che credevo aver sopito completamente si risvegliò più forte di prima, fino a quel momento mio padre aveva continuato a lottare, ma ora, sentirlo parlare così mi faceva male, se lui smetteva di lottare non c’erano speranze.

Ovviamente i problemi non erano finiti, l’ambulanza non sarebbe venuta per: “una semplice febbre” cito testualmente. Solo l’intervento del dottore di famiglia alla fine li ha fatti cedere.

Arrivammo in ospedale nel pomeriggio, ad attenderci una gelida sala d’aspetto del pronto soccorso. Mio padre fu visitato solo la mattina dopo e fu spostato nel reparto di pneumologia. Altra parola che non conoscevo e che avrei preferito non conoscere. Passavamo le giornate lì, io con i miei libri, la mamma vicino a papà.

Lui parlava pochissimo, mangiava quasi nulla. I dottori suppongo ci ritenessero trasparenti, perché se non fosse che la mamma si piantava davanti a loro per cercare di sapere qualcosa non avremmo mai saputo che un polmone di papà era collassato e l’altro era sulla stessa strada. Credo che loro oramai sapessero che non c’erano speranze, lo sapevano benissimo, ma non dicevano nulla. Impari a conoscere le espressioni delle persone in ospedale, impari meglio di qualsiasi altro posto.

Una sera, dopo cena prima di andare a casa lo salutai, papà mi prese la mano, allontanò il respiratore e mi disse che il giorno dopo potevo restare a casa, dovevo pensare solo alla tesi, e poi mi disse che mi voleva bene. Io lo abbracciai ma non dissi nulla. Non siamo mai stati una famiglia che parlava molto dei propri sentimenti, non mi hanno cresciuta a pane e ti voglio bene detto ogni cinque secondi, non ce n’era bisogno, lo sapevo senza che me lo dicessero e per questo probabilmente mi limitai ad abbracciarlo. Non potevo sapere che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrei sentito la sua voce.

Il giorno dopo lo portarono in terapia intensiva, che fondamentalmente è una sorta di purgatorio, un limbo in cui ho incontrato persone straordinarie, e ho visto cose che non avrei mai voluto vedere.

In terapia intensiva ci sono regole molto severe, si può entrare uno alla volta, per poco tempo. Si devono indossare sovra scarpe, camice, cuffia e mascherina. L’orario di visita è semplicemente mezzora la mattina e un’ora al pomeriggio. La mattina inoltre, sempre in quella mezzora, c’è l’incontro con un medico, in fila si attende il proprio turno per sapere, capire, sperare o smettere di farlo.

Nella sala d’aspetto, separata da tutti gli altri, bastava un occhiata per conoscere tutti, ti capivano, ti riconoscevano, e tu riconoscevi loro, non tanto per il viso o altri tratti, ma per gli occhi. In quelle settimane ho imparato a riconoscere gli occhi delle persone che come me e mia madre saltavano a ogni squillo di telefono, terrorizzati da ciò che potevano sentire dall’altra parte, persone che facevano ruotare la loro vita attorno a quella maledetta ora e mezza.

Quello che ho visto in quella settimana, a parte il corpo di mio padre circondato da vari macchinari e quasi mai sveglio, mi ha segnata. Ho visto mariti imboccare le mogli, figli che parlavano ai genitori di qualsiasi cosa fosse successa cercando di cancellare il silenzio che veniva dell’altra parte, fratelli che tenevano la mano a quella che sembrava una mummia, tanto era bendato, ma che in realtà era colui con cui erano cresciuti, madri che davano il consenso per la donazione degli organi dei loro figli dopo un incidente. Fidanzati sconvolti perché nello stesso incidente non si erano fatti nulla. Ho visto tanto, conosciuto più dolore di quanto credevo di poter sopportare, ho persino imparato a capire cosa volessero dire i grafici su quei macchinari il cui beep mi fa venire ancora la pelle d’oca.

Poi arrivò il 28 agosto, era un martedì, il caldo era ancora più opprimente. La mattina il dottore era stato chiaro, nessuna speranza, era inutile qualsiasi cosa, l’unica cosa che potevano fare era lasciarlo andare senza fargli provare alcun dolore, potevano volerci ore forse un giorno, ma ormai quello restava. Ci fecero tornare a casa, ricordo il silenzio mentre dal primo piano ci spostavamo all’atrio grande e luminoso, odiavo tutta quella luce, e poi non so bene come, le lacrime cominciarono a uscire, senza che potessi far nulla per fermarle. Mi ritrovai in ginocchio senza riuscire a fare altro che piangere. Durò poco, mi rialzai e andammo verso la macchina. Arrivate a casa aspettammo,  ogni rumore ci metteva in allarme, e nel pomeriggio la telefonata che sapevamo doveva arrivare, arrivò.

Quando raggiungemmo l’ospedale erano le 16, troppo presto per trovare la porta del reparto aperta, suonammo, bastò solo il cognome per far si che ci aprissero. Un’infermiera ci fece indossare il camice e tutto l’occorrente e per la prima volta potemmo entrambe da lui.  Superammo gli altri letti, dove altre persone stavano lottando contro tutto per sopravvivere, con un indifferenza che spero non proverò mai più. Presi la mano di mio padre, mia madre dall’altro lato, e aspettammo.

Un uomo può metterci parecchio a lasciarsi andare, mio padre ci ha messo quasi un ora. Il suo cuore non voleva saperne di smettere di lottare. Batteva furioso e aritmico, nella speranza di riuscire a resistere. Lottava contro lo stesso corpo che lo ospitava. Lotta che quella volta perse. Alle 17 mio padre era morto e con lui anche una parte di me, come credo accada a tutti.

Però, però la parte di me che morì con lui ha lasciato posto a una parte di lui. Ai ricordi che possiedo ma che forse ora non so neanche di possedere, che prima o poi torneranno e mi permetteranno di ricordare con un sorriso quello che ho vissuto con lui.

Sì sono certa che quei ricordi ci sono, devo solo farmi forza e aspettare. Vivere ogni giorno pronta a conoscere solo il bene delle persone, lasciando perdere il resto. È questo che avrebbe voluto, e questo il modo in cui ho deciso di vivere.
 

E ora vi lascio, scusatemi ancora per avervi rattristato, ma ne avevo davvero bisogno.

E se vi chiedete perché ho deciso di chiamare questo mio racconto neve, beh il motivo è semplice, la neve è fredda, sembra che porti solo morte, che non può dare nulla se non gelare la terra, ma non è vero, la neve ha calore e dona vita, ed è questo quello che voglio il ricordo di mio padre mi lasci. Perché lui amava la vita, nonostante tutto, nonostante il dolore e le promesse infrante lui l’amava, ed è quello che voglio fare io, voglio essere neve.
Grazie a tutti.
  
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