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Autore: Kylu    28/08/2014    2 recensioni
Daisy Watson, distretto 11.
Sedici anni di cui gli ultimi sei trascorsi sostituendo la madre nel prendersi cura dei due fratellini più piccoli.
Un padre mai realmente presente, l’eccessivo lavoro nei frutteti che pare una lunga agonia destinata a non finire mai.
Un fratello maggiore come unica ancora di salvezza.
Unito a Daisy più che mai nella crudeltà della vita nel distretto...
Fino a quando un grido disperato e l’ennesimo eccesso di bontà di un cuore troppo grande portano la ragazza a rinunciare alla propria vita, al proprio futuro, a qualunque forma di speranza.
Ma non a se stessa.
Genere: Avventura, Azione, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Tributi edizioni passate
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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~~CAPITOLO UNO

 

“Dadi, Dadi!”
Erwin si precipita in cucina attraverso la piccola porta di legno dalla vernice scrostata che da su quel microscopico fazzoletto verde che è il nostro giardino.
Il nostro piccolo paradiso segreto.
“Dadi! Ho un regalo per te! L’ho fatto io” mi dice con la sua vocina, tutto orgoglioso.
Appoggio il vestito liso dagli anni che stavo rammendando, mi giro e mi accuccio alla sua altezza.
A sei anni appena compiuti, Erwin è alto quanto un bottone, ma ancora più fragile. Gli scompiglio i capelli con tenerezza, mentre lui mi sventola qualcosa davanti agli occhi, tutto contento.
“E’ per te, regalo” mi ripete.
Tra le manine appiccicose dal cucchiaino di marmellata che ho permesso a lui e a Yohann di gustare questa mattina regge un pezzetto di corda sottile decorato con qualche schizzo di colore.
Ricordo ancora quando papà mi ha insegnato a preparare quelle pastelle colorate utilizzando i fiorellini che punteggiavano il giardino. Mi sono sporcata tutta la faccia di lilla, e lui ha riso di gusto.
Era ancora il periodo in cui sapeva sorridere.
Quando c’era ancora mamma, certo.
“E’ bellissimo, Erwin” dico al piccolo. Poi mi lego velocemente al polso sinistro quel braccialetto improvvisato, così ricco dell’affetto innocente che solo i bimbi sanno provare.
“Vai a chiamare Yohann, che dobbiamo prepararci!” gli dico poi, simulando allegria. Lui schizza via.
E’ giorno di mietitura.
Di quattro fratelli, quest’anno sono l’unica a doversi sottoporre al sorteggio mortale degli Hunger Games.
Jake, alla veneranda età di diciannove anni, è ormai al sicuro.
Non posso esprimere a parole il terrore che ho provato l’anno passato.
Jake non ha mai permesso a me di sobbarcarmi le tessere per la scorta di cibo, e con una famiglia di cinque persone da sfamare, a diciotto anni le letali striscioline di carta con il suo nome sono comparse un’infinità di volte.
Fortunatamente, la buona sorte in qualche caso può davvero essere a nostro favore.
Qui nel distretto undici, dove la popolazione è molto più numerosa che altrove, solo una parte dei cittadini è tenuta a presenziare durante il sorteggio.
A quanto pare la mia famiglia deve stare simpatica – o antipatica, punti di vista – a qualche autorità, perché da che io ricordi ogni anno il giorno della mietitura l’abbiamo passato in piazza vestiti a festa.
Erwin ricompare con un Yohann infangato dalla testa ai piedi.
“Siete proprio delle piccole pesti, voi due!” dico, spostando fino al centro della stanza un catino d’acqua tanto grande da contenere quasi i due bambini contemporaneamente.
“Noo, il bagno no!” cominciano a lagnarsi i piccoletti.
“Prima lui, è più grande!” dice Erwin.
“No, prima lui, prima lui!”
“Ma non è giusto!”
Io alzo gli occhi al cielo e continuo a sciogliere un poco di sapone nell’acqua tiepida, fino a quando Yohann con uno spintone manda a gambe all’aria il fratellino, che scoppia nell’immancabile pianto disperato.
Sempre la solita storia. Quei due bisticciano affettuosamente tutto il giorno e, giocando, capita che si facciano male a vicenda, ma in fondo si vogliono un gran bene.
A volte mi chiedo se, allevati da una vera mamma, sarebbero cresciuti più sereni.
Mezz’ora dopo entra Jake che, come sempre, finge di non riconoscere nessuno dei tre da quanto siamo puliti e ben vestiti. E’ un piccolo gioco che facevamo da piccoli con mamma quando lei, papà, Jake ed io eravamo ancora una vera famiglia.
Ci si diverte con poco, qui nell’undici.
Finisco di intrecciarmi i capelli mentre Jake solleva un piccolo per braccio e gira veloce su se stesso, tra i loro urletti di gioia.
E’ forte, Jake. Spesso scherzando gli ho detto che, se fosse stato estratto, avrebbe avuto buone probabilità di vincere.
Sento che manda i due fuori casa ad aspettarci e mi si avvicina.
Poso la spazzola di legno e mi giro per guardarlo negli occhi, d’un colore così fuori luogo nel nostro distretto. Un’altra stranezza che ci accomuna.
Mi poggia le mani sulle spalle, e la sua stretta è forte, solida, calda. Una stretta che sa di casa.
Rimaniamo un paio di minuti così, a comunicare come solo noi sappiamo fare, sguardo contro sguardo, grigio chiaro contro grigio chiaro, il mio perenne smarrimento contro la sua sicurezza.
Mi chiedo sempre come avrei fatto senza di lui in questi anni.
Da quando mamma se n’è andata e ci ha lasciato da accudire due fratellini orfani di madre e, a conti fatti, anche di padre.
“Le probabilità che esca il tuo nome sono bassissime. Lo sai” dice infine Jake, strappandomi dai miei pensieri tristi. “Ma non è quello il problema, vero?”
Scuoto la testa. Chiudo gli occhi, perché sento le lacrime che premono per uscire, e sono ormai passati i giorni in cui avevo il diritto di mostrarmi così vulnerabile.
“Come faccio, Jakie? Come faccio a guardare un altro anno due ragazzi innocenti andare al macello? Sono i nostri vicini, i nostri compagni di scuola, ragazzi che hanno lavorato ai nostri stessi frutteti, braccia amiche che ci hanno aiutato quando le ceste del raccolto diventavano troppo pesanti… Come facciamo a guardare e non fare nulla, anno dopo anno? Può anche non toccare a noi, a me, ma quest’incubo non finirà mai. E se anche Yohann ed Erwin usciranno incolumi da tutto questo, poi verranno i nostri figli, e i nostri nipoti…”
“Fa schifo” concorda lui senza mezzi termini. “Fa schifo. Ma fino a quando non avremo una possibilità di cambiare le cose, è inutili fare i martiri. Quindi su, un bel sorriso per le telecamere!”
“Ma…”
“Daisy Watson” mi riprende lui. Rafforza la presa sulle mie spalle, poi mi lascia andare.
“Vado a svegliare papà. Poi andiamo.”

     ***


La piazza è gremita di gente, eppure è avvolta da un silenzio talmente denso che sembra rallentare i movimenti.
Come sempre ci separano, ci schedano e ci suddividono per sesso ed età.
Se allungo il collo riesco a scorgere Jake oltre la recinzione che separa i ragazzi dai propri familiari. Tiene stretti Erwin e Yohann, protettivo.
Di papà invece non c’è traccia.
Penso che quest’anno per i miei piccoletti sarà meno terribile degli anni passati, quando erano soli ad affrontare il rischio di perdere non uno, bensì due fratelli.
Raggiungo alcune mie compagne di classe, pigiate nella calca qualche metro più in là.
Con gli straordinari a lavoro nei frutteti, una casa da mandare avanti, un padre depresso da tenere in piedi e due bambini da crescere, accudire e sfamare, il tempo che posso dedicare alle amicizie è davvero scarso.
Oltre le ore di lezioni obbligatorie fino ai diciotto anni e qualche compagno di lavoro non ho quasi nessun rapporto con i ragazzi della mia età.
In ogni caso, so di essere piena di persone che mi ritengono un’amica preziosa, che mi chiedono consiglio, che addirittura mi indicano come esempio ai fratelli minori.
Jake dice che è per la maturità che ho dovuto sviluppare così precocemente.
Io dico che non mi conoscono bene, perché matura è l’ultimo aggettivo con il quale mi definirei.
L’inno di Panem esplode nella piazza violentando quel silenzio dignitoso che è il nostro unico modo di dimostrarci contrari.
Sul piccolo palco approntato dai Pacificatori sale come ogni anno la tizia improbabile di Capitol City, Jannie Shussy.
Tutto in lei è eccessivo, come a sottolineare la firma della capitale, e questo negli anni ha portato la gente di qui a guardarla con odio e ilarità assieme.
Cammina su scarpe ridicolmente alte, quest’anno di un lezioso color rosa caramella. Le sue braccia sono ornate da righette orizzontali di qualche centimetro che, a quanto pare, cambiano colore in base al tempo (dal giallo squillante nelle giornate di sole al grigio pallido dei giorni ventosi!, recita la sua unica intervista mai passata in TV).
Le sue anonime iridi nocciola sono contornate da lunghe, orrende estensioni alle ciglia di un giallo canarino intonato ai capelli, rasati sulla nuca fino all’attaccatura delle orecchie, poi raccolti in un’onda iper-laccata e fermati sulla fronte con un vistosissimo fermaglio a fiocco.
Mi giro per cercare un contatto visivo con Jake.
Per tutta la durata del video proiettato sui maxischermi e dei soliti inutili discorsi ci guardiamo ridendo di nascosto.
Prendere in giro tutto e tutti è l’unico modo che da sette anni – dal primo anno di mietitura per lui – abbiamo trovato per sopportare tutto questo.
Mi riscuoto solo al trillo della Shussy che annuncia “prima le ragazze!” e comincia a ruotare la mano tra le migliaia di foglietti piegati su se stessi e riposti nella boccia di vetro.
Ne sceglie uno.
Lo estrae.
Ci giocherella qualche secondo, lo stropiccia con le dita.
Lo apre.
“Jasmeen Connel.”

Non sono io.

Non faccio in tempo a sentirmi sollevata che un urlo mi colpisce il cuore come uno schiaffo.
La massa di ragazze davanti a me si apre, e io la vedo.
Avrà pressoché la mia età. Pallida, tremante. Il suo cognome mi risulta familiare, ma non capisco perché.
Alle telecamere si presenta una scena straziante. A Capitol City saranno contenti. Loro ci sguazzano in queste cose.
Immagino che, vivendo nelle loro comode casette di bambagia, per loro sia facile divertirsi davanti ai drammi della povera gente dei distretti.
Quella che presumo essere la madre di Jasmeen si scaglia contro il recinto, urla il nome della figlia, più e più volte.
Tutto attorno è silenzio, un silenzio carico di dolore.
Non smette, no, Jasmeen no!, non ho mai visto una tale disperazione sul volto di qualcuno, la mia bambina, vi prego, la mia bambina, e in anni di Hunger Games dovrei intendermene ormai di dolore.
Quando iniziano a volare insulti diretti a Capitol City, i pacificatori intervengono e zittiscono la donna con la forza, ma non prima che la sua ultima domanda riecheggi sulla piazza.
Perché anche lei?

E allora ricordo.
Ricordo che se il cognome di Jasmeen mi è familiare è perché non più di due anni fa suo fratello è stato estratto per gli Hunger Games.
Di lui non è rimasto che un triste fantasma negli occhi di chi lo ha amato.
Ricordo che lo stesso anno, in questa stessa piazza, c’è stata una breve funzione per il padre di Jasmeen, morto per un incidente con i macchinari addetti all’imballaggio del raccolto.
Di lui non è rimasto nemmeno un corpo su cui piangere.

Ed è in questo momento che
il mio corpo
si muove.

Non so se per istinto, non so se per comando di qualcosa più grande di me.
Non penso a nulla.
In pochi passi sono da Jasmeen, la abbraccio brevemente, poi la scosto di lato.
Non penso a nulla.
Non penso alla parola "suicidio".
Tutto è semplicemente troppo.
Troppo ingiusto, troppo spaventoso, troppo terribile.
Non penso a nulla, ma in fondo lo so, so che è quello che cercavo, che ero in attesa spasmodica della goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso.
Perché davanti a certe cose non si può stare fermi a guardare.
Bisogna fare qualcosa.
Per quanto suicida ed estremamente idiota questo qualcosa sia.

 

Nessun tremito nella voce.

“Mi offro volontaria come tributo.”

 

 

 


ANGOLO AUTRICE
Scusate per la lunghissima attesa. L’estate non è il momento migliore per mettersi a scrivere una nuova fanfic.
In ogni caso, ora che ho preso piede pubblicando il primo capitolo, spero (e prometto…) di aggiornare decisamente più in fretta.
Sarebbero molto gradite recensioni di ogni sorta, idee, consigli, critiche.
La mia immancabile e insostituibile Ayumi alias Hemmoshug mi consiglia di scrivere qui i miei dubbi. E allora vi scrivo che spero di non aver fatto passare Daisy come una scema masochista ritardata mentale che si offre a caso per una tizia a caso. Niente di più sbagliato. Ho provato a spiegare le sue ragioni; temo di non esserci riuscita.
In ogni caso, al prossimo capitolo (:
Kylu

  
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