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Autore: giascali    29/08/2014    4 recensioni
I cristiani credono che, dopo la morte, a seconda del nostro comportamento, andiamo o all' Inferno (che, quando diciamo "va all' inferno!", sia una specie di predizione?) o in Paradiso. Gli Indù, invece, pensano che ci reincarniamo. Gli antichi greci avevano una visione più complicata, ma anche molto più interessante (o quanto meno per me). Gli ebrei, invece, non credono nella vita dopo la morte. Ma tutte queste teorie si sono rivelate false ed Ellison Hyde, sedicenne ragazza inglese, grande amante dei libri e incapace di vivere nell' ordine, sta per scoprirlo. E così, tra amici che fanno sedute spiritiche, il fantasma del nonno della tua migliore amica e molto altro, Nellie troverà un mondo che sembra uscito dall' immaginazione di Tim Burton e scoprirà che, dopotutto, non è l'unica con una vita complicata, sopratutto se si parla di un estroverso ragazzo che non ricorda niente della sua vita...
Genere: Dark, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 9
La biblioteca dei morti
 
 
Rilessi un’ulteriore volta il messaggio che Dominique mi aveva appena mandato, per poi iniziare a scervellarmi su cosa risponderle. Il testo diceva: “Ehi, David ed io andiamo a vedere la replica de ‘Il Castello Errante di Howl’, vuoi venire?”.
Mi passai distrattamente una mano tra i capelli. Domi adorava quel genere di film e quello che oggi sarebbe andata a vedere era uno dei suoi preferiti ma non potevo venire con lei, anche se non mi avrebbe fatto male mettere da parte per un qualche ora l’altra dimensione. Umh, dovevo trovarle un nome al più presto.
Lanciai un’occhiata ad Abraham. Stava guardando fuori dalla finestra, le mani incrociate dietro la schiena. Mi sarebbe piaciuto fargli incontrare un’altra volta Dominique ma ieri avevo dedicato l’intera giornata a capire come farlo ritornare indietro, siccome non vedevo come potesse comunicare ancora con Dominique e questo era ciò che più voleva al mondo, lo sapevo, e morivo dalla voglia di vedere la fantomatica biblioteca di cui mi aveva parlato Percy.
Dopo aver preso in considerazione l’idea che l’anello che avevo trovato fosse suo, né io né lui ci eravamo sentiti di ritornare al palazzo del Consiglio e così avevamo finito per parlare.
Poi, dopo quella che era sembrata un’ora, ero ritornata indietro.
Mi ripromisi di scoprire se potessi controllare anche quando tornare nella mia dimensione.
Digitai velocemente un “mi dispiace, ho un impegno.” e  presi le chiavi dal gancetto apposito. Io  e mia madre ne eravamo dipendenti in una maniera schifosamente imbarazzante, visto che eravamo entrambe distratte per natura e tendevamo a scordarci dove posavamo le nostre cose. Dopo la quarta volta che aveva dimenticato dove avesse messo il suo paio di chiavi, mia madre aveva appeso il gancetto, dichiarando con determinazione, e un orgoglio per niente velato, che d’ora in poi lì avremmo agganciato le nostre chiavi.
Ignorai il mio cellulare che mi avvisava dell’arrivo di un altro messaggio e aprii una porta. – Vado. – avvisai Abraham. Sorrisi. Era come se fosse ancora vivo e avesse bisogno di sapere dove fossi.
Abraham distolse lo sguardo dalla strada. – Il tuo telefono ha squillato. – mi fece notare. Annuii.
-Lo so. –
Sollevò un sopraciglio, assumendo un’espressione lievemente confusa. – Non lo leggi? –
Scossi la testa. – Ora ho solo voglia di andare là. –
Fece un sorriso furbo. – C’entra forse un certo ragazzo che assomiglia ad Animal? – insinuò.
Sollevai gli occhi al cielo e sbuffai infastidita, sperando che non si accorgesse che intento ero arrossita. Poi rincontrai il suo sguardo azzurro e sorrisi. – No, ma una biblioteca. Devo aggiungere altro? –
Mi salutò con un “ sta’ attenta” che mi fece ricordare tremendamente mio padre.
 
Ricomparii, come al solito, sulla mia lapide. Ora che sapevo quale fosse il suo significato, vederla rendeva meno irrequieta. Era una garanzia che, nonostante fossi capace di andare da una dimensione e l’altra, una delle quali, tra l’altro, accessibile soltanto con la propria morte, vivessi, esistessi ancora in entrambi i mondi. Era una sensazione strana ma rassicurante. Se devo essere anche sincera, mi faceva sentire anche leggermente potente. Ero atterrata a sedere, senza neanche prendere alcun tipo di botta, potevo ritenermene soddisfatta. Non sapevo ancora come fosse possibile essere pienamente padroni di quei viaggi ma quella volta, in un modo o nell’altro, mi ero concentrata, pregando mentalmente di non finire per contro qualcosa o qualcuno (come successe la seconda volta che avevo “viaggiato”) e aveva funzionato.
Rimasi seduta per un po’, ogni volta che succedeva, mi sentivo disorientata, con la testa che mi girava.
Solo quando riuscii a riprendermi dal mio stato di intontimento, mi resi conto che nel Cimitero dei Vivi non c’era nessuno. Deglutii. Ero da sola, come la prima volta che ci ero arrivata, però, la situazione era totalmente diversa, perché adesso sapevo dov’ero e, in un certo senso, non c’era Percy pronto a infastidirmi con riferimenti a suoi omonimi figli di Poseidone.
Mi diedi subito della stupida.
Non aveva senso affidarmi completamente a qualcuno che non ricordava neanche la sua vita. No, dovevo essere indipendente, in quella mia “missione”.
Mi misi in piedi e andai con passo spedito e sicuro verso ilo cancello del cimitero. Questa volta non mi fermai a guardarne il cartello o le case ma posai gli occhi subito sulla strada, per poi insultarmi fra me, nuovamente. Certo che non ero completamente indipendente: non ricordavo per nulla la strada per andare al palazzo del Consiglio!
La prima volta che ci ero andata, mi ero limitata a seguire Percy, Peter e Bree ed ora non avevo la minima idea di dove e quante volte dovessi svoltare per raggiungerlo.
Con uno sbuffo, mi sedetti sul marciapiede davanti al campo santo. Mi presi la testa con le mani, lasciando che i miei capelli mi isolassero dal resto dell’ Oltretomba, così mi ero ritrovata a volerlo soprannominare, nonostante non fosse un nome molto originale ma lo trovavo azzeccato e poi Sibyl vi si era riferita così, quindi doveva essere giusto, in buona percentuale.
Come potevo fare? Dovevo chiedere indicazioni a qualcuno del luogo? Non c’era nessuno, però. Dovevo andare a suonare di casa in casa? No, avrebbe dato troppo nell’occhio e non volevo attirare l’attenzione.
Alzai la testa e, quando il mio sguardo scorse una piccola casa di pietra, mi ricordai che qualcuno a cui chiedere aiuto c’era: Peter. Mi rimisi in piedi frettolosamente, rischiando, tra l’altro di finire con la faccia a terra, e corsi verso casa sua. Rallentai l’andatura, non appena posai il piede sul piccolo vialetto che tagliava in due il giardino di Peter, poi quando mi ritrovai davanti alla porta di legno scuro, mi fermai, notandovi una cartolina caduta vicino. Su una delle superfici, c’era una foto color seppia di una ragazza più o meno della mia stessa età. Cercai di prenderla per vederla meglio ma, non appena la mia pelle sfiorò la cartolina, sentii una risata femminile. Mi rialzai e mi guardai attorno ma non vidi nessuno che potesse aver riso, così, questa volta, presi la foto con più decisione.
 
Una ragazza, sui quindici o forse sedici anni, agitava davanti il naso di un bambino di otto anni, dai riccioli castani, identici ai suoi, un fazzoletto colorato. – Prova a prenderlo! – disse. Il bambino non se lo fece ripetere due volte ed iniziò a rincorrerla, ridendo divertito dal gioco che gli aveva appena proposto la sorella maggiore.
 
Con un sussulto, la cartolina mi cadde dalle mani. Cos’è successo? Feci per riprenderla, con l’intenzione di capire se la visione che avevo appena avuto fosse stata causata proprio da quell’oggetto, quando la porta davanti a me si aprì.
-Ciao. – mi salutò Peter con un sorriso enorme. Le fossette gli erano già comparse agli angoli degli occhi castani. Dio, era così carino. Sembrava una calamita per gli abbracci. Mi costò non poco autocontrollo non farlo.
-Ciao. – risposi con sollievo nella voce, perché così potevo chiedergli cosa fosse appena accaduto.
Il suo sguardo cadde sulla cartolina e la prese da terra. Poi, non appena la toccò, i suoi occhi si fecero per un istante distanti. Quando ritornarono normali, sorrise, malinconico e mormorò “Margaret” con voce triste. Incontrò, dunque i miei occhi e il suo sorriso si fece timido. – Grazie per averlo trovato. – mi ringraziò, facendomi capire ancora di meno della situazione corrente.
-Cos’ era quella… -
-Visione? – mi interruppe. Annuii. – Era un ricordo di mia sorella. – si rigirò tra le mani la foto, studiandola. – Si chiamava Margaret. –
-È qui? – domandai, non pienamente certa se fosse sì o no una domanda da fargli, ma non riuscii a trattenermi.
Peter scosse la testa. – No, se ne andò prima… prima… - strinse le labbra, per poi continuare la frase. Dopotutto non doveva essere facile parlare della propria morte, soprattutto se eri un tredicenne che aveva tutta una vita da vivere, ancora. – prima che io morissi. Se ne andò in America. E credo che sia ancora lì. –
Aggrottai la fronte. – Cosa intendi dire? Non penso che sia possibile vivere così a lungo… -
Alle mie parole, sorrise leggermente divertito. – Non intendo quello. Broseley non è l’unica città nel mondo. –
Spalancai gli occhi. -  Stai dicendo che ci sono altre città come questa nell’Oltretomba? Tipo New York? Londra? Parigi? Roma? –
Peter annuì. – Però non possiamo andarci. Una volta che una città diventa la tua casa, se ci muori, non puoi spostarti. Ci rimani per sempre, credo. Non so se si può morire anche qui o qualcosa del genere. –
Sbattei, una, due, tre volte le palpebre, sorpresa di come funzionasse quel mondo così bizzarro. - È triste. – sentenziai dopo qualche secondo.
Peter si grattò la fronte, arruffando i suoi riccioli color cioccolato. – Un po’ ma credo che i ricordi esistano per questo. Per alleviare il senso di nostalgia. – guardò un ultima volta la cartolina, prima di infilarsela nella tasca dei pantaloni beige.
Mi soffermai un istante ad osservare il suo abbigliamento, nonostante non fossi il tipo di persona che giudica le persone per quello che indossano, anche perché io non mi vestivo molto spesso con l’attenzione che ci metteva Dominique, una gran vanitosa, tra l’altro, ma non narcisista, affatto.
Aveva addosso una camicia bianca a maniche corte e pantaloni beige, che gli arrivavano quasi a toccare le scarpe strausate. Era un abbigliamento vagamente formale ma si capiva che non fosse molto costoso, dagli abiti lisi ma puliti.
-Come mai sei qui? – mi domandò, riscuotendomi dai miei pensieri.
Scossi la testa, tentando di concentrarmi a pieno su di lui. – Emh, devo andare alla biblioteca ma… -
-Non hai la minima idea di come arrivarci? – annuii, in imbarazzo. – Perché non me lo hai chiesto prima, allora! –
Sentendo la sua voce allegra, risi e lo ringraziai.
Scosse il capo, come per dirmi che non era nulla di che, chiuse la porta alle sue spalle e cominciò a camminarmi affianco, spiegandomi, ogni tanto, che strada avessimo appena preso, cercando di aiutarmi a memorizzarla più in fretta.
Quando arrivammo al confine con il quartiere residenziale, se lo si poteva definire così, e il resto della città, mi sentii sollevata. Le risposte alle mie domande erano sempre più vicine.
-Margaret era la tua unica sorella maggiore? – chiesi a Peter, non appena oltrepassammo la “Libreria della Luna”.
-Uh? – fece in un primo momento. Molto probabilmente era perso nei suoi pensieri e, sinceramente, mi rincuorava il fatto che non potessi essere l’unica con quella caratteristica. Fece cenno di no. – Ne avevo un’altra, Tara, ed un fratello maggiore, il suo gemello, Victor. Poi c’erano Jordan e Caroline, i più piccoli. –
Spalancai gli occhi. – Famiglia numerosa. - commentai. Peter sorrise per poi annuire. – Ce lo potevamo permettere, in un certo senso. Papà era il proprietario di una fabbrica. Cioè, all’inizio. –
Mi accigliai. – Cosa intendi dire con… - ma non potei continuare la frase che la mia attenzione fu richiamata da un “Ehi, Ellison!” dall’altra parte della fontana, quella con la statua di Ecate.
Sollevai lo sguardo per incontrare poco dopo quello di colui che mi aveva chiamata, Percy, ovviamente.
Mi salutò con la mano ed io feci altrettanto.   
Quando li raggiungemmo, non potei fare a meno di scoccargli un’occhiataccia. – Dov’eri finito? –
Si scambiò uno sguardo divertito con Bree, prima di cominciare a ridere. Sentendo la risata di Bree, rimasi per un attimo interdetta: non l’avevo mai sentita. Bree sembrava una ragazza così seria, tutte le volte che l’avevo vista, mentre cercava di far finta che non esistessi ed in volto aveva quasi sempre la stessa espressione ma con Percy si trasformava. Sembrava più umana, più viva.
Mi chiesi come fosse stata la sua vita passata, magari circondata da uno stuolo di ammiratori, visto il suo aspetto. Bree, con l’accostamento inusuale dei suoi occhi verdi e i capelli platino, che però funzionava, decisamente, il suo fisico snello, forse un po’ troppo magro, e i lineamenti del volto affilati ma piacevoli, era bella.
Scossi la testa. Non erano affari miei, ma, diamine, volevo capirla. Era come se avesse due personalità: una acida ed un’altra allegra e senza pensieri, che usava solo con Percy. Chissà da quanto si conoscevano, quei due.
Mi sorpresi a chiedermi, poi, se ci fosse del tenero, tra loro. Scacciai la domanda dalla mia testa con non poco fastidio. Insomma, non sono qui per questo.
Peter fece un piccolo sorriso, forse anche lui preferiva una Bree sorridente ad una acida. – Ieri hanno pattinato per tutta la città fino a tardi, siccome non sei venuta. – mi spiegò.
Percy smise di ridere ed annuì. – Un grande divertimento comporta una grande sonnolenza. – alzò un dito per dare maggior enfasi alla sua battuta.
Cercai di non ridere alla sua citazione mal riuscita ma mi scappò lo stesso una risatina. Percy se ne accorse e fece un ghigno. Si portò una mano tra i capelli castani e li scosse, arruffandoli ancora di più. – Andiamo? – disse con tono duro Bree. La sua facciata spensierata era già sparita e le braccia incrociate al petto. Il ragazzo accanto a lei annuì e le tolse il braccio dalla vita, che prima non avevo notato, per poi darle un buffetto sulla guancia. Bree parve tranquillizzarsi, perché sciolse le braccia ed iniziò a camminargli accanto.
Cercai con lo sguardo gli occhi di Peter ma lui fece spallucce, come per dirmi che non dovevo farmi troppe domande su di lei, ed iniziò a seguire i suoi amici, gridando un “Ehi! Aspettateci!” che mi fece sorridere, era come se facessi già parte del loro gruppo e la cosa mi piaceva non poco.
Salimmo le scale senza incontrare nessun membro del Consiglio, Peter mi spiegò che si riunivano solamente una volta alla settimana, per confrontarsi. Questi incontri potevano durare tutto il giorno ed era per questo che nel palazzo c’erano dodici camere da letto. La tredicesima, quella mancante, non c’era perché il suo proprietario era membro del Consiglio per diritto e non cambiava mai, quindi aveva direttamente una casa per sé dall’altra parte della piazza.
Stavo per domandargli chi fosse questo fatidico tredicesimo membro, quando finimmo di salire l’ennesima rampa di scale, arrivando così all’ultimo piano del palazzo.
Il soffitto era a cupola e la porta della biblioteca era alla fine della stanza. Doveva essere minuscola. Non potei fare a meno di deludermi. Percy ne aveva decantato le lodi, quel giorno che avevamo scoperto che l’anello era suo ed ora dovevo basare le mie ricerche soltanto su del materiale composto al massimo da una libreria?
Storsi il naso ma non dissi niente, piuttosto mi diressi con passo deciso verso la porta. Era senza serratura, constatai una volta arrivata davanti, con sorpresa. – Ma cosa… ? –
-Devi usare la chiave. – mi spiegò Percy. Mi voltai verso di lui, trovandomelo affianco.
-Quale chiave… oh! – esclamai, quando notai il pulsante d’ottone, assomigliava tanto ad un campanello vecchio stile, con sopra disegnata una chiave stilizzata. Lo pigiai e sotto di esso, dove c’era una piccola rientranza squadrata del muro, apparve dal nulla una chiave.
Esattamente nello stesso istante, spuntò sulla porta una serratura. Presi la chiave, era di ferro nero, grande e antica. Mi ricordava tanto quella di Coraline. Feci scattare la serratura ma, dopo il primo, sentimmo un secondo suono. Sembrava una specie di “pop”. Spalancai gli occhi, quando vidi che la porta si stava avvicinando sempre di più a noi quattro. Feci un passo indietro, intimorita.
Percy deglutì e mi afferrò il braccio. – Non credo che basterà. –
-Cosa intendi dire? –
-Tu… sei un gran lettrice, eh? – mi chiese ignorando la mia domanda.
Annuii, non riuscendo a capire dove volesse andare a parare. Bree imprecò. – Oh, fantastico. –
La porta avanzò ancora e Percy mi strattonò all’indietro, per poi iniziare a trascinarmi fino alle scale. Dietro di noi, sentii che anche Peter e Bree stavano correndo verso di lì ma non ne capivo il motivo. Cioè, cosa stava succedendo? Perché la porta si stava espandendo?
Quando la sopracitata ci si avvicinò ancora più velocemente, decisi che le mie domande potevano aspettare. Aumentai il passo, in modo da non dover essere più trascinata da Percy, anche se mi stava tenendo ancora per il braccio.
Non appena oltrepassammo una linea dorata, spessa circa cinque centimetri, sul pavimento, mi strattonò, facendomi fermare e per poco cadere a terra. Con poca grazia cercai di darmi del contegno ed osservar la porta che, man mano che si avvicinava a quella striscia, di cui mi rendevo conto dell’esistenza solo ora, diminuiva la sua velocità, finché non si fermò.
Ci furono alcuni secondi di silenzio che poi venne spezzato da Percy: - La tua camera deve essere piena di libri. – mormorò, guardando, forse un poco intimorito, la porta.
-Ancora non capisco cosa c’entri con questa porta che ha appena cercato di ammazzarci. – replicai, ignorando la sua osservazione, anche se era vera al 100%.
Bree fece uno sbuffo. – Questa non è una biblioteca come quelle nel tuo mondo. Cambia in base a chi la apre. Ogni chiave da accesso ad una biblioteca diversa e solo il proprietario può usare la sua chiave. – scoccò la lingua. – E la biblioteca non contiene quindi gli stessi libri ma tutti quelli che il possessore della chiave ha letto, vuole leggere o di cui ha bisogno. È per questo che Percy ti ha chiesto se fossi una grande lettrice. – mi sembrò di sentire un filo di tono possessivo, quando pronunciò il nome di Percy. Fece un altro sbuffo seccato. – Questo non farà altro che aumentare il lavoro. –
Aprii la porta e per poco non svenni per la vista che mi si parò davanti. La biblioteca era immensa. Occupava l’intero ultimo piano del palazzo e, siccome si parlava dunque della cupola, era rotonda, a più piani. Ne contai almeno cinque. Degli scaffali aderivano perfettamente alle pareti, che straripavano di volumi, pergamene, volantini e quaderni, e coprivano interamente le pareti. In un angolo, scorsi una stretta scala a chiocciola che portava fino al tetto, su cui vidi anche una botola.
In mezzo alla sala correva un tavolo in cui erano posate, ad intervalli di tre metri, o forse di più, delle lampade. Al muro davanti alla porta, c’era uno schermo con il conto a rovescia. Segnalava che erano già passati due minuti delle tre ore di tempo ma adesso me ne importava poco.
Girai su me stessa per osservare meglio la biblioteca. Adesso capivo perché Percy me ne avesse parlato in quel modo. Era magnifica.
Sentii un colpetto di tosse. Mi voltai e vidi sulla soglia Percy, Bree e Peter. Il primo stava guardandosi attorno fischiando colpito, la seconda aveva un’espressione seccata e il terzo stava con il naso all’aria, guardando il soffitto.
Feci un sorriso colpevole. – Mia madre ha una libreria. – mi giustificai.
Bree aveva ragione: ci sarebbe stato molto lavoro da fare.


Note dell'autrice:
E finalmente siamo arrivati al capitolo in cui Ellison vede la biblioteca... Ne voglio anch'io una così ç_ç 
Umh, so che all'inizio può sembrare non molto pertinente al tema della vita dopo la morte della storia ma c'è una spiegazione per come funziona la biblioteca e la metterò più avanti >_>

La certoline/ricordi invece sono più un espediente narrativo e, sinceramente, mi piaceva l'idea che ci fossero. 
Umh, non ho altro da aggiungere, ringrazio le ragazza che hanno recensito lo scorso capitolo e spero che anche questo vi piaccia ^-^

 
   
 
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