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Autore: Sarah Carry Herondale    30/08/2014    2 recensioni
Sophie è la ragazza un po' acida e stronza che tutti i ragazzi vorrebbero portarsi a letto e che tutte le ragazze invidiano. Ma questa, lei lo sa benissimo, è solo una facciata per nascondere la sua vita difficile e quello che è costretta a fare per far vivere la sorella.
Non crede nell'amore, solo nella musica e nelle sigarette e sa che nessuno può rompere un cuore già spezzato
Genere: Drammatico, Sentimentale, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Ho la musica a palla nelle orecchie, la voce di Gerard Way che mi accompagna lungo il tragitto verso l’istituto superiore della nostra piccola cittadina dispersa nel centro dell’America.
Me la prendo comoda anche perché sono in largo anticipo e non mi va di aspettare da sola li finché non arriva Julie, quella che molti definirebbero la mia migliore amica ma che in realtà non è altro che un pidocchio morboso appiccicato al mio culo e non c’è niente che possa scollarla da li.
Certo sarebbe figo poter dire che lei è mia amica perché le piaccio come persona ma in realtà è una gran cagata, mi segue ovunque come un cagnolino isterico solo per avere i riflettori puntati addosso.
Non per male, ma senza di me chi noterebbe quell’oca isterica?
Non sa niente di me, ne quale sia il mio colore preferito (azzurro, per la cronaca) o il libro che adoro (Orgoglio e Pregiudizio) e a me non interessa minimamente farmi conoscere come persona.
Preferisco mantenere quella facciata da ragazza perfetta che ormai mi porto addosso come una seconda pelle, che mi fa apparire bellissima e quando cammino per i corridoi della scuola tutti si girano a guardarmi, il tipo che le ragazze vorrebbero avere come “amica” e che i ragazzi vogliono portarsi a letto.
La ragazza perfetta e inafferrabile che qualsiasi maschio adolescente crede di poter possedere quando in realtà a volte non ricordo nemmeno i nomi di quelli con cui vado.
Tipico orgoglio maschile che li fa apparire come dei palloni gonfiati e basta la punta di un tacco a spillo per fargli fare puff.
Mentre camino per la strada che da casa mia porta fino alla scuola faccio ondeggiare i fianchi e un sacco di ragazzi si voltano nella mia direzione per fischiare la loro approvazione al mio corpo fasciato dai jeans aderenti e dalla camicia a quadri. Guardano appena i miei lunghi capelli castano scuro che mi ricadano sulla schiena, o i magnetici occhi verdi bordati da eye-liner nero, il piccolo viso dai tratti decisi ma dalla bocca delicata. Lo notano appena.
Li guardo tutti negli occhi salutandoli con un mezzo sorriso e lasciandoli in mezzo al marciapiede a sbavare.
Quello che voglio è proprio farmi desiderare, fare in modo che quando ci incontreremo alla prossima festa facciano a gara per portarmi a letto e io accetto l’offerta migliore.
Il sesso ormai è diventata una cosa che faccio soltanto per soldi; ha perso completamente quell’aura magica e misteriosa per cui la prima volta diventa un momento speciale.
La mia prima volta la ricordo perfettamente. Era una giornata grigia dove le foglie cadevano dagli alberi lasciandoli nudi e spogli all’inverno ormai imminente.
Avevo quattordici anni e dovevo prendere l’autobus per tornare a casa ma ero rimasta senza soldi. L’autista decise di venire in contro a quella povera ragazzina smarrita che ero, la bellezza appena sbocciata celata ancora dai tratti infantili. E così si prese la mia verginità e io ottenni il mio biglietto per tornare a casa. Fu l’unica volta che piansi davanti ad uno sconosciuto e anche l’ultima che versai una lacrima. Ero sola e spaventata e avevo appena fatto una cosa che avrebbe per sempre cambiato la mia vita.
Sono passati quattro anni da quella volta e ormai ogni volta che un ragazzo  mi porta a letto non sento niente, mi limito a lasciare che facciano quello che devono fare ed è finita la, nessun coinvolgimento emotivo, nessun piacere. Niente.
L’unica cosa che sento chiaramente sono le banconote che mi rifilano quando hanno finito e chissà se tornerò di nuovo nel loro letto.
A distogliermi dai miei pensieri è un ragazzo alto che mi si avvicina, i capelli scuri che sparano in varie direzioni, gli occhi neri e magnetici. Ha una cicca in bocca e dopo avermi dato un bacio sulla guancia me la porge.
Io la prendo sorridendogli. –Ciao bellezza, come stai?- mi chiede.
-Magnificamente Paul, soprattutto ora che ho una sigaretta in mano-.
Lui mi rivolge un sorriso sghembo e mi avvolge la vita con un braccio, sussurrandomi all’orecchio  -Allora, ti sei divertita l’altra sera?-
Cerco di divincolarmi dalla sua stretta. –Non ho voglia di parlarne adesso. Anzi facciamo che non ho proprio voglia di parlarne, punto- gli dico guardandolo fisso negli occhi per far capire che non sto scherzando.
Lui mi guarda con una luce di sfida negli occhi: -Che c’è puttanella, non vuoi far sapere agli altri che ti ho scopato?- dice a voce un po’ troppo alta tanto che alcuni ragazzi si voltano incuriositi nella nostra direzione.
-No, è che non voglio ricordarti che per scopare una come me la devi pagare- e detto questo mi stacco dal suo corpo e riprendo, impassibile, a camminare.
Paul si è fermato in mezzo al marciapiede e mi guarda con un espressione tra l’umiliato e l’incazzato segno che l’ho fatto arrabbiare ma io me ne frego e continuo a camminare facendogli un cenno con la mano senza più voltarmi nella sua direzione.
Arrivo a scuola che il parcheggio è già gremito di auto e studenti e io butto la mia sigaretta pestandola per spegnerla.
Quando passo di fianco ai gruppetti fermi a chiacchierare molti si girano nella mia direzione a salutarmi e pronunciando le solite frasi da leccaculo che ormai conosco a memoria.
“Oh Sophie, sono così felice di vederti” “Beh io no!”. Vorrei gridare in faccia a tutti quello che penso di loro ma non posso, non con la mia facciata da mantenere.
All’ingresso dell’edificio principale Julia mi viene incontro saltellando e ciarlando allegramente di una qualche festa alla quale vuole andare.
La afferro per un braccio e la conduco verso i bagni delle ragazze dove mi do una sistemata, pettinando i capelli già in ordine e ritoccando il trucco già perfetto.
Nel corridoio sento che suona la campanella e gli studenti si affrettano a raggiungere le aule.
Io e Julia aspettiamo che la folla si disperda per fare in classe il nostro ingresso trionfale.
Il prof Hanton, un noioso uomo di mezza età senza alcuno scopo nella vita se non torturare poveri adolescenti, ci guarda con disappunto: -Sono contento che ci abbiate degnato della vostra presenza per la lezione di oggi- dice sarcastico.
Io senza scompormi rispondo: -Già, anche se avrei preferito fare shopping in centro, ma comunque…-
I miei compagni cercano di nascondere i risolini mentre io mi dirigo verso il mio posto vicino alla finestra che da sulla strada, il prof che inizia a spiegare la lezione con la sua voce soporifera.
I secchioni nelle prime file si mettono a prendere appunti, mentre le ochette parlano della prossima festa come se non fossero sedute nell’aula di una scuola e poi ci sono io che guardo fuori dalla finestra ad osservare i passanti e a chiedermi come siano le loro vite, se sono felici o no.
A questo punto la domanda mi sorge inevitabile. Io sono felice della mia vita?
Mi soddisfa davvero avere la scuola ai miei piedi, essere invitata a tutte le feste e andare a letto con qualsiasi ragazzo strafigo io incontri?
Non lo so ma credo che per ora mi basti.
A riscuotermi dal filo dei miei pensieri è un bigliettino che mi lancia Julia.
Lo srotolo e vedo che con la sa calligrafia tutta curve e ghirigori mi ha appena invitato alla festa di cui parlava prima all’ingresso.
Sinceramente non ho molta voglia di musica rimbombante nelle orecchie, luci stroboscopiche e mani di sconosciuti un po’ troppo invadenti ovunque.
Anche se ho bisogno dei soldi che ricavo dallo andare a letto con sconosciuti penso che anche se per questa sera salto il giro non succede niente di grave. Sul mio banco appare un altro bigliettino di Julia. Non lo apro nemmeno, mi limito a guardare il suo viso pieno di aspettative e scrollare le spalle in segno di diniego.
-Perché?- leggo dal labiale della sua bocca con troppo lucidalabbra.
-Non sono cazzi tuoi- sibilo tra i denti e subito si gira verso la cattedra, fingendosi interessata a quello che il professor Hanton sta spiegando.
Ha bisogno di me a quella festa, ha bisogno che qualche idiota arrapato la noti e la faccia divertire solo per raccontare tutto alle ochette leccaculo il giorno dopo.
Mi chiedo spesso perché non mi liberi di lei visto che insomma, l’unica cosa che la lega a me non è di certo una profonda e solida amicizia e io a volte vorrei solo sbatterle la faccia a terra ma devo pur parlare anch’io con qualcuno no? E fin che il nostro non è un rapporto serio di amicizia va tutto bene.
Mi aspettano altre cinque ore di scuola ad ascoltare il blaterare infinito dei prof, a fare conversazioni con persone che non sopporto e ad essere seguita costantemente da Julia che a volte penso che non abbia altro scopo nella vita se non stare appiccicata al mio culo ma il massimo che riesco a sopportare è la lezione di spagnolo.
Dopo la seconda ora mi faccio largo tra la marea di gente rivolgendo finti sorrisi a chi cerca di attirare la mia attenzione e prima che la campanella che annuncia l’inizio della terza ora di lezione suoni, io sono già uscita per una delle porte secondarie dell’edificio.
Decido di andare un po’ a zonzo, comprandomi un pacchetto di sigarette e una bottiglietta di the alla pesca e andarmene tranquilla sulla collinetta alla periferia della città, dove le uniche anime vive che possa sperare di incontrare sono i passeri e qualche lucertola.
A volte mi piace stare da sola, a pensare, senza gente che mi gira in torno e mi opprime. Mi sembra quasi di essere una persona diversa da quando sto con gli altri e in un certo senso questo mi spaventa. Insomma, è come se avessi due personalità e potrei perdermi in una di esse senza saperlo e Sophie Halden potrebbe non esistere più.
Poche cose contano davvero nella mia vita e rimangono dei punti fermi: la musica, i libri e mia sorella.
La piccola Emma che nessuno si aspettava. Di certo non Aileen, mia madre, quando ha deciso di fare sesso con uno sconosciuto che ha visto si e no due volte nella sua vita e nemmeno io che quando avevo dodici anni ho dovuto comportarmi con una piccola donna per lei e farle da mamma.
Non posso certo pretendere che Aileen si comporti in modo amorevole e pensi a qualcosa che non sia il sesso o l’alcol. Non è mai stata una buona madre, né per me né per Emma ma almeno lei è stata fortuna ad avere una sorella maggiore che si prendesse cura di lei.
E ora che le hanno diagnosticato la leucemia sono io a pagarle le cure come posso: facendo sesso con ragazzi e uomini e strafogandomi di turni impossibili al lavoro; Aileen affronta tutto questo affogando il suo dolore nell’alcol e spendendo i pochi soldi che le passa lo stato in nuove bottiglie di vodka.
Fantastico no? E poi c’è gente che si chiede come ho fatto a diventare una troia, beh, sarà una dote di famiglia ma mi sono da sempre ripromessa che Emma non diventerà mai come me e per quanto posso cerco di darle il meglio, tutto quello che posso offrirle.
Quando aveva tre anni le hanno riscontrato la leucemia, una schifosa malattia che fa diventare il suo sangue bianco anziché rosso e la divora da dentro. E’ pallida e debole, mangia a fatica e nonostante ora abbia sette anni devo imboccarla io per assicurarmi che mangi abbastanza. Ha perso quasi tutti i suoi capelli, castano scuro, lo stesso colore dei miei e questo mi fa stringere il cuore.
Sono una che non ha mai ricevuto amore nella propria vita e non sono nemmeno sicura di sapere che cosa voglia dire questa parola, ma Emma è l’unica cosa che mi fa sentire davvero viva e reale e per pagarle le cure sarei disposta a vendermi un rene se servisse a salvarla.
                                                  
***

La campanella di fine lezione suona, una marea di bambini corre fuori alla rinfusa, tirando calci e pugni per arrivare prima al cancello.
Quando sono quasi tutti usciti noto Emma che si avvicina con la cartella che le ballonzola sulle spalle e sembra essere più grande di lei.
Porta una bandana sulla testa per non far vedere agli altri i suoi radi capelli e questo mi rattrista. Si accorge anche lei di essere diversa, un pesce fuor d’acqua tra tutta quella gente.
Appena mi vede inizia a correre sorridendomi e mi butta le braccia al collo. La sollevo e la faccio girare mentre la sua risata argentina mi riempie le orecchie e fa allentare un po’ il nodo della preoccupazione che mi stringe il petto.
-Com’è andata oggi, piccolina? le chiedo e lei si butta in un resoconto dettagliato di quello che ha imparato a scuola.
La scuola le piace, si esercita un sacco a leggere e a scrivere parole complicate e sono felice che abbia questo interesse. Almeno quando sarà diventata più grande non la mollerà e avrà una gran carriera.
la porto a prendere un enorme gelato in un bar arredato anni ‘50 in una delle stradine laterali del centro e se possibile si sporca di cioccolato fin nelle orecchie.
Quando andiamo alla cassa per pagare il ragazzo che ci fa il conto mi lancia occhiate languide e io cerco di ignorarlo, sperando che Emma non si accorga di niente ma è troppo impegnata a finire il suo mega gelato.
Sono spaventata all’idea che magari quando diventerà grande e qualcuno le dirà che sua sorella andava a fare la troietta in giro mi guarderà con disprezzo o non mi vorrà più parlare ma cerco di non pensarci. Magari per allora le cose si saranno sistemate.
Prima di tornare alla nostra cupa casetta la porto a fare anche un giro al parco.
Adora dondolarsi sull’altalena e io mi siedo su quella di fianco alla sua giocando a chi arriva più in alto.
Immagino di essere una rondine, pronta per spiccare il volo nel cielo ma a riportarmi con forza a terra è il cellulare che squilla. Aileen.
-Che vuoi?- dico
-Devi preparare la cena- mi risponde con la voce impastata dall’alcol. Probabilmente era stanca di dormire e dopo essersi scolata non so quante bottiglie si è resa conto che non di solo alcol vive l’uomo e io devo cucinare per lei.
-Vaffanculo- dico e le riattacco il telefono in faccia.
-Chi era Sophie?- mi chiede Emma fermando l’altalena.
-La mamma. e ora dobbiamo tornare a casa per la cena- scendo dall’altalena –su piccola, andiamo-.
Facciamo la strada fino a casa tenendoci per mano e Emma canta qualche canzone che ha imparato a scuola con la sua vocetta da bambina ma che in quel momento mi sembra la più bella che io abbia mai sentito.
       
Dopo aver cucinato e messo a letto Emma sono pronta per uscire di casa: pantaloni neri in pelle e top nero abbinato. Prima di uscire prendo la mia giacca nera, in pelle anche quella, ma la voce di mia madre mi blocca sulla porta: -Dove stai andando?-
-A quel paese- rispondo senza celare il mio disprezzo prima di chiudermi la porta alle spalle.
Casa mia fa parte di una lunga fila di costruzioni tutte uguali dal colore smorto che una volta doveva essere beige; un piccolo giardinetto circonda ognuna delle case e un sentiero di pietre va dal cancello fino alla porta d’ingresso. Tutte noiosamente uguali, come se non avessero una personalità.
Mentre faccio a piedi la strada che mi porta fino al quartiere bene della città mi fumo una sigaretta, osservando il fumo che mi esce dalla bocca, immaginando che oltre alla nicotina ci siano anche i miei problemi.
Mi accorgo che non funziona quando suono il campanello di una casa enorme, con un giardino ben curato e un grande cancello elaborato che la separa dal resto della strada.
Ci sono una fila di macchine parcheggiate nel vialetto, una più costosa dell’altra che io non potrò permettermi nemmeno se cagassi oro.
Ad aprirmi è un uomo sui trentacinque anni che ho incontrato un paio di gironi fa ad una festa dove faceva il dj.
-Ciao piccola, entra- mi dice con un sorriso allusivo. Inghiotto la rabbia che mi sale e la voglia di tirargli un calcio al basso ventre e cerco di fare la ragazza sexy e seducente per cui ha pagato.
Più dimostro il meglio di me e più questo coglione mi paga, dopotutto i soldi certo non gli mancano.
Mi lascio prendere la mano mentre lui mi conduce all’interno della casa e mi parla di quello che facevano i suoi genitori e di come si sono potuti costruire tutto questo.
Ascolto appena quello che dice tanto che mi accorgo a stento di quando mi domanda se tutto quello mi piace. “Oh si ci puoi scommettere, soprattutto se ci dessi fuoco”.
Questo a lui non lo dico, anzi faccio delle esclamazioni stupite di fronte a tutto quel lusso.
Arriviamo in un salottino dove luci riflesse dai lampadari di cristallo e dai numerosi specchi appesi alle pareti dovrebbero creare un’atmosfera romantica e i suoi inutili sforzi mi fanno quasi scoppiare a ridere. L’unica cosa che vuole è scopare ma almeno prima di togliere i vestiti mi offre un drink, che io come al solito rifiuto dicendo di preferire della semplice acqua.
Stiamo un po’ a parlare seduti vicini, la sua mano che comincia ad accarezzare la mia gamba risalendo lentamente verso l’alto.
Appena finisce di bere posa il bicchiere su un tavolino e avvicina le sue labbra al mio collo e inizia a baciarmi. Sento il suo respiro caldo sulla mia pelle e inizio a crearmi una barriera, come se quella che sta per essere scopata da un stronzo narcisista del cazzo non fossi io.
Mi fa alzare e afferandomi per la vita mi porta in camera sua dove un grande letto a due piazze è pronto per noi.
Mi spinge nel letto e si mette a cavalcioni su di me mentre si sbottona la camicia, senza smettere di baciarmi collo e clavicole.
Chiudo gli occhi immaginando di trovarmi da un’altra parte.
Sono con Emma al parco e stiamo a dondolare sull’altalena. Sento lei che ride felice e io mi sento libera.
L’altalena va sempre più veloce e io rischio di cadere ma non mi fermo, vado avanti, spingendomi ancora di più e proprio prima di precipitare al suolo spicco il volo, come una piccola rondine.


“ Let me clip your dirty wings “
E io glielo lascio fare, sto immobile mentre mi tagliano le ali e io ricado a terra. La piccola rondine non c’è più.
Mi sveglio di colpo avvolta nelle lenzuola di un letto che non è il mio. Confusa mi appoggio sui gomiti per vedere meglio la stanza in cui mi trovo.
“Fico, sono nel letto del coglione”.
Dai balconi socchiusi della finestra vedo che il cielo comincia a rischiararsi, segno che il sole sta sorgendo per una nuova e schifosa giornata di merda.
Cercando di non fare rumore per non svegliare Richard…o David, non ricordo come cavolo si chiama il tipo, e mi rimetto i vestiti sparsi ai piedi del letto.
Nel comodino affianco al letto c’è un biglietto da 50 dollari, i soldi per me. “E così sta volta costo 50 dollari, favoloso”.
Percorro silenziosamente i corridoi di quell’enorme casa e arrivata all’ingresso mi vedo riflessa in uno degli specchi appesi.
Volto tirato e capelli che sembrano un covo di serpi. Li raccolgo in uno chignon scomposto e mi affretto ad uscire, sperando di non rivedere mai più questo tizio.
Il sole è appena poco più alto dell’orizzonte, devono essere all’incirca le cinque del mattino.
Di tornare a casa proprio non ne ho voglia, anche perché c’è il rischio che trovi Aileen stesa sul divano tra bottiglie di alcolici svuotate e non penso che mi tratterei da bucarle un occhio con uno dei miei tacchi.
Decido di andare alla mia collinetta alla periferia della città mettendomi sulle spalle coperte la felpa arrotolata nella borsa.
Prendo anche il mio ipod e lo lascio partire in riproduzione casuale, lasciando che sia il caso a scegliere la colonna sonora per questo momento.
Appena finita la breve salita per arrivare in cima mi stendo a terra e accendo una sigaretta.
L’ipod fa partire Polly dei Nirvana. Nella mia mente sto mandando a fanculo il fato in tutte le lingue.
Questa canzone è proprio perfetta per come sto ora, dopo aver fatto sesso con uno che nemmeno conoscevo, e mi sento un po’ come lei; Polly.
“Let me clip your dirty wings”
E io glielo lascio fare. Dalla mia bocca non esce nemmeno un lamento.
“I want some help to please myself”
Divertente Kurt. Vaffanculo. Potresti darmelo tu questo cazzo di aiuto se non ti fossi sparato quel cazzo di colpo in quella cazzo di testa.
Mi accendo la seconda sigaretta mentre le ultime note della canzone di risuonano in testa.
Bella merda, le cose peggiori capitano sempre alle persone migliori. E penso a Kurt che era troppo sensibile per vivere, a mia sorella che ha la leucemia e forse un po’ anche a me.
Spero di essere una brava persona ma in realtà provo disgusto per me stessa e per quello che faccio.
“Let me clip your dirty wings”
Ho la musica a palla nelle orecchie, la voce di Gerard Way che mi accompagna lungo il tragitto verso l’istituto superiore della nostra piccola cittadina dispersa nel centro dell’America.
Me la prendo comoda anche perché sono in largo anticipo e non mi va di aspettare da sola li finché non arriva Julie, quella che molti definirebbero la mia migliore amica ma che in realtà non è altro che un pidocchio morboso appiccicato al mio culo e non c’è niente che possa scollarla da li.
Certo sarebbe figo poter dire che lei è mia amica perché le piaccio come persona ma in realtà è una gran cagata, mi segue ovunque come un cagnolino isterico solo per avere i riflettori puntati addosso.
Non per male, ma senza di me chi noterebbe quell’oca isterica?
Non sa niente di me, ne quale sia il mio colore preferito (azzurro, per la cronaca) o il libro che adoro (Orgoglio e Pregiudizio) e a me non interessa minimamente farmi conoscere come persona.
Preferisco mantenere quella facciata da ragazza perfetta che ormai mi porto addosso come una seconda pelle, che mi fa apparire bellissima e quando cammino per i corridoi della scuola tutti si girano a guardarmi, il tipo che le ragazze vorrebbero avere come “amica” e che i ragazzi vogliono portarsi a letto.
La ragazza perfetta e inafferrabile che qualsiasi maschio adolescente crede di poter possedere quando in realtà a volte non ricordo nemmeno i nomi di quelli con cui vado.
Tipico orgoglio maschile che li fa apparire come dei palloni gonfiati e basta la punta di un tacco a spillo per fargli fare puff.
Mentre camino per la strada che da casa mia porta fino alla scuola faccio ondeggiare i fianchi e un sacco di ragazzi si voltano nella mia direzione per fischiare la loro approvazione al mio corpo fasciato dai jeans aderenti e dalla camicia a quadri. Guardano appena i miei lunghi capelli castano scuro che mi ricadano sulla schiena, o i magnetici occhi verdi bordati da eye-liner nero, il piccolo viso dai tratti decisi ma dalla bocca delicata. Lo notano appena.
Li guardo tutti negli occhi salutandoli con un mezzo sorriso e lasciandoli in mezzo al marciapiede a sbavare.
Quello che voglio è proprio farmi desiderare, fare in modo che quando ci incontreremo alla prossima festa facciano a gara per portarmi a letto e io accetto l’offerta migliore.
Il sesso ormai è diventata una cosa che faccio soltanto per soldi; ha perso completamente quell’aura magica e misteriosa per cui la prima volta diventa un momento speciale.
La mia prima volta la ricordo perfettamente. Era una giornata grigia dove le foglie cadevano dagli alberi lasciandoli nudi e spogli all’inverno ormai imminente.
Avevo quattordici anni e dovevo prendere l’autobus per tornare a casa ma ero rimasta senza soldi. L’autista decise di venire in contro a quella povera ragazzina smarrita che ero, la bellezza appena sbocciata celata ancora dai tratti infantili. E così si prese la mia verginità e io ottenni il mio biglietto per tornare a casa. Fu l’unica volta che piansi davanti ad uno sconosciuto e anche l’ultima che versai una lacrima. Ero sola e spaventata e avevo appena fatto una cosa che avrebbe per sempre cambiato la mia vita.
Sono passati quattro anni da quella volta e ormai ogni volta che un ragazzo  mi porta a letto non sento niente, mi limito a lasciare che facciano quello che devono fare ed è finita la, nessun coinvolgimento emotivo, nessun piacere. Niente.
L’unica cosa che sento chiaramente sono le banconote che mi rifilano quando hanno finito e chissà se tornerò di nuovo nel loro letto.
A distogliermi dai miei pensieri è un ragazzo alto che mi si avvicina, i capelli scuri che sparano in varie direzioni, gli occhi neri e magnetici. Ha una cicca in bocca e dopo avermi dato un bacio sulla guancia me la porge.
Io la prendo sorridendogli. –Ciao bellezza, come stai?- mi chiede.
-Magnificamente Paul, soprattutto ora che ho una sigaretta in mano-.
Lui mi rivolge un sorriso sghembo e mi avvolge la vita con un braccio, sussurrandomi all’orecchio  -Allora, ti sei divertita l’altra sera?-
Cerco di divincolarmi dalla sua stretta. –Non ho voglia di parlarne adesso. Anzi facciamo che non ho proprio voglia di parlarne, punto- gli dico guardandolo fisso negli occhi per far capire che non sto scherzando.
Lui mi guarda con una luce di sfida negli occhi: -Che c’è puttanella, non vuoi far sapere agli altri che ti ho scopato?- dice a voce un po’ troppo alta tanto che alcuni ragazzi si voltano incuriositi nella nostra direzione.
-No, è che non voglio ricordarti che per scopare una come me la devi pagare- e detto questo mi stacco dal suo corpo e riprendo, impassibile, a camminare.
Paul si è fermato in mezzo al marciapiede e mi guarda con un espressione tra l’umiliato e l’incazzato segno che l’ho fatto arrabbiare ma io me ne frego e continuo a camminare facendogli un cenno con la mano senza più voltarmi nella sua direzione.
Arrivo a scuola che il parcheggio è già gremito di auto e studenti e io butto la mia sigaretta pestandola per spegnerla.
Quando passo di fianco ai gruppetti fermi a chiacchierare molti si girano nella mia direzione a salutarmi e pronunciando le solite frasi da leccaculo che ormai conosco a memoria.
“Oh Sophie, sono così felice di vederti” “Beh io no!”. Vorrei gridare in faccia a tutti quello che penso di loro ma non posso, non con la mia facciata da mantenere.
All’ingresso dell’edificio principale Julia mi viene incontro saltellando e ciarlando allegramente di una qualche festa alla quale vuole andare.
La afferro per un braccio e la conduco verso i bagni delle ragazze dove mi do una sistemata, pettinando i capelli già in ordine e ritoccando il trucco già perfetto.
Nel corridoio sento che suona la campanella e gli studenti si affrettano a raggiungere le aule.
Io e Julia aspettiamo che la folla si disperda per fare in classe il nostro ingresso trionfale.
Il prof Hanton, un noioso uomo di mezza età senza alcuno scopo nella vita se non torturare poveri adolescenti, ci guarda con disappunto: -Sono contento che ci abbiate degnato della vostra presenza per la lezione di oggi- dice sarcastico.
Io senza scompormi rispondo: -Già, anche se avrei preferito fare shopping in centro, ma comunque…-
I miei compagni cercano di nascondere i risolini mentre io mi dirigo verso il mio posto vicino alla finestra che da sulla strada, il prof che inizia a spiegare la lezione con la sua voce soporifera.
I secchioni nelle prime file si mettono a prendere appunti, mentre le ochette parlano della prossima festa come se non fossero sedute nell’aula di una scuola e poi ci sono io che guardo fuori dalla finestra ad osservare i passanti e a chiedermi come siano le loro vite, se sono felici o no.
A questo punto la domanda mi sorge inevitabile. Io sono felice della mia vita?
Mi soddisfa davvero avere la scuola ai miei piedi, essere invitata a tutte le feste e andare a letto con qualsiasi ragazzo strafigo io incontri?
Non lo so ma credo che per ora mi basti.
A riscuotermi dal filo dei miei pensieri è un bigliettino che mi lancia Julia.
Lo srotolo e vedo che con la sa calligrafia tutta curve e ghirigori mi ha appena invitato alla festa di cui parlava prima all’ingresso.
Sinceramente non ho molta voglia di musica rimbombante nelle orecchie, luci stroboscopiche e mani di sconosciuti un po’ troppo invadenti ovunque.
Anche se ho bisogno dei soldi che ricavo dallo andare a letto con sconosciuti penso che anche se per questa sera salto il giro non succede niente di grave. Sul mio banco appare un altro bigliettino di Julia. Non lo apro nemmeno, mi limito a guardare il suo viso pieno di aspettative e scrollare le spalle in segno di diniego.
-Perché?- leggo dal labiale della sua bocca con troppo lucidalabbra.
-Non sono cazzi tuoi- sibilo tra i denti e subito si gira verso la cattedra, fingendosi interessata a quello che il professor Hanton sta spiegando.
Ha bisogno di me a quella festa, ha bisogno che qualche idiota arrapato la noti e la faccia divertire solo per raccontare tutto alle ochette leccaculo il giorno dopo.
Mi chiedo spesso perché non mi liberi di lei visto che insomma, l’unica cosa che la lega a me non è di certo una profonda e solida amicizia e io a volte vorrei solo sbatterle la faccia a terra ma devo pur parlare anch’io con qualcuno no? E fin che il nostro non è un rapporto serio di amicizia va tutto bene.
Mi aspettano altre cinque ore di scuola ad ascoltare il blaterare infinito dei prof, a fare conversazioni con persone che non sopporto e ad essere seguita costantemente da Julia che a volte penso che non abbia altro scopo nella vita se non stare appiccicata al mio culo ma il massimo che riesco a sopportare è la lezione di spagnolo.
Dopo la seconda ora mi faccio largo tra la marea di gente rivolgendo finti sorrisi a chi cerca di attirare la mia attenzione e prima che la campanella che annuncia l’inizio della terza ora di lezione suoni, io sono già uscita per una delle porte secondarie dell’edificio.
Decido di andare un po’ a zonzo, comprandomi un pacchetto di sigarette e una bottiglietta di the alla pesca e andarmene tranquilla sulla collinetta alla periferia della città, dove le uniche anime vive che possa sperare di incontrare sono i passeri e qualche lucertola.
A volte mi piace stare da sola, a pensare, senza gente che mi gira in torno e mi opprime. Mi sembra quasi di essere una persona diversa da quando sto con gli altri e in un certo senso questo mi spaventa. Insomma, è come se avessi due personalità e potrei perdermi in una di esse senza saperlo e Sophie Halden potrebbe non esistere più.
Poche cose contano davvero nella mia vita e rimangono dei punti fermi: la musica, i libri e mia sorella.
La piccola Emma che nessuno si aspettava. Di certo non Aileen, mia madre, quando ha deciso di fare sesso con uno sconosciuto che ha visto si e no due volte nella sua vita e nemmeno io che quando avevo dodici anni ho dovuto comportarmi con una piccola donna per lei e farle da mamma.
Non posso certo pretendere che Aileen si comporti in modo amorevole e pensi a qualcosa che non sia il sesso o l’alcol. Non è mai stata una buona madre, né per me né per Emma ma almeno lei è stata fortuna ad avere una sorella maggiore che si prendesse cura di lei.
E ora che le hanno diagnosticato la leucemia sono io a pagarle le cure come posso: facendo sesso con ragazzi e uomini e strafogandomi di turni impossibili al lavoro; Aileen affronta tutto questo affogando il suo dolore nell’alcol e spendendo i pochi soldi che le passa lo stato in nuove bottiglie di vodka.
Fantastico no? E poi c’è gente che si chiede come ho fatto a diventare una troia, beh, sarà una dote di famiglia ma mi sono da sempre ripromessa che Emma non diventerà mai come me e per quanto posso cerco di darle il meglio, tutto quello che posso offrirle.
Quando aveva tre anni le hanno riscontrato la leucemia, una schifosa malattia che fa diventare il suo sangue bianco anziché rosso e la divora da dentro. E’ pallida e debole, mangia a fatica e nonostante ora abbia sette anni devo imboccarla io per assicurarmi che mangi abbastanza. Ha perso quasi tutti i suoi capelli, castano scuro, lo stesso colore dei miei e questo mi fa stringere il cuore.
Sono una che non ha mai ricevuto amore nella propria vita e non sono nemmeno sicura di sapere che cosa voglia dire questa parola, ma Emma è l’unica cosa che mi fa sentire davvero viva e reale e per pagarle le cure sarei disposta a vendermi un rene se servisse a salvarla.
                                                 
***
 
Quando la campanella di fine lezione suona, una marea di bambini corre fuori alla rinfusa, tirando calci e pugni per arrivare prima al cancello.
Quando sono quasi tutti usciti noto Emma che si avvicina con la cartella che le ballonzola sulle spalle e sembra essere più grande di lei.
Porta una bandana sulla testa per non far vedere agli altri i suoi radi capelli e questo mi rattrista. Si accorge anche lei di essere diversa, un pesce fuor d’acqua tra tutta quella gente.
Appena mi vede inizia a correre sorridendomi e mi butta le braccia al collo. La sollevo e la faccio girare mentre la sua risata argentina mi riempie le orecchie e fa allentare un po’ il nodo della preoccupazione che mi stringe il petto.
-Com’è andata oggi, piccolina? le chiedo e lei si butta in un resoconto dettagliato di quello che ha imparato a scuola.
La scuola le piace, si esercita un sacco a leggere e a scrivere parole complicate e sono felice che abbia questo interesse. Almeno quando sarà diventata più grande non la mollerà e avrà una gran carriera.
la porto a prendere un enorme gelato in un bar arredato anni ‘50 in una delle stradine laterali del centro e se possibile si sporca di cioccolato fin nelle orecchie.
Quando andiamo alla cassa per pagare il ragazzo che ci fa il conto mi lancia occhiate languide e io cerco di ignorarlo, sperando che Emma non si accorga di niente ma è troppo impegnata a finire il suo mega gelato.
Sono spaventata all’idea che magari quando diventerà grande e qualcuno le dirà che sua sorella andava a fare la troietta in giro mi guarderà con disprezzo o non mi vorrà più parlare ma cerco di non pensarci. Magari per allora le cose si saranno sistemate.
Prima di tornare alla nostra cupa casetta la porto a fare anche un giro al parco.
Adora dondolarsi sull’altalena e io mi siedo su quella di fianco alla sua giocando a chi arriva più in alto.
Immagino di essere una rondine, pronta per spiccare il volo nel cielo ma a riportarmi con forza a terra è il cellulare che squilla. Aileen.
-Che vuoi?- dico
-Devi preparare la cena- mi risponde con la voce impastata dall’alcol. Probabilmente era stanca di dormire e dopo essersi scolata non so quante bottiglie si è resa conto che non di solo alcol vive l’uomo e io devo cucinare per lei.
-Vaffanculo- dico e le riattacco il telefono in faccia.
-Chi era Sophie?- mi chiede Emma fermando l’altalena.
-La mamma. e ora dobbiamo tornare a casa per la cena- scendo dall’altalena –su piccola, andiamo-.
Facciamo la strada fino a casa tenendoci per mano e Emma canta qualche canzone che ha imparato a scuola con la sua vocetta da bambina ma che in quel momento mi sembra la più bella che io abbia mai sentito.
      
Dopo aver cucinato e messo a letto Emma sono pronta per uscire di casa: pantaloni neri in pelle e top nero abbinato. Prima di uscire prendo la mia giacca nera, in pelle anche quella, ma la voce di mia madre mi blocca sulla porta: -Dove stai andando?-
-A quel paese- rispondo senza celare il mio disprezzo prima di chiudermi la porta alle spalle.
Casa mia fa parte di una lunga fila di costruzioni tutte uguali dal colore smorto che una volta doveva essere beige; un piccolo giardinetto circonda ognuna delle case e un sentiero di pietre va dal cancello fino alla porta d’ingresso. Tutte noiosamente uguali, come se non avessero una personalità.
Mentre faccio a piedi la strada che mi porta fino al quartiere bene della città mi fumo una sigaretta, osservando il fumo che mi esce dalla bocca, immaginando che oltre alla nicotina ci siano anche i miei problemi.
Mi accorgo che non funziona quando suono il campanello di una casa enorme, con un giardino ben curato e un grande cancello elaborato che la separa dal resto della strada.
Ci sono una fila di macchine parcheggiate nel vialetto, una più costosa dell’altra che io non potrò permettermi nemmeno se cagassi oro.
Ad aprirmi è un uomo sui trentacinque anni che ho incontrato un paio di gironi fa ad una festa dove faceva il dj.
-Ciao piccola, entra- mi dice con un sorriso allusivo. Inghiotto la rabbia che mi sale e la voglia di tirargli un calcio al basso ventre e cerco di fare la ragazza sexy e seducente per cui ha pagato.
Più dimostro il meglio di me e più questo coglione mi paga, dopotutto i soldi certo non gli mancano.
Mi lascio prendere la mano mentre lui mi conduce all’interno della casa e mi parla di quello che facevano i suoi genitori e di come si sono potuti costruire tutto questo.
Ascolto appena quello che dice tanto che mi accorgo a stento di quando mi domanda se tutto quello mi piace. “Oh si ci puoi scommettere, soprattutto se ci dessi fuoco”.
Questo a lui non lo dico, anzi faccio delle esclamazioni stupite di fronte a tutto quel lusso.
Arriviamo in un salottino dove luci riflesse dai lampadari di cristallo e dai numerosi specchi appesi alle pareti dovrebbero creare un’atmosfera romantica e i suoi inutili sforzi mi fanno quasi scoppiare a ridere. L’unica cosa che vuole è scopare ma almeno prima di togliere i vestiti mi offre un drink, che io come al solito rifiuto dicendo di preferire della semplice acqua.
Stiamo un po’ a parlare seduti vicini, la sua mano che comincia ad accarezzare la mia gamba risalendo lentamente verso l’alto.
Appena finisce di bere posa il bicchiere su un tavolino e avvicina le sue labbra al mio collo e inizia a baciarmi. Sento il suo respiro caldo sulla mia pelle e inizio a crearmi una barriera, come se quella che sta per essere scopata da un stronzo narcisista del cazzo non fossi io.
Mi fa alzare e afferandomi per la vita mi porta in camera sua dove un grande letto a due piazze è pronto per noi.
Mi spinge nel letto e si mette a cavalcioni su di me mentre si sbottona la camicia, senza smettere di baciarmi collo e clavicole.
Chiudo gli occhi immaginando di trovarmi da un’altra parte.
Sono con Emma al parco e stiamo a dondolare sull’altalena. Sento lei che ride felice e io mi sento libera.
L’altalena va sempre più veloce e io rischio di cadere ma non mi fermo, vado avanti, spingendomi ancora di più e proprio prima di precipitare al suolo spicco il volo, come una piccola rondine.
 
 
“ Let me clip your dirty wings “
E io glielo lascio fare, sto immobile mentre mi tagliano le ali e io ricado a terra. La piccola rondine non c’è più.
Mi sveglio di colpo avvolta nelle lenzuola di un letto che non è il mio. Confusa mi appoggio sui gomiti per vedere meglio la stanza in cui mi trovo.
“Fico, sono nel letto del coglione”.
Dai balconi socchiusi della finestra vedo che il cielo comincia a rischiararsi, segno che il sole sta sorgendo per una nuova e schifosa giornata di merda.
Cercando di non fare rumore per non svegliare Richard…o David, non ricordo come cavolo si chiama il tipo, e mi rimetto i vestiti sparsi ai piedi del letto.
Nel comodino affianco al letto c’è un biglietto da 50 dollari, i soldi per me. “E così sta volta costo 50 dollari, favoloso”.
Percorro silenziosamente i corridoi di quell’enorme casa e arrivata all’ingresso mi vedo riflessa in uno degli specchi appesi.
Volto tirato e capelli che sembrano un covo di serpi. Li raccolgo in uno chignon scomposto e mi affretto ad uscire, sperando di non rivedere mai più questo tizio.
Il sole è appena poco più alto dell’orizzonte, devono essere all’incirca le cinque del mattino.
Di tornare a casa proprio non ne ho voglia, anche perché c’è il rischio che trovi Aileen stesa sul divano tra bottiglie di alcolici svuotate e non penso che mi tratterei da bucarle un occhio con uno dei miei tacchi.
Decido di andare alla mia collinetta alla periferia della città mettendomi sulle spalle coperte la felpa arrotolata nella borsa.
Prendo anche il mio ipod e lo lascio partire in riproduzione casuale, lasciando che sia il caso a scegliere la colonna sonora per questo momento.
Appena finita la breve salita per arrivare in cima mi stendo a terra e accendo una sigaretta.
L’ipod fa partire Polly dei Nirvana. Nella mia mente sto mandando a fanculo il fato in tutte le lingue.
Questa canzone è proprio perfetta per come sto ora, dopo aver fatto sesso con uno che nemmeno conoscevo, e mi sento un po’ come lei; Polly.
“Let me clip your dirty wings”
E io glielo lascio fare. Dalla mia bocca non esce nemmeno un lamento.
“I want some help to please myself”
Divertente Kurt. Vaffanculo. Potresti darmelo tu questo cazzo di aiuto se non ti fossi sparato quel cazzo di colpo in quella cazzo di testa.
Mi accendo la seconda sigaretta mentre le ultime note della canzone di risuonano in testa.
Bella merda, le cose peggiori capitano sempre alle persone migliori. E penso a Kurt che era troppo sensibile per vivere, a mia sorella che ha la leucemia e forse un po’ anche a me.
Spero di essere una brava persona ma in realtà provo disgusto per me stessa e per quello che faccio.
“Let me clip your dirty wings”
Ho la musica a palla nelle orecchie, la voce di Gerard Way che mi accompagna lungo il tragitto verso l’istituto superiore della nostra piccola cittadina dispersa nel centro dell’America.
Me la prendo comoda anche perché sono in largo anticipo e non mi va di aspettare da sola li finché non arriva Julie, quella che molti definirebbero la mia migliore amica ma che in realtà non è altro che un pidocchio morboso appiccicato al mio culo e non c’è niente che possa scollarla da li.
Certo sarebbe figo poter dire che lei è mia amica perché le piaccio come persona ma in realtà è una gran cagata, mi segue ovunque come un cagnolino isterico solo per avere i riflettori puntati addosso.
Non per male, ma senza di me chi noterebbe quell’oca isterica?
Non sa niente di me, ne quale sia il mio colore preferito (azzurro, per la cronaca) o il libro che adoro (Orgoglio e Pregiudizio) e a me non interessa minimamente farmi conoscere come persona.
Preferisco mantenere quella facciata da ragazza perfetta che ormai mi porto addosso come una seconda pelle, che mi fa apparire bellissima e quando cammino per i corridoi della scuola tutti si girano a guardarmi, il tipo che le ragazze vorrebbero avere come “amica” e che i ragazzi vogliono portarsi a letto.
La ragazza perfetta e inafferrabile che qualsiasi maschio adolescente crede di poter possedere quando in realtà a volte non ricordo nemmeno i nomi di quelli con cui vado.
Tipico orgoglio maschile che li fa apparire come dei palloni gonfiati e basta la punta di un tacco a spillo per fargli fare puff.
Mentre camino per la strada che da casa mia porta fino alla scuola faccio ondeggiare i fianchi e un sacco di ragazzi si voltano nella mia direzione per fischiare la loro approvazione al mio corpo fasciato dai jeans aderenti e dalla camicia a quadri. Guardano appena i miei lunghi capelli castano scuro che mi ricadano sulla schiena, o i magnetici occhi verdi bordati da eye-liner nero, il piccolo viso dai tratti decisi ma dalla bocca delicata. Lo notano appena.
Li guardo tutti negli occhi salutandoli con un mezzo sorriso e lasciandoli in mezzo al marciapiede a sbavare.
Quello che voglio è proprio farmi desiderare, fare in modo che quando ci incontreremo alla prossima festa facciano a gara per portarmi a letto e io accetto l’offerta migliore.
Il sesso ormai è diventata una cosa che faccio soltanto per soldi; ha perso completamente quell’aura magica e misteriosa per cui la prima volta diventa un momento speciale.
La mia prima volta la ricordo perfettamente. Era una giornata grigia dove le foglie cadevano dagli alberi lasciandoli nudi e spogli all’inverno ormai imminente.
Avevo quattordici anni e dovevo prendere l’autobus per tornare a casa ma ero rimasta senza soldi. L’autista decise di venire in contro a quella povera ragazzina smarrita che ero, la bellezza appena sbocciata celata ancora dai tratti infantili. E così si prese la mia verginità e io ottenni il mio biglietto per tornare a casa. Fu l’unica volta che piansi davanti ad uno sconosciuto e anche l’ultima che versai una lacrima. Ero sola e spaventata e avevo appena fatto una cosa che avrebbe per sempre cambiato la mia vita.
Sono passati quattro anni da quella volta e ormai ogni volta che un ragazzo  mi porta a letto non sento niente, mi limito a lasciare che facciano quello che devono fare ed è finita la, nessun coinvolgimento emotivo, nessun piacere. Niente.
L’unica cosa che sento chiaramente sono le banconote che mi rifilano quando hanno finito e chissà se tornerò di nuovo nel loro letto.
A distogliermi dai miei pensieri è un ragazzo alto che mi si avvicina, i capelli scuri che sparano in varie direzioni, gli occhi neri e magnetici. Ha una cicca in bocca e dopo avermi dato un bacio sulla guancia me la porge.
Io la prendo sorridendogli. –Ciao bellezza, come stai?- mi chiede.
-Magnificamente Paul, soprattutto ora che ho una sigaretta in mano-.
Lui mi rivolge un sorriso sghembo e mi avvolge la vita con un braccio, sussurrandomi all’orecchio  -Allora, ti sei divertita l’altra sera?-
Cerco di divincolarmi dalla sua stretta. –Non ho voglia di parlarne adesso. Anzi facciamo che non ho proprio voglia di parlarne, punto- gli dico guardandolo fisso negli occhi per far capire che non sto scherzando.
Lui mi guarda con una luce di sfida negli occhi: -Che c’è puttanella, non vuoi far sapere agli altri che ti ho scopato?- dice a voce un po’ troppo alta tanto che alcuni ragazzi si voltano incuriositi nella nostra direzione.
-No, è che non voglio ricordarti che per scopare una come me la devi pagare- e detto questo mi stacco dal suo corpo e riprendo, impassibile, a camminare.
Paul si è fermato in mezzo al marciapiede e mi guarda con un espressione tra l’umiliato e l’incazzato segno che l’ho fatto arrabbiare ma io me ne frego e continuo a camminare facendogli un cenno con la mano senza più voltarmi nella sua direzione.
Arrivo a scuola che il parcheggio è già gremito di auto e studenti e io butto la mia sigaretta pestandola per spegnerla.
Quando passo di fianco ai gruppetti fermi a chiacchierare molti si girano nella mia direzione a salutarmi e pronunciando le solite frasi da leccaculo che ormai conosco a memoria.
“Oh Sophie, sono così felice di vederti” “Beh io no!”. Vorrei gridare in faccia a tutti quello che penso di loro ma non posso, non con la mia facciata da mantenere.
All’ingresso dell’edificio principale Julia mi viene incontro saltellando e ciarlando allegramente di una qualche festa alla quale vuole andare.
La afferro per un braccio e la conduco verso i bagni delle ragazze dove mi do una sistemata, pettinando i capelli già in ordine e ritoccando il trucco già perfetto.
Nel corridoio sento che suona la campanella e gli studenti si affrettano a raggiungere le aule.
Io e Julia aspettiamo che la folla si disperda per fare in classe il nostro ingresso trionfale.
Il prof Hanton, un noioso uomo di mezza età senza alcuno scopo nella vita se non torturare poveri adolescenti, ci guarda con disappunto: -Sono contento che ci abbiate degnato della vostra presenza per la lezione di oggi- dice sarcastico.
Io senza scompormi rispondo: -Già, anche se avrei preferito fare shopping in centro, ma comunque…-
I miei compagni cercano di nascondere i risolini mentre io mi dirigo verso il mio posto vicino alla finestra che da sulla strada, il prof che inizia a spiegare la lezione con la sua voce soporifera.
I secchioni nelle prime file si mettono a prendere appunti, mentre le ochette parlano della prossima festa come se non fossero sedute nell’aula di una scuola e poi ci sono io che guardo fuori dalla finestra ad osservare i passanti e a chiedermi come siano le loro vite, se sono felici o no.
A questo punto la domanda mi sorge inevitabile. Io sono felice della mia vita?
Mi soddisfa davvero avere la scuola ai miei piedi, essere invitata a tutte le feste e andare a letto con qualsiasi ragazzo strafigo io incontri?
Non lo so ma credo che per ora mi basti.
A riscuotermi dal filo dei miei pensieri è un bigliettino che mi lancia Julia.
Lo srotolo e vedo che con la sa calligrafia tutta curve e ghirigori mi ha appena invitato alla festa di cui parlava prima all’ingresso.
Sinceramente non ho molta voglia di musica rimbombante nelle orecchie, luci stroboscopiche e mani di sconosciuti un po’ troppo invadenti ovunque.
Anche se ho bisogno dei soldi che ricavo dallo andare a letto con sconosciuti penso che anche se per questa sera salto il giro non succede niente di grave. Sul mio banco appare un altro bigliettino di Julia. Non lo apro nemmeno, mi limito a guardare il suo viso pieno di aspettative e scrollare le spalle in segno di diniego.
-Perché?- leggo dal labiale della sua bocca con troppo lucidalabbra.
-Non sono cazzi tuoi- sibilo tra i denti e subito si gira verso la cattedra, fingendosi interessata a quello che il professor Hanton sta spiegando.
Ha bisogno di me a quella festa, ha bisogno che qualche idiota arrapato la noti e la faccia divertire solo per raccontare tutto alle ochette leccaculo il giorno dopo.
Mi chiedo spesso perché non mi liberi di lei visto che insomma, l’unica cosa che la lega a me non è di certo una profonda e solida amicizia e io a volte vorrei solo sbatterle la faccia a terra ma devo pur parlare anch’io con qualcuno no? E fin che il nostro non è un rapporto serio di amicizia va tutto bene.
Mi aspettano altre cinque ore di scuola ad ascoltare il blaterare infinito dei prof, a fare conversazioni con persone che non sopporto e ad essere seguita costantemente da Julia che a volte penso che non abbia altro scopo nella vita se non stare appiccicata al mio culo ma il massimo che riesco a sopportare è la lezione di spagnolo.
Dopo la seconda ora mi faccio largo tra la marea di gente rivolgendo finti sorrisi a chi cerca di attirare la mia attenzione e prima che la campanella che annuncia l’inizio della terza ora di lezione suoni, io sono già uscita per una delle porte secondarie dell’edificio.
Decido di andare un po’ a zonzo, comprandomi un pacchetto di sigarette e una bottiglietta di the alla pesca e andarmene tranquilla sulla collinetta alla periferia della città, dove le uniche anime vive che possa sperare di incontrare sono i passeri e qualche lucertola.
A volte mi piace stare da sola, a pensare, senza gente che mi gira in torno e mi opprime. Mi sembra quasi di essere una persona diversa da quando sto con gli altri e in un certo senso questo mi spaventa. Insomma, è come se avessi due personalità e potrei perdermi in una di esse senza saperlo e Sophie Halden potrebbe non esistere più.
Poche cose contano davvero nella mia vita e rimangono dei punti fermi: la musica, i libri e mia sorella.
La piccola Emma che nessuno si aspettava. Di certo non Aileen, mia madre, quando ha deciso di fare sesso con uno sconosciuto che ha visto si e no due volte nella sua vita e nemmeno io che quando avevo dodici anni ho dovuto comportarmi con una piccola donna per lei e farle da mamma.
Non posso certo pretendere che Aileen si comporti in modo amorevole e pensi a qualcosa che non sia il sesso o l’alcol. Non è mai stata una buona madre, né per me né per Emma ma almeno lei è stata fortuna ad avere una sorella maggiore che si prendesse cura di lei.
E ora che le hanno diagnosticato la leucemia sono io a pagarle le cure come posso: facendo sesso con ragazzi e uomini e strafogandomi di turni impossibili al lavoro; Aileen affronta tutto questo affogando il suo dolore nell’alcol e spendendo i pochi soldi che le passa lo stato in nuove bottiglie di vodka.
Fantastico no? E poi c’è gente che si chiede come ho fatto a diventare una troia, beh, sarà una dote di famiglia ma mi sono da sempre ripromessa che Emma non diventerà mai come me e per quanto posso cerco di darle il meglio, tutto quello che posso offrirle.
Quando aveva tre anni le hanno riscontrato la leucemia, una schifosa malattia che fa diventare il suo sangue bianco anziché rosso e la divora da dentro. E’ pallida e debole, mangia a fatica e nonostante ora abbia sette anni devo imboccarla io per assicurarmi che mangi abbastanza. Ha perso quasi tutti i suoi capelli, castano scuro, lo stesso colore dei miei e questo mi fa stringere il cuore.
Sono una che non ha mai ricevuto amore nella propria vita e non sono nemmeno sicura di sapere che cosa voglia dire questa parola, ma Emma è l’unica cosa che mi fa sentire davvero viva e reale e per pagarle le cure sarei disposta a vendermi un rene se servisse a salvarla.
                                                 
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Quando la campanella di fine lezione suona, una marea di bambini corre fuori alla rinfusa, tirando calci e pugni per arrivare prima al cancello.
Quando sono quasi tutti usciti noto Emma che si avvicina con la cartella che le ballonzola sulle spalle e sembra essere più grande di lei.
Porta una bandana sulla testa per non far vedere agli altri i suoi radi capelli e questo mi rattrista. Si accorge anche lei di essere diversa, un pesce fuor d’acqua tra tutta quella gente.
Appena mi vede inizia a correre sorridendomi e mi butta le braccia al collo. La sollevo e la faccio girare mentre la sua risata argentina mi riempie le orecchie e fa allentare un po’ il nodo della preoccupazione che mi stringe il petto.
-Com’è andata oggi, piccolina? le chiedo e lei si butta in un resoconto dettagliato di quello che ha imparato a scuola.
La scuola le piace, si esercita un sacco a leggere e a scrivere parole complicate e sono felice che abbia questo interesse. Almeno quando sarà diventata più grande non la mollerà e avrà una gran carriera.
la porto a prendere un enorme gelato in un bar arredato anni ‘50 in una delle stradine laterali del centro e se possibile si sporca di cioccolato fin nelle orecchie.
Quando andiamo alla cassa per pagare il ragazzo che ci fa il conto mi lancia occhiate languide e io cerco di ignorarlo, sperando che Emma non si accorga di niente ma è troppo impegnata a finire il suo mega gelato.
Sono spaventata all’idea che magari quando diventerà grande e qualcuno le dirà che sua sorella andava a fare la troietta in giro mi guarderà con disprezzo o non mi vorrà più parlare ma cerco di non pensarci. Magari per allora le cose si saranno sistemate.
Prima di tornare alla nostra cupa casetta la porto a fare anche un giro al parco.
Adora dondolarsi sull’altalena e io mi siedo su quella di fianco alla sua giocando a chi arriva più in alto.
Immagino di essere una rondine, pronta per spiccare il volo nel cielo ma a riportarmi con forza a terra è il cellulare che squilla. Aileen.
-Che vuoi?- dico
-Devi preparare la cena- mi risponde con la voce impastata dall’alcol. Probabilmente era stanca di dormire e dopo essersi scolata non so quante bottiglie si è resa conto che non di solo alcol vive l’uomo e io devo cucinare per lei.
-Vaffanculo- dico e le riattacco il telefono in faccia.
-Chi era Sophie?- mi chiede Emma fermando l’altalena.
-La mamma. e ora dobbiamo tornare a casa per la cena- scendo dall’altalena –su piccola, andiamo-.
Facciamo la strada fino a casa tenendoci per mano e Emma canta qualche canzone che ha imparato a scuola con la sua vocetta da bambina ma che in quel momento mi sembra la più bella che io abbia mai sentito.
      
Dopo aver cucinato e messo a letto Emma sono pronta per uscire di casa: pantaloni neri in pelle e top nero abbinato. Prima di uscire prendo la mia giacca nera, in pelle anche quella, ma la voce di mia madre mi blocca sulla porta: -Dove stai andando?-
-A quel paese- rispondo senza celare il mio disprezzo prima di chiudermi la porta alle spalle.
Casa mia fa parte di una lunga fila di costruzioni tutte uguali dal colore smorto che una volta doveva essere beige; un piccolo giardinetto circonda ognuna delle case e un sentiero di pietre va dal cancello fino alla porta d’ingresso. Tutte noiosamente uguali, come se non avessero una personalità.
Mentre faccio a piedi la strada che mi porta fino al quartiere bene della città mi fumo una sigaretta, osservando il fumo che mi esce dalla bocca, immaginando che oltre alla nicotina ci siano anche i miei problemi.
Mi accorgo che non funziona quando suono il campanello di una casa enorme, con un giardino ben curato e un grande cancello elaborato che la separa dal resto della strada.
Ci sono una fila di macchine parcheggiate nel vialetto, una più costosa dell’altra che io non potrò permettermi nemmeno se cagassi oro.
Ad aprirmi è un uomo sui trentacinque anni che ho incontrato un paio di gironi fa ad una festa dove faceva il dj.
-Ciao piccola, entra- mi dice con un sorriso allusivo. Inghiotto la rabbia che mi sale e la voglia di tirargli un calcio al basso ventre e cerco di fare la ragazza sexy e seducente per cui ha pagato.
Più dimostro il meglio di me e più questo coglione mi paga, dopotutto i soldi certo non gli mancano.
Mi lascio prendere la mano mentre lui mi conduce all’interno della casa e mi parla di quello che facevano i suoi genitori e di come si sono potuti costruire tutto questo.
Ascolto appena quello che dice tanto che mi accorgo a stento di quando mi domanda se tutto quello mi piace. “Oh si ci puoi scommettere, soprattutto se ci dessi fuoco”.
Questo a lui non lo dico, anzi faccio delle esclamazioni stupite di fronte a tutto quel lusso.
Arriviamo in un salottino dove luci riflesse dai lampadari di cristallo e dai numerosi specchi appesi alle pareti dovrebbero creare un’atmosfera romantica e i suoi inutili sforzi mi fanno quasi scoppiare a ridere. L’unica cosa che vuole è scopare ma almeno prima di togliere i vestiti mi offre un drink, che io come al solito rifiuto dicendo di preferire della semplice acqua.
Stiamo un po’ a parlare seduti vicini, la sua mano che comincia ad accarezzare la mia gamba risalendo lentamente verso l’alto.
Appena finisce di bere posa il bicchiere su un tavolino e avvicina le sue labbra al mio collo e inizia a baciarmi. Sento il suo respiro caldo sulla mia pelle e inizio a crearmi una barriera, come se quella che sta per essere scopata da un stronzo narcisista del cazzo non fossi io.
Mi fa alzare e afferandomi per la vita mi porta in camera sua dove un grande letto a due piazze è pronto per noi.
Mi spinge nel letto e si mette a cavalcioni su di me mentre si sbottona la camicia, senza smettere di baciarmi collo e clavicole.
Chiudo gli occhi immaginando di trovarmi da un’altra parte.
Sono con Emma al parco e stiamo a dondolare sull’altalena. Sento lei che ride felice e io mi sento libera.
L’altalena va sempre più veloce e io rischio di cadere ma non mi fermo, vado avanti, spingendomi ancora di più e proprio prima di precipitare al suolo spicco il volo, come una piccola rondine.
 
 
“ Let me clip your dirty wings “
E io glielo lascio fare, sto immobile mentre mi tagliano le ali e io ricado a terra. La piccola rondine non c’è più.
Mi sveglio di colpo avvolta nelle lenzuola di un letto che non è il mio. Confusa mi appoggio sui gomiti per vedere meglio la stanza in cui mi trovo.
“Fico, sono nel letto del coglione”.
Dai balconi socchiusi della finestra vedo che il cielo comincia a rischiararsi, segno che il sole sta sorgendo per una nuova e schifosa giornata di merda.
Cercando di non fare rumore per non svegliare Richard…o David, non ricordo come cavolo si chiama il tipo, e mi rimetto i vestiti sparsi ai piedi del letto.
Nel comodino affianco al letto c’è un biglietto da 50 dollari, i soldi per me. “E così sta volta costo 50 dollari, favoloso”.
Percorro silenziosamente i corridoi di quell’enorme casa e arrivata all’ingresso mi vedo riflessa in uno degli specchi appesi.
Volto tirato e capelli che sembrano un covo di serpi. Li raccolgo in uno chignon scomposto e mi affretto ad uscire, sperando di non rivedere mai più questo tizio.
Il sole è appena poco più alto dell’orizzonte, devono essere all’incirca le cinque del mattino.
Di tornare a casa proprio non ne ho voglia, anche perché c’è il rischio che trovi Aileen stesa sul divano tra bottiglie di alcolici svuotate e non penso che mi tratterei da bucarle un occhio con uno dei miei tacchi.
Decido di andare alla mia collinetta alla periferia della città mettendomi sulle spalle coperte la felpa arrotolata nella borsa.
Prendo anche il mio ipod e lo lascio partire in riproduzione casuale, lasciando che sia il caso a scegliere la colonna sonora per questo momento.
Appena finita la breve salita per arrivare in cima mi stendo a terra e accendo una sigaretta.
L’ipod fa partire Polly dei Nirvana. Nella mia mente sto mandando a fanculo il fato in tutte le lingue.
Questa canzone è proprio perfetta per come sto ora, dopo aver fatto sesso con uno che nemmeno conoscevo, e mi sento un po’ come lei; Polly.
“Let me clip your dirty wings”
E io glielo lascio fare. Dalla mia bocca non esce nemmeno un lamento.
“I want some help to please myself”
Divertente Kurt. Vaffanculo. Potresti darmelo tu questo cazzo di aiuto se non ti fossi sparato quel cazzo di colpo in quella cazzo di testa.
Mi accendo la seconda sigaretta mentre le ultime note della canzone di risuonano in testa.
Bella merda, le cose peggiori capitano sempre alle persone migliori. E penso a Kurt che era troppo sensibile per vivere, a mia sorella che ha la leucemia e forse un po’ anche a me.
Spero di essere una brava persona ma in realtà provo disgusto per me stessa e per quello che faccio.
“Let me clip your dirty wings”
  
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