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Autore: menestrella 07    21/09/2008    2 recensioni
«Ricordamelo...» fece il ragazzo, incurante delle grida che arrivavano dal bordo della pista. «Come mai ci siamo lasciati?» «Perché ti ho beccato con un’altra?!» suggerì Emma, alzando gli occhi al cielo. III capitolo online! PROSSIMO AGGIORNAMENTO IN DATA DA DESTINARSI!
Genere: Generale, Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Menestrella’s corner:

Rieccomi, dunque, con la seconda parte di questa mia prima fic ambientata nel mondo del pattinaggio. Ribadisco, a scanso di equivoci (ma tanto ve ne sarete accorti ^ ^) che non sono una specialista, ma solo un'appassionata di questo sport meraviglioso! Perciò spero vorrete perdonare i miei errori!

 

Se vi va, lasciatemi un commentino! Altrimenti, permettetemi di ringraziare sin da ora tutti coloro che avranno la bontà di continuare a seguire le avventure di Emma!

M.

 

 

 

Ina Bauer



  

Seconda parte

 

A Rachele, Manuela, Chiara e Nightfox

 

 

Capitolo uno

Sconfitta

 

 

 

Si era svegliata presto quella mattina; a dirla tutta, praticamente non si era mai addormentata: l’ultima volta che aveva gettato uno sguardo alla sveglia, questa impietosamente segnava le 4.07 e quando aveva iniziato a suonare erano appena le 6.10. Mentre allungava il braccio per far tacere quel piccolo mostro scocciatore, Emma si ritrovò a chiedersi quale fosse, in fin dei conti, l’utilità di una levataccia.

 

 

Non che fosse contraria all’idea di alzarsi presto in sé: era solo che lei, prima delle undici, davvero non era in grado di carburare. Peccato che fosse inutile spiegarlo a Tobias: ci aveva provato e riprovato per anni, ma lui fingeva di non capire, ostinandosi a ripeterle che si trattava di una mera questione d’abitudine.

 

 

Il bello era che non aveva cambiato opinione neppure dopo averla vista crollare addormentata sul ghiaccio mentre eseguiva un doppio axel qualche minuto dopo il sorgere del sole.

 

 

Emma si avviò controvoglia al lavandino, colmando con grandi sbadigli l’attesa della sensazione rigenerante che l’acqua fresca avrebbe provocato sul suo volto; un’occhiata fugace allo specchio le procurò un grave turbamento: quando le erano spuntate quelle occhiaie nere e profonde che la facevano assomigliare ad un panda? Era sicura di non averle viste l’ultima volta che si era avvicinata a quell’oggetto traditore.

 

 

No, non si era svegliata bene e qualcosa le diceva che la giornata avrebbe continuato a peggiorare. Si affacciò alla finestra e osservò con antipatia il cielo, che era pressoché interamente coperto da minacciosi nuvoloni scuri. A giudicare dalla quantità di piumoni e giacche a vento, che si vedevano avventurarsi a passi spediti per la strada, doveva essere anche piuttosto freddo.

 

 

Si ritrovò a domandarsi se anche a casa sua fosse una giornata così tetra: lì, però, avrebbe trovato un’ottima colazione pronta a fare di tutto per migliorarle almeno un po’ l’umore; qui in hotel non ci sarebbe stato nulla di comparabilmente premuroso.

 

 

Un improvviso toc-toc alla porta la fece sobbalzare: chi mai poteva farle visita a quell’ora? Si infilò rapidamente i pantaloni della tuta e una felpa ed andò ad accogliere l’ospite indiscreto: un cerimonioso inchino, prima ancora di due luccicanti occhi a mandorla, le fecero capire di trovarsi di fronte una delle atlete della squadra di casa.

 

 

 La più scarsa, se Emma aveva letto con attenzione il dossier che il suo allenatore le aveva preparato per ciascun partecipante.

 

 

«Guarda che gli uomini non mi servono» aveva spiegato a Tobias, ma quello aveva insistito.

«Leggilo! E’ a titolo puramente informativo. Non si sa mai che tu trovi l’uomo-della-tua-vita...»

 

 

Già, Tobias adorava sopra ogni cosa prendersi gioco di lei. Se non avesse avuto così bisogno di lui, avrebbe fatto in modo di eliminarlo fisicamente. Mentre rispondeva goffamente al saluto della giapponesina, si rese conto che, considerata la sua ormai veneranda età come pattinatrice, non avrebbe dovuto attendere poi ancora troppo tempo.

 

 

La ragazza si introdusse rapidamente nella sua stanza e cominciò subito a parlarle frettolosamente, con un tono a metà tra lo spaventato e il cospiratorio. Le disse che, se non aveva impegni per quella mattinata, sarebbe stata felice di accompagnarla in un giro esplorativo del palazzetto del ghiaccio in cui, di lì a qualche giorno, si sarebbero tenute le gare.

 

 

Emma, a cui l’idea di disertare l’allenamento piacque subito un sacco, si ricordò però di quanto Tobias era solito ripeterle sempre: diffida dei tuoi avversari. Che volesse approfittare dell’occasione per metterla fuori combattimento? Considerò con maggiore attenzione la ragazzina, che però sembrava più mansueta di un agnellino; tuttavia facendo proprio il motto del suo allenatore – almeno di questo avrebbe potuto essere orgoglioso – decise di rivolgerle qualche domanda chiarificatoria.

 

 

«Do you want to kill me?»

 

 

La minuta pattinatrice sembrò sinceramente dispiaciuta per quella sua supposizione e scosse vigorosamente le testa. Si inchinò nuovamente e disse solo che nel suo paese l’ospite era sacro e che quindi era stato ordinato a ciascuna delle ragazze della squadra di accompagnare in visita guidata le atlete straniere.

 

 

Ancora titubante Emma accettò l’invito, dichiarandosi pronta a raggiungerla nella hall dopo pochi minuti. Rapidamente indossò qualcosa di più serio e cercò i post-it rosa, che le aveva regalato una sua amica appassionata di materiale da cancelleria, con cui lasciare un messaggio a Tobias.

 

 

Torno subito.

 

 

Questo sì lo avrebbe fatto andare su tutte le furie: erano arrivati da due giorni ed Emma non aveva ancora iniziato ad allenarsi. Il fatto era che il jet leg l’aveva messa al tappeto: se le gare si fossero tenute l’indomani, certamente gli atleti di casa non avrebbero avuto rivali.

 

 

Le interminabili ora di volo, allietate da disagevoli scali nel mezzo della notte, avevano decisamente compiuto il loro effetto e la ragazza si sentiva come se fosse stata ripetutamente investita da un tir. Tobias invece sembrava nato per viaggiare: inutile dire che aveva passato quasi la totalità del viaggio a corteggiare le hostess che però con sufficiente gentilezza ma risoluta fermezza avevano lasciato cadere le sue avances.

 

 

Con circospezione Emma si avventurò per i corridoi dell’hotel che, vista l’ora, non erano molto frequentati. Giunta di fronte alla reception si unì ad un gruppo di ragazzine dagli abiti multicolori e dalle messe in piega impeccabili che palesarono con scarsa discrezione il loro scandalizzato disprezzo per il suo aspetto trasandato.

 

 

«Don’t look at them... they’re here for the soap-opera casting» le disse piano la sua guida, miracolosamente materializzatasi dal nulla. «They’re scary, aren’t they?»

 

 

Emma, sinceramente ammirata per l’uso spontaneo della question tag, che la riportò in un lampo alle lezioni d’inglese sui banchi delle medie, decise di concedere alla ragazzina il beneficio del dubbio: c’era la possibilità che fosse in grado di rivelare delle qualità inaspettate.

 

 

Dopo aver riconsegnato le chiavi della propria stanza – che chiavi non erano, ma piuttosto delle schede luminose di ultima generazione, ancora assenti in qualsiasi hotel europeo – le due pattinatrici si diressero al bar, ove le attendevano altre tre ragazze. Queste accolsero le nuove arrivate con dei vigorosi sbadigli a stento trattenuti.

 

 

 Good morning to you.

 

 

La padrona di casa non perse tempo in superflue presentazioni: ciascuna delle sue ospiti poteva non aver mai scambiato una sola parola, in vita sua, con le altre, poteva anche non conoscerne minimamente i gusti o le opinioni, ma tutte erano perfettamente al corrente della mutua condizione fisica e dei reciproci punti deboli.

 

 

E tanto bastava per quel rapporto che, con massima probabilità, sarebbe rimasto strettamente professionale.

 

 

Chiunque avesse progettato quel piano di visita, doveva averlo fatto a mente lucida: le atlete erano state abbinate in base alla loro supposta abilità e, considerando le proprie compagne, Emma si rese conto di essere tenuta davvero in scarsa considerazione.

 

 

Mentre si avviava per la strada al fianco di Miss Guarda-come-dondolo, come la chiamava Tobias, la ragazza capì di non avere la benché minima possibilità di essere riconosciuta, in allenamento o in gara, da alcun membro del di certo numerosissimo e giustamente celebre pubblico nipponico.

 

 

La passeggiata fino al Palaghiaccio non fu delle più liete: il tempo era davvero polare ed il freddo riusciva ad infiltrarsi fin sotto ai pesanti giubbotti di cui le ragazze si erano opportunamente equipaggiate. Un po’ per quello, un po’ per timidezza, un po’ per studiata accortezza, il gruppo procedeva in religioso silenzio: non una parola fu spesa fino a quando le atlete si ritrovarono all’interno del palazzetto.

 

 

Si trattava di una struttura avveniristica, dalle forme audaci ed originali che ad Emma ricordarono subito quelle delle montagne russe. Se sopravvivo a questo campionato, penso che riuscirò finalmente a trovare il coraggio di salirci, pensò subito. Il salone principale si apriva verso l’esterno con una immensa vetrata capace di risplendere nonostante la totale assenza di sole.

 

 

All’interno il clima era decisamente più temperato: non faceva troppo caldo, fortunatamente, ma le ragazze preferirono togliersi immediatamente i cappotti, che furono prontamente raccolti da uno degli indefiniti volontari che si sarebbero affannati nei giorni successivi, ed in parte già lo facevano, per rendere piacevole ad atleti e spettatori stranieri il loro soggiorno nella terra dei samurai. Emma ringraziò con un incerto Arigato, che fu calorosamente ricambiato da un inchino più profondo del solito.

 

 

La pista era stupenda. Dalla tribuna est in cui si trovavano si poteva godere di una vista mozzafiato: quell’immenso teatro del ghiaccio era in grado di ospitare fino a venti mila spettatori, ma anche provando ad immaginarselo pieno, sarebbe ugualmente apparso assolutamente ordinato. Era stato merito degli ingegneri l’aver creato uno spazio gigantesco, che riusciva però a sembrare raccolto e confortevole. Emma ci si sentì immediatamente a proprio agio: pensò alla pista di casa, ristretta e malandata, che perdeva dieci mila a zero il confronto, ma che in qualche modo le veniva ricordata da questo gioiellino architettonico.

 

 

Forse erano i sedili rossi, oppure i corrimano blu. Sta di fatto che dentro a quella pista, in cui non aveva mai messo piede o scarponcino sino a quel momento, si sentiva stranamente a casa. Se avesse provato a chiudere gli occhi, era quasi sicura che sarebbe stata in grado di vedere Giovanni dilettarsi in qualche passaggio coi suoi compagni. La voce di una delle ragazze la riportò bruscamente alla realtà.

 

 

«Look!» gridò Miss Spread-Anchel quasi senza fiato. «It’s him

 

 

Le altre pattinatrici si scambiarono accesi sguardi colmi di entusiasmo. Persino Emma si sentì colta da un brivido di eccitazione quando lo riconobbe. Nonostante fossero da poco passate le sette e mezza della mattina.

 

 

La cosa era tanto più strana dal momento che, se avesse assistito alla scena una persona completamente estranea al mondo del pattinaggio, certo non avrebbe potuto comprendere per quale ragione cinque ragazze così carine dovessero improvvisamente cadere in quello stato di confusione e subbuglio alla vista di un vecchietto in scarpe da tennis e baschetto di lana.

 

 

«He must see me!» disse con foga una di loro, iniziando a scendere di corsa le gradinate.

Un’altra, tuttavia, la raggiunse rapidamente e, afferratala per il braccio, la costrinse a fermarsi.

 

 

«Are you out of your mind?!» Emma la sentì esclamare. «Don’t you know he hates people disturbing him?»

 

 

La prima ragazza rifletté per un istante e poi con aria sconfitta si risolse ad abbandonare il progetto di raggiungere la pista ed iniziare ad eseguire tripli flip senza nemmeno l’ausilio delle lame.

 

 

Emma fu costretta ad ammettere con se stessa che una simile ispirazione aveva fugacemente attraversato anche la sua mente. Ma non c’era bisogno di sentirsi in colpa. In fondo quello era Ivan Viktorovic Rostov.

 

 

L’allenatore più famoso del mondo. Non c’era pattinatore che non fosse disposto a vendere l’anima al diavolo pur di poter ricevere anche solo qualche semplice suggerimento da lui.

 

 

Bronzo ed argento olimpico in coppia con la sua bellissima Ira, quando in gioventù era stato lui a solcare il ghiaccio aveva fatto meraviglie: il suo free skate all’Europeo in Svezia era entrato nella leggenda. Da allora tutti lo avevano sempre indicato come il programma perfetto. La sua gloria non si era esaurita dopo il ritiro: aveva girato mezzo pianeta con i suoi spettacoli, a cui gli stessi atleti si facevano in quattro per ottenere il permesso di partecipare.

 

 

E poi aveva scelto di fare l’allenatore: con i guadagni delle fortunate tournèe aveva costruito un palazzetto del ghiaccio in un paesino non meglio noto alle porte di S. Pietroburgo e da allora si era dedicato alla ricerca e allo sviluppo di nuovi campioni da consacrare alla fama della Grande Madre Russia.

 

 

All’inizio non era stato facile: dopo aver partorito un simile talento, la terra della vodka e del violino sembrava aver sentito la necessità di riprendersi da un simile sforzo. Per un po’ non c’era stato nessuno che potesse far nuovamente sventolare la bandiera di casa. Americani e Giapponesi si erano disputati le medaglie mondiali ed olimpiche, facendo gara a sé.

 

 

 E poi finalmente era arrivato. Il campione che doveva rendere di nuovo grande la Russia.

 

 

Le ragazze si fissarono per un istante, incerte. A quanto pareva, tentare l’approccio con Ivan Rostov in persona sarebbe stato considerato maleducato, nonché infantile: ciascuna di quelle pattinatrici sapeva, in fondo al proprio cuore, di non possedere le doti necessarie per eccellere e temeva, con un certo grado di fondatezza, che il celebre allenatore non si sarebbe fatto troppi scrupoli nel dichiararlo apertamente.

 

 

Tuttavia l’esaltazione che un simile incontro aveva generato doveva essere in qualche modo soddisfatta: le ragazze parlottarono tra loro, stabilendo che se avevano dovuto rinunciare alla possibilità di scalare rapidamente la vetta del successo, avevano ancora l’opportunità di rifarsi gli occhi.

 

 

Emma scosse la testa, intuendo il loro piano. Si strinse nelle spalle e si fermò a considerare quali vertici potesse toccare l’insulsaggine umana quando si univa alla tempesta ormonale tipica dei diciotto anni.

 

 

Quelle ragazze andavano incontro al suicidio, senza neppure rendersene conto. Se disturbare il grande Rostov avrebbe potuto arrecare loro gravi conseguenze, altrettanto mortificante sarebbe risultato il tentativo di avvicinare il suo atleta.

 

 

Sei-punto-zero.

No, questa volta non si trattava di un’altro dei soprannomi ideati da Tobias, ma di un epiteto universalmente riconosciuto. Tanto più incredibile visto che il ragazzo in questione aveva iniziato a gareggiare quando era già uscito di scena il calcolo del punteggio di gara che riconosceva in quella cifra la votazione massima che un pattinatore potesse ricevere.

 

 

«He has to be in the locker room!» ipotizzò una delle ragazze.

«He surely wants to start his training» le fece eco un’altra.

«We have to find him» concluse la terza. «Now»

 

 

La piccola pattinatrice giapponese quasi svenne quando riuscì a comprendere il proposito di quelle esagitate. Cercò immediatamente l’aiuto di Emma, ma quella distolse lo sguardo chiamandosi fuori sia dalla cospirazione che dal tentativo di salvataggio che, lo sapeva già, sarebbe miseramente fallito.

 

 

Le tre ragazzine, infatti, si gettarono subito alla ricerca degli spogliatoi, inseguite dalla giapponesina che, con le lacrime agli occhi, le pregava di riconsiderare la convenienza dei loro gesti.

 

 

Per favore, è un collega, avrebbe voluto dire Emma. Ma si rendeva conto che le sue parole non avrebbero sortito alcun effetto. Chissà, se fosse stata un po’ più giovane o un po’ più pazza, probabilmente le avrebbe seguite. Invece era una ragazza di ventidue anni con la testa sulle spalle. Ed un briciolo di senso di dignità.

 

 

Non che non le sarebbe piaciuto farsi una foto con lui, da mostrare alle amiche una volta tornata a casa e di cui andare fiera per tutta la vita; da far vedere ai nipotini una volta che la vecchiaia le avrebbe impedito di indossare ancora i pattini.

 

 

Ma non aveva la faccia tosta per andare a cercarlo. Che cosa avrebbe potuto dirgli, una volta trovatoselo di fronte? Quale complimento avrebbe potuto rivolgergli che non avesse già ricevuto da migliaia di fans?

 

 

Poi qualcosa catturò la sua attenzione. Quella meravigliosa superficie bianca, splendente come uno specchio, la stava chiamando. Improvvisamente si dimenticò di Ivan Rostov che pure si era accomodato in tribuna; si dimenticò persino di Sei-punto-zero. Tutto ciò che desiderava era procurarsi un paio di pattini e provare la consistenza di quel ghiaccio così invitante.

 

 

Con quest’unico proposito e desiderio in mente tornò sui suoi passi, raggiungendo l’ingresso alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarla, ma non incontrò anima viva. Tutti i volontari sembravano essersi volatilizzati. Decise di tentare la fortuna: forse al piano di sotto, dove si trovava la pista, avrebbe potuto individuare un responsabile, oppure il gestore stesso dell’impianto.

 

 

Scese rapidamente i gradini oltre una porta che recava sul battente l’avviso di morte per chiunque provasse ad oltrepassarla senza far parte del personale operativo del palazzetto. Il fine giustifica i mezzi, si disse.

 

 

Emma si chiese se sarebbe riuscita a trovare qualcuno che potesse esaudire il suo desiderio. Sentì nelle orecchie la voce di Tobias, che la rimproverava per aver lasciato i pattini in hotel e per una volta fu costretta a riconoscere che aveva ragione. Li aveva custoditi con cura durante tutto il viaggio, facendoli volare nel suo bagaglio a mano, ma li aveva lasciati indietro al momento della verità.

 

 

In fin dei conti aveva però una scusante: come avrebbe potuto pensare di non riuscire a trovare un paio di pattini in prestito all’interno di un palaghiaccio? Considerò l’opportunità della propria ricerca: poteva risultare pericoloso indossare dei pattini non personalizzati qualche giorno prima della gara, ma la voglia di salire sul ghiaccio era troppa.

 

 

Emma si ritrovò in un atrio, anch’esso deserto. Ma era possibile che l’unica persona viva lì dentro fosse Ivan Rostov? Quello spazio era veramente enorme, ma completamente disabitato. La pista del suo paese pullulava di addetti ed atleti sin dalle cinque del mattino.

 

 

Si avvicinò contrariata ad una porta a vetri, che delimitava l’accesso all’area della pista vera e propria. A quanto pareva si sarebbe dovuta accontentare di sfiorare il ghiaccio con una mano.

 

 

E poi la vide. Una persona, finalmente!

 

 

Non era una delle ragazzine che la avevano accompagnata e che in quel momento stavano probabilmente setacciando i piani superiori. Non era neanche un volontario indigeno, visti i capelli biondi.

 

 

Il ragazzo dall’altra parte della porta si fermò, vedendola arrivare. Lei fece lo stesso, indecisa sul da farsi: com’è che era sempre così impacciata in queste situazioni? Il galateo non le era mai venuto in aiuto in simili occasioni, visto che ogni volta era sembrata l’unica a possederne qualche rudimento.

 

 

Rassegnata si scansò di lato, permettendo al ragazzo dai capelli chiari di uscire senza travolgerla. Ma lui la sorprese. Si spostò a sua volta e le tenne aperta la porta, invitandola a passare per prima. Quel gesto galante la colse impreparata. Comprese come fosse il caso di alzare gli occhi su quel gentiluomo di vecchie maniere per ringraziarlo con un sorriso.

 

 

Prima ancora di posare lo sguardo sul suo volto, però, la sua attenzione fu catturata dal luccicare dell’oggetto che teneva in mano. Lame. Lame da ghiaccio.

 

 

Gli rivolse allora uno sguardo curioso ed interessato, che fu ricambiato per un istante con una timida occhiata.

 

 

...

 

 

Porca miseria.

 

 

Sei-punto-zero.

 

 

In persona. Davanti a lei, ancora intento a reggere la porta.

 

 

Emma rimase paralizzata. Per qualche secondo il suo cervello entrò in stand-by. Poi, quando riprese a funzionare, le fece comprendere appieno la situazione: aveva incontrato il suo idolo, la sua principale fonte di ispirazione. E non si sentiva in grado di spiccicare parola.

 

 

Il ragazzo non sembrò far troppo caso al suo turbamento; forse non se ne accorse proprio, visto che teneva gli occhi fissi sul muro alle spalle di Emma, evitando di guardarla direttamente. Fu quel contegno distaccato che fece tornare la ragazza in sé: si riscosse e azzardò un passo attraverso la porta, sforzandosi di non riportare lo sguardo sul campione.

 

 

Sei-punto-zero le aveva aperto la porta. Era sciocco ma non poteva fare a meno di pensarci. Era talmente persa nelle sue fantasie che quasi non udì la frase che il ragazzo le rivolse subito dopo, un sussurro appena percettibile.

 

 

«You went the wrong way, I’m afraid; this entrance is for athletes only».

 

 

Questa volta Emma non potè farne a meno. Si voltò di 180 gradi, trovandosi di fronte il campione che, abbozzato un sorriso, se ne andò.

 

 

La ragazza rimase sola con la propria umiliazione. Aveva incontrato il suo mito e quello l’aveva scambiata per la donna delle pulizie.

 

 

Ha proprio ragione Silvio Muccino: certe giornate... andrebbero dormite.

 

 

 

 T T T 

  
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