Underworld
Tu-tum,
Tu-tum,
Tu-tum.
E
ancora il mio cuore quello che sento battere? Non ho
coscienza del mio essere, mi sento leggera, incorporea. Non riesco ad
aprire
gli occhi, sono la mia fiamma vitale, evanescente, immateriale. Tu-tum, Tu-tum.
Eppure quello che sento è proprio il battito di un cuore.
Sarà ancora il mio?
« Perché l’hai portata qui Christopher?
Se ci scoprono
possono mandarci fuori! La sua foto è su tutti gli schermi.
»
« Non potevo lasciarla morire Paige. »
Queste
voci...
da dove provengono?
«
Saremo noi a morire allora! »
« Calmati adesso. Va pure resto io qui. »
Sulle prime l’unica cosa che noto è il liquido
rosso nel
quale fluttuo. Provo a muovere le mani e i piedi e sento di riacquisire
il
controllo del mio corpo, poco a poco. Abbasso lo sguardo sul mio petto
e resto
pietrificata: sono completamente nuda e dal mio costato
s’irradiano decine di
fili colorati con all’estremità vari elettrodi e
rivelatori lampeggianti. Urlo
dal terrore ma mi rendo conto che sulla bocca indosso una mascherina e
ho tubi
giù per la trachea e cannule nasali infilate su per le
narici. Mi dimeno in
preda all’ansia, tentando disperatamente di liberarmi da quel
groviglio di
sonde e fili.
Poi qualcosa attira la mia attenzione.
Una sagoma opaca e poco nitida si avvicina con circospezione
e mi guarda.
« Sei sveglia » dice e la sua voce arriva attutita,
distante.
Quella che sembra una mano si allunga su un lato e comincia
a digitare un codice su un tastierino. Sento un clic
sinistro e un attimo dopo sono fuori dalla mia prigione,
scaraventata via dalla forza del getto d’acqua che mi
circonda. I fili che mi
imprigionano si strappano via dalla pelle lasciando macchie rosse,
mentre la
maschera vola. Mi tiro a forza il tubo rimasto in gola e mi ritrovo a
sputare
sangue sul pavimento.
Tossisco vistosamente e tento come posso di coprire le mie
nudità. Una mano mi protende un asciugamano troppo piccolo e
fatico a tenderlo
per bene in modo da coprire quantomeno il busto e le natiche.
« Tranquilla, non voglio farti del male » dice la
stessa
voce di prima, che adesso ha acquistato un volto.
« Chi sei tu? Dove mi trovo e perché ero chiusa in
una cazzo
di gabbia di vetro! »
« Sei nel mio laboratorio. Mi chiamo Christopher Parsons e
sono uno scienziato. Quando ti ho trovato, avevi ingoiato molta acqua,
i tuoi
polmoni erano saturi. Sono intervenuto quanto prima e... beh sei ancora
viva.
Inoltre hai una ferita da arma da fuoco alla spalla e hai perso
molto... »
« Lavori per la Robotic Corporation vero? » mi
sento intontita,
la stanza gira tutta e ho la nausea.
« Si. Ma non voglio farti del male. Ti ho portato a casa
mia, non alla Robotic. Chi ti ha sparato? »
«
Cosa hai fatto hai miei polmoni? » Con le dita della mano
destra tento di tastarmi la schiena ma non avverto nulla di strano
« Ho drenato il liquido che avevi ingoiato con un
apparecchio elettronico. Non lascia cicatrici ed è molto
efficace. » La sua
voce è pacata ma sicura.
« Come ti sei ferita al braccio? »
« Parli proprio come uno di loro.
Chi mi ha sparato dici? Uno dei tuoi amichetti. Un Guardiano.
Hanno uno spiccato senso dell’umorismo loro. Anzi avete. » Sfioro con le dita il
punto dove quel lurido ammasso di
latta mi ha colpito; la ferita non è ancora guarita del
tutto, ma sembra essere
in buone condizioni.
« Questo non è possibile. Un robot non
può recar danno ad un
umano, anche se esso stesso fosse messo in pericolo. »
L’uomo che dice di
chiamarsi Christopher si siede a terra. Il suo bel viso ambrato
è ora segnato
dalla preoccupazione e i suoi occhi color ghiaccio sembrano essersi
velati di
tristezza.
« Invece
è proprio
così. Quei cosi sono
impazziti tutti.
Ci faranno fuori uno ad uno se non interveniamo. L’Eletta
vuole sottometterci.
O questo o la morte. »
Faccio per alzarmi ma ho la testa pesante e perdo
l’equilibrio, cadendo tra le braccia di Christopher.
« Sei ancora molto debole, ti porto in camera. »
Fa’ per
prendermi in braccio, ma io mi rifiuto e mi appoggio a lui quel tanto
che basta
a sostenermi. Ci incamminiamo in un corridoio stretto e mal illuminato
alla
fine del quale c’è una stanza dove intravedo
un’umile branda. Dalle finestre
del corridoio vedo l’esterno della casa.
«
Dunque è questa Underworld.
»
« Non eri mai stata sotto la superficie? »
« No, non ero mai scesa agli inferi.
»
Entriamo in camera e nell’angolo della stanza nascosta dal
corridoio, c’è un grande letto a due piazze.
« Io mi sistemerò sulla brandina,
tu accomodati pure sul letto. È più comodo.
»
« Andava bene anche la branda. Da
dove vengo io dormiamo sul cemento di qualche vecchio edificio non
ancora
crollato del tutto. Casa mia non ha
neppure il tetto. »
« Qual è il tuo nome? »
« Codice 1143 »
Forse dice qualcosa, forse no,
non ricordo, perché comincio a vedere acquoso e
d’un tratto mi sento sfibrata,
debole e moribonda.
Chiudo gli occhi e mi addormento
all’istante.
Quando
riemergo dal mio
stato catatonico, i raggi del sole non filtrano più
attraverso l’acqua e tutto
è più buio e cupo. Sul comodino di fianco al
letto, c’è una tazza fumante con
un liquido rosato all’interno e un biglietto che dice:
“Bevimi tutto.
P.S. sono buono e ti farò
bene.”
Butto giù il contenuto della tazza tutto d’un
sorso.
Trovo una tuta subacquea su
uno sgabello e la indosso con riluttanza. Il tessuto aderisce troppo
alla
pelle, rendendo evidenti curve che di solito preferisco nascondere, ma
di certo
non posso andare in giro nuda. Mi metto in piedi e mi sento
più stabile, meno
fiacca, l’intruglio deve aver funzionato.
Percorro il corridoio in
cerca di Christopher, ma vengo attratta da un profumo invitante che
appartiene
ad un ricordo passato, di cui ho solo vagamente il sentore. Entro in
una stanza
che riconosco come una mensa e vedo una donna di spalle, intenta a
preparare da
mangiare. Mi ricorda mia madre.
« Ciao » le dico per non
spaventarla, ma lei si volta di scatto impugnando un forcone e gridando
come
una forsennata. « Non osare avvicinarti, mostro! »
Non faccio in tempo a
voltarmi che Christopher è già sulla soglia con
un’espressione allarmata. « Che
sta succedendo qui. Paige abbassa quel forcone! »
« Hai portato il demonio in
casa nostra! Ci farai cacciare tutti. Lei
è un’estranea!»
si ferma sull’ultima parola quasi sputandola fuori con
disgusto, piuttosto che
gridando semplicemente. Eppure siamo entrambe fatte di carne e ossa,
siamo
nate, cresciute e moriremo, probabilmente uccise dallo stesso morbo che
lei
protegge ed io odio con tutta me stessa. E nonostante ciò
lei considera me
il nemico.
Ha l’aria di una disperata
timorata di Dio, in un mondo dove Dio è andato a farsi
fottere da un pezzo.
« Sarà meglio che vada, tua
moglie ha ragione. Per voi è pericoloso che io sia qui e poi
su c’è qualcuno
che mi aspetta. »
Mi avvio in cerca di un’uscita,
seguita da Christopher.
« Ehi aspetta ti prego.
Paige non è mia moglie!
Lei era
smarrita e sola come te prima che la trovassi. »
« Ma cosa fai realmente
nella vita tu eh? Raccogli relitti umani sul fondo
dell’oceano? Io non sono
sola, ho un compito da assolvere in superficie, ci sono persone che
necessitano
del mio aiuto! Quindi lasciami andare. »
Sembra dispiaciuto per
avermi paragonata ad una squilibrata mentale, ma non demorde.
« Se torni ad Up Town ti
daranno la caccia. Qui sei al sicuro. »
« Io DEVO tornare. C’è una
bambina di sette anni che morirà di fame e di freddo se non
ci sono io che bado
a lei. » Pensando al volto di Julia mi si stringe il cuore e
devo trattenermi
dal commuovermi.
Alza le mani in segno di
resa: «OK. D’accordo mi arrendo, ma lascia che ti
scorti fin su in superficie.
Se non hai la giusta attrezzatura moriresti annegata, senza contare che
hai
bisogno di una guida per orientarti. »
È praticamente un estraneo
ma mi ha già salvato la vita una volta; non posso che
affidarmi a lui.
« D’accordo. Muoviamoci. »
Torniamo nel laboratorio e
Christopher prende da un cassetto un aggeggio fluorescente, un ovale
grande
quanto una biglia di metallo.
« Se vuoi tornare su viva
devi indossare questo. Ti permetterà di respirare in acqua
anche senza
boccaglio. »
Dall’ovale spuntano dei
piccoli prolungamenti argentei ai lati che fanno assomigliare
quell’affare ad
un ragno fluorescente. Deglutisco rumorosamente, odio tutto quello che
ha a che
fare con le macchine schiaviste, ma a quanto pare quello è
l’unico modo che ho
per respirare una volta uscita da qui. Gli faccio segno di proseguire e
lui
poggia il ragno metallico alla base del collo in corrispondenza della
trachea,
poi aggiunge un anellino di ferro all’interno di una narice.
« Bene, ora possiamo andare
da Walt. »
« Chi? »