Cataclisma
Io
vivo in uno dei
grattacieli che emergono dall’oceano come spuntoni aguzzi.
Gli edifici sono solo
mucchi di macerie, simili a enormi denti scheggiati, che non riescono
più a
svolgere il loro compito di una volta: di notte si gela dal freddo e di
giorno
il sole cocente ti abbrustolisce. Ma sono una delle poche cose rimaste
del
vecchio mondo, almeno c’e il cemento duro su cui poggiare
saldamente i piedi. I
tetti delle case, i pezzi di ponte e gli stralci di strada rimasti
sparsi qua e
la sembrano tante piccole isole solitarie. Tutt’attorno
c’è solo il blu del
mare immenso e spaventoso.
« Ehi Rachele,
abbiamo bisogno di coperte e del cibo qui. »
In questo buco dove
sopravvivo, relitto di un vecchio tribunale, ci sono altre tre persone.
Ronald, un vecchio
marinaio sdentato, mutilato al braccio sinistro – colpa di un
incontro
ravvicinato con uno squalo bianco – con la pelle bruciata dal
sole; JD, un
ormai ex rapinatore in pensione ed infine la piccola Julia, orfana di
guerra.
« OK Ron io cerco
qualcosa da mangiare JD penserà alle coperte. Tu resta qui
con Julia e tieni la
radio accesa. »
« Agli ordini. »
« Vaffanculo stronzo! »
Mi lancio giù dal ponte e atterro sul tettuccio del SUV.
“Tutto per la vostra sicurezza”, alle mie spalle il Guardiano comincia la sua caccia all’uomo. Mi catapulto su un’insegna di un hotel e mi lancio su tutti i tetti dei palazzi allineati. Corro più che posso, ma il robot è già dietro di me così vicino che posso avvertire la sua mano gelida di ferro che tenta di agguantarmi. Salto sul tetto del palazzo a ridosso e scalo la rete metallica che segna il confine tra due quartieri. Prendo la rampa antincendio e salgo sul fianco dell’edificio diroccato. Laser rossi mi puntellano tutto il corpo, come mirini di un cecchino.
Disperata sfilo la pistola dalla custodia alla caviglia e sparo dritto in un occhio cibernetico. Mi volto e salto nel vuoto, lasciando l’arma sul lastricato.
Il
tempo sembra
essersi fermato. Tutto scorre con una lentezza estrema, come singoli
fotogrammi
di un film. Vedo i miei capelli volare nell’aria intorno a me
e sento il vuoto
sotto i piedi, il vento sulla faccia. A stento mi rendo conto del
rumore alle
mie spalle e un attimo dopo piccole gocce di sangue mi vorticano
intorno e
qualcosa di piccolo e nero schizza sotto il mio mento alla
velocità della luce.
Il robot mi ha sparato ad una spalla. Il dolore è immediato,
crudo e
lancinante. Urlo ed istintivamente mi stringo la spalla ferita col
braccio sinistro.
Il mio corpo ruota nel cielo e i capelli coprono la mia visuale. Sto
cadendo
nel verso sbagliato e lo sto facendo in fretta. Tento di voltarmi
nuovamente ma
non faccio in tempo a partorire questo pensiero, che la mia schiena si
è già
schiantata sull’acqua, dura come l’asfalto.
L’impatto mi comprime i polmoni,
impedendomi di incamerare aria. L’acqua si apre sotto di me
inghiottendomi. Non
riesco a muovermi, a respirare, a pensare a come far contrarre e
rilassare i
muscoli intercostali. Non vedo più nulla. La chioma ora
informe dei miei
capelli si chiude sul mio viso, come alghe compatte che si avviluppano,
imprigionandomi.
Non
ho più
ossigeno.
Sto morendo.