Il dolore era atroce, non era nemmeno possibile cercare di capire dove fosse più intenso, perché l'intero corpo era come cosparso di fuoco che ardeva la sua carne mentre era ancora vivo. O forse non era vivo e stava bruciando tra le fiamme dell'inferno. Sempre se i mutanti finivano all'inferno.
Raph
cercava di non svenire, ma la sua coscienza andava e veniva, la vista
si annebbiava a tratti e i suoni e i rumori si affievolivano per
interi minuti, per poi ritornare con prepotenza, all'improvviso e
decisamente troppo alti, tanto da assordarlo e confondergli i sensi.
Era
stordito, sofferente e in preda ad un'angoscia soffocante.
Respirare
era un'agonia, rantoli strozzati, strazianti come essere trafitto da
cento pugnali, gelidi e impietosi nella carne.
Sentì
delle mani che lo afferrarono e lo sollevarono, e parole confuse e
flebili, dette da non sapeva chi, mangiate via dal dolore e l'ansia,
dalla confusione e il buio; poi forse svenne per qualche istante,
perché non ricordava di essere stato portato da qualche
parte, ma
dopo la bruma si riscoprì a fissare il tettuccio di un'auto,
mentre
Don e Mikey lo stringevano per non farlo muovere.
Mikey.
C'era Mikey. Se non era un'allucinazione dovuta dal dolore, suo
fratello era davvero di nuovo assieme a loro, vivo... sentì
un po'
del panico sciogliersi, ma dov'era Leo?
Non
poteva muoversi per controllare e il dolore stava di nuovo per farlo
svenire, ma appena prima del niente sentì il leader urlare
qualcosa,
decisamente spaventato. Voleva aiutarlo, voleva capire e aiutare i
suoi fratelli, ma gli spasimi si portarono via tutto di nuovo,
prepotentemente.
Rinvenne
ancora ed ogni volta era peggio della precedente, perché il
dolore
cresceva e il respiro invece diminuiva: non riusciva più a
mettere a
fuoco per bene ormai e l'udito era tutto ciò che gli
rimaneva come
contatto con la realtà.
Sentì
le mani di qualcuno che strappavano via brandelli di tessuto dal suo
corpo con esclamazioni sofferte ad ogni gesto, come se la vista delle
sue ferite fosse troppo cruda e difficile da digerire.
“Don?”
rantolò con fatica tra un gemito di dolore e l'altro,
provando a
fargli capire che fosse ancora cosciente, nonostante tutto.
“Va
tutto bene, Raphie. Andrà tutto bene” disse la
voce spezzata del
fratello, che gli strappò un sorriso senza volere.
Almeno
credeva di aver sorriso. Dentro lo stava facendo. Perché Don
non lo
chiamava più Raphie da un secolo. Da piccoli era l'unico
modo in cui
lo chiamava, quando ancora non sapeva pronunciare bene le parole, a
causa dei denti di davanti da coniglietto; era suo dovere chiamare
lui e Mikey con dei soprannomi, aveva detto, perché era il
loro
fratello maggiore e poteva coccolarli e vezzeggiarli in ogni maniera
possibile. Poi aveva smesso di rivolgersi a lui in quel modo quando
lo aveva battuto la prima volta in uno scontro, a dieci anni: da
quella volta era stato lui a prendersi il diritto di chiamarlo Donnie
e di trattarlo come se fosse lui il maggiore, anche se sapeva che Don
non lo gradiva.
Ma
a quanto pareva per il genio lui era sempre Raphie, anche se veniva
fuori solo in momenti delicati come quello, in cui la sua
razionalità
si scontrava con la paura.
Non
doveva essergli rimasto molto, allora. Stava morendo. E non era
così
sorpreso, in effetti; era più stupito di essere ancora vivo.
Una
porta si aprì con un colpo secco, nel silenzio pieno di
ronzii e
sbuffi del laboratorio.
“Sono
qui” sentì dire ad una nitida voce femminile e poi
il respiro
rincuorato di Don, come se un miracolo fosse appena accaduto davanti
ai suoi occhi.
“No!
Nonononononononono!” iniziò ad urlare Raph con
foga, perché
sapeva a chi apparteneva quella voce.
Come
se avesse potuto non saperlo.
Il
suo corpo, se corpo si poteva chiamare quella massa di sofferenza che
lo componeva, lo faceva impazzire dal dolore, ma prese ad agitarsi al
tocco di quelle mani, che non voleva su di sé.
“Vai
via! Vattene da qui!” le gridò contro, sforzando
lo sguardo per
metterla a fuoco.
Gli
occhi castani che in passato aveva amato alla pazzia apparvero
davanti ai suoi, profondi, preoccupati e doloranti per lui, cerchiati
di occhiaie livide. E lui non poteva sopportarlo. Non voleva
guardarli, non voleva vederli.
Meglio
davvero morire. Perché non poteva morire in santa pace,
senza che
fosse lei l'ultima persona su cui avrebbe posato lo sguardo?
Sentì
Don che provava a tenerlo fermo e poi le fitte dei muscoli che si
contraevano per la perdita di sangue e lo shock e la coscienza che si
affievoliva; e vedeva sempre lei, con la pelle pallida e tirata, come
se fosse sul punto di svenire su di lui.
“Non
ti voglio più vedere! Te ne devi andare via! Per sempre!
Odio averti
qui! Odio vederti!Vattene! Vattene e scompari dalla mia
vita!”
continuò a gridare con la tachicardia, le parole piene di
rabbia
eppure sempre più fievoli per la mancanza di ossigeno.
Isabel
non si scompose, anzi, non staccò un secondo lo sguardo dal
suo.
“Donnie,
hai della morfina, un anestetico? Se continuerà ad agitarsi
avrà un
collasso” la sentì dire con la voce stridula,
seppure contenuta
forzatamente per mantenere la calma.
Percepì
che il fratello si era allontanato di corsa per controllare e
prendere ciò che gli aveva chiesto, mentre lei non si era
mossa di
un millimetro dal suo fianco, ritta e pallida come un fiore di
giglio.
E
quegli occhi scuri lo trascinarono da qualche parte, perché
il solo
guardarli lo stava facendo sentire debole e sconnesso, il dolore che
si affievoliva lentamente, la consapevolezza di sé che
svaniva in
una luce accecante.
“Andrà
tutto bene, riposa adesso” sussurrò Isabel, con un
lieve sorriso
rassicurante.
Chiuse
gli occhi, e tutto fu luce e ombre che si mescolavano dolcemente,
indistinto.
“Vai
via! Odio che tu sia ancora qui, non voglio mai più
vederti”
biascicò mentre cadeva nell'oblio, stranamente quieto.
“Va
bene. Ma solo se combatterai per non morire. D'accordo?”
riecheggiò
la voce nel nulla, lontana, flebile, ormai di un altro mondo.
Pesantezza.
Ogni
cosa e sensazione era solo pesantezza, come se avesse addosso il peso
del mondo, come se il suo corpo fosse schiacciato, intorpidito, per
sempre.
Batté
le palpebre con fastidio, due o tre volte, prima di arrischiarsi ad
aprire completamente gli occhi e guardarsi intorno.
Dove
diamine era?
Riconobbe
i mattoni del soffitto, giallo paglierino, -il colore dei mattoni del
rifugio,- ma come ci era arrivato? Era stato tutto un sogno? La
trappola di Hun, lo scorrazzare nei sotterranei insieme a Don e la
lotta col coccodrillo gigante... lo aveva davvero sognato?
Provò
a tirarsi su di scatto, ma una fitta al petto lo fece piegare su
sé
stesso dal dolore, col respiro mozzo.
La
sofferenza riportò tutto alla mente, con immagini spaventose
che
accrebbero il dolore esponenzialmente, causandogli un acceso attacco
di tosse che rimbombava nella cassa toracica con fastidio.
“Ehy,
ehy, ehy, niente gesti inconsulti! Non sei ancora tutto come
prima!”
lo sgridò la voce di Don, mezzo esasperata.
Alzò
lo sguardo e vide il fratello genio farglisi incontro, con uno
scintillio negli occhi, di sollievo e contentezza. Erano nella sua
camera, anche se all'inizio non se n'era accorto, preso com'era a
capire cosa fosse davvero successo.
Don
lo aiutò a rimettersi sdraiato e tirò di nuovo su
il lenzuolo che
lo copriva, con attenzione.
“Cosa...
cos'è successo? Come... come siamo usciti dai sotterranei?
Che
giorno è oggi? Cosa...” domandò
velocemente, in preda alla
confusione totale, chiedendosi se invece non avesse semplicemente
immaginato tutto.
Ma
allora perché tutte quelle bende, perché tutto
quel dolore?
“Calmati!
O ti dovrò somministrare un tranquillante! Se prometti di
non
agitarti ti racconto cos'è successo”
esclamò Donnie, con un tono
da dottore che sembrava davvero piacergli troppo.
Il
fratello prese la sedia dove aveva riposato mentre lo teneva d'occhio
e la portò vicino al letto, sedendosi poi con calma.
Gli
raccontò ogni cosa, dal momento in cui lui era caduto
giù dal
soffitto assieme al coccodrillo, di come lo avesse ucciso
trapassandolo con Sai nel palato, arrivando così al
cervello, ma di
come fosse rimasto troppo ferito dallo scontro, incapace di muoversi,
prossimo alla morte.
“Non
avevi un osso intero! Cinque costole fratturate, il femore sinistro
esposto, una frattura scomposta al braccio sinistro, la spalla
lussata in quello destro e una commozione celebrale. Per finire un
polmone bucato e il fegato lacerato. E il sangue. Avresti dovuto
vedere la quantità di sangue che hai perso! Sembrava una
scena
splatter, da voltastomaco” riferì con cipiglio
tecnico Don,
palesemente disgustato e inorridito.
A
Raph venne quasi da sorridere. Don era quello che si nascondeva sotto
le coperte, quando da piccoli guardavano film dell'orrore con una
quantità enorme di sangue e budella di fuori; era rimasto
identico
ad allora, troppo sensibile, troppo gentile.
“A
te non è successo niente, vero?” si
informò con apprensione,
strappando un sorriso di gratitudine al fratello che lo
rassicurò,
ringraziandolo.
Poi
continuò a narrargli di come all'improvviso il pavimento
sotto di
loro avesse iniziato a muoversi e salire, mentre lui provava a
fermare l'emorragia, e dell'arrivo all'arena, dove si erano
ricongiunti con Leo e Mikey.
“Dove
sono? Come stanno?” chiese di colpo Raph preoccupato,
interrompendo
il suo racconto. Di nuovo cercò di sollevarsi, lentamente,
anche se
lo sguardo di Don si corrucciò nuovamente di rimprovero.
“Stanno
bene. Avevano delle ferite da arma da fuoco, ma adesso stanno
entrambi bene. Rilassati, però, o ti metterò a
dormire e non finirò
di spiegarti i fatti.”
Raph
si poggiò sui cuscini, mantenendosi semi sdraiato e gli fece
segno
di continuare.
Don
fece per aprire bocca, ma un lieve bussare arrivò dalla
porta,
interrompendoli.
“Avanti.”
Il
viso di Steve fece capolino dallo spiraglio e gli occhi del ragazzo
sgranarono nell'incrociare quegli svegli e vigili di Raph, come se
avesse di colpo visto una bestia feroce pronto ad azzannarlo.
“Do-Donatello,
mi... mi serve un antipiretico. Ha un po' di febbre”
balbettò a
disagio, tenendosi a debita distanza da loro, praticamente sulla
soglia della porta.
Il
genio ridacchiò sottilmente al vedere come il giovane
reagiva alla
presenza di Raphael, quando invece non si era fatto scrupolo ad
entrare con facilità e ad avvicinarsi per studiarlo mentre
dormiva,
nei giorni precedenti.
“Nel
laboratorio, di fianco alla scrivania, c'è la borsa medica;
leggi
sulla confezione, troverai scritto antipiretico... è
abbastanza
chiaro?” spiegò passo per passo, tranquillamente.
Steve
annuì soltanto, con gli occhioni azzurri che non riusciva
proprio a
staccare da Raph, anche se ci stava provando con ogni mezzo; forse
aveva paura che se avesse smesso di guardarlo gli sarebbe saltato al
collo e lo avrebbe ucciso.
Biascicando
qualcosa che non capirono, Steve uscì dalla stanza come una
furia,
sparendo in un lampo.
Don
rise apertamente, mentre Raph aveva lo sguardo sempre più
corrucciato.
“Il
marmocchio cosa ci fa qui? E per chi è la
medicina?” sbottò,
incredulo e piuttosto confuso.
“Il
marmocchio ci ha salvato, per tua informazione” lo sorprese
Don,
con un sorriso soddisfatto per l'espressione di stupore che si
dipinse sul suo volto.
Gli
spiegò delle bombe create dal ragazzo, delle esplosioni che
avevano
annichilito e spaventato Hun e i suoi scagnozzi e non
tralasciò
nessun dettaglio: dal fragore alle fiamme, dai detriti alla polvere,
dalle urla al terrore. E poi la fuga in furgone spericolata e vorace,
mentre sfuggivano alla più grande deflagrazione, della quale
si era
parlato nei telegiornali per giorni.
E
Raph ascoltò sempre più rapito e sempre
più incredulo. Il moccioso
aveva salvato le loro chiappe... il moccioso che era scappato con la
coda tra le gambe al loro primo incontro, quasi un mese prima.
“Un
momento... che giorno è oggi? Quanto tempo è
passato?” sparò a
raffica, provando a fare un calcolo mentale.
Era
il 23 di Giugno quando erano finiti nella trappola, di quello era
certo, ma non era certo che fosse solo il giorno dopo. Sarebbe stato
un po' improbabile.
Torse
il collo e guardò verso la piccola finestrella magica che
c'era
ormai in ogni stanza, da quando il rifugio era stato ricostruito:
filtrava la luce di quella che sembrava una tenue alba... ma di quale
giorno?
“Oggi
è il 30 di Giugno. È passata una
settimana” lo aggiornò Don,
teso nell'aspettarsi una sua qualche reazione.
Una
settimana. Era rimasto fuori gioco per una settimana. Aveva dormito o
era rimasto in stato di coma per una settimana intera. Certo, le sue
ferite non erano leggere, ma una settimana.... e com'era possibile
che stesse così bene dopo solo sette giorni, per di
più?
Passò
una mano distratta sulle bende che gli fasciavano il torace, ma
sentì
che era tutto a posto. Certo, se si muoveva di scatto sentiva delle
fitte a causa della rigidità degli arti e della postura di
riposo
forzata, ma si sentiva incredibilmente bene.
“Come...”
“Isabel
ti ha curato. Era per lei la medicina, al momento sta riprendendo le
forze nella sua vecchia camera” lo interruppe Don con voce
sottile,
come se non volesse dirglielo, ma non potesse fare altrimenti.
Raph
sollevò lo sguardo, col cuore pieno di rimorso, e si diede
dello
stupido. Certo, chi altro avrebbe potuto? E come aveva fatto a non
accorgersi del profumo di fiori e miele della sua crema magica che lo
avvolgeva, completamente?
Non
voleva sapere niente, non voleva che lui gli raccontasse di come si
fosse immolata per il suo bene, ma sapeva che non avrebbe potuto fare
altrimenti, sapeva che doveva ascoltare e sentirsi in colpa, volente
o nolente.
“Sta
bene?” chiese, sinceramente interessato, su quell'argomento.
Non
voleva che lei stesse male per causa sua, rendeva solo tutto
più
complesso e difficile, ed allontanarla da sé sembrava solo
ancora
più un'utopia.
“Se
con bene intendi che non morirà, sì, allora sta
bene. Ma ha
rischiato molto” commentò Don, dando senza saperlo
una mazzata al
suo senso di colpa.
“È
svenuta quattro volte solo per rimetterti a posto la gamba. Ci ha
messo due ore. E nelle seguenti due ore in cui ha ricomposto il tuo
corpo e ti ha dato la sua energia, ha perso i sensi altre tre volte,
ma se ti dicessi che per quel motivo ha smesso anche solo un secondo
di curarti, mentirei. Oh, e sai che adesso per curare gli altri
può
usare le mani? Sembrava molto fiera della cosa.”
Aveva
abbassato il capo e ascoltava, anche se non avrebbe voluto. Don non
poteva capire come lui si sentisse nell'apprendere quelle notizie,
come lo facesse sentire il pensiero di essere il motivo per cui
Isabel era quasi morta. Di nuovo.
Non
lo voleva sapere e avrebbe voluto che non fosse successo. Avrebbe
voluto non doverle niente, avrebbe voluto che non fosse nemmeno
lì,
avrebbe voluto che tra loro ci fosse stata distanza e silenzio, com'era
giusto che fosse.
Non
lo voleva il suo amore, lo soffocava, lo costringeva a sentirsi
riconoscente e il pensiero lo faceva sentire sporco e ingrato, ma
anche nel giusto. Non aveva chiesto di essere curato, non le aveva
chiesto mai niente.
“Poi,
nonostante fosse mezzo morta, è andata a curare il padre di
Steve,
perché voleva finire il ciclo di terapie, ha detto, e non
c'è stato
verso di smuoverla. Ha continuato a curare te e lui per i successivi
tre giorni e alla fine è crollata e dorme da allora” finì di spiegargli Don, mettendo
ancora di più il
dito nella piaga.
Rimase
il silenzio tra loro, così affollato di pensieri, da non
riuscire
nemmeno a percepirlo.
“Beh,
non gliel'ho chiesto! Ma... immagino di doverla ringraziare”
esalò
dopo qualche secondo, piuttosto forzatamente.
“E
dovresti chiederle scusa” aggiunse la voce del fratello,
asciutta.
Raph
lo guardò in viso e notò con orrore che la sua
espressione di
rimprovero era tornata ed era persino più accentuata di
prima.
“Scusa
per... cosa?” replicò attonito, guardandolo come
se fosse pazzo.
Non voleva di certo che si scusasse per averla lasciata, no?
“Per
tutte le cattiverie e le ingiurie che le hai rivolto contro quando
è
venuta a curarti.”
“L'ho...
l'ho insultata?” domandò, inorridito e anche un
po' titubante.
Non
ricordava niente del genere, non ricordava nemmeno di averla vista o
di averci parlato... ma addirittura insultata, non poteva crederlo.
“Beh,
diciamo che sei stato sgarbato. Ma no, non ti ripeterò cosa
le hai
detto. Fatelo dire quando chiedi scusa” concluse secco il
genio,
come se fosse un discorso chiuso.
Lo forzò a ritornare completamente sdraiato e non rispose quando gli chiese che ne era stato di Hun, dicendo che lo avrebbe informato in un altro momento, quando fosse stato un po' più in forze e un po' più tranquillo. Poi il genio scese in cucina a preparargli qualcosa da mangiare, disse, e gli raccomandò di riposare un po'.
Raph
attese che uscisse dalla stanza e poi di sentire il suono dei suoi
passi che si allontanavano; si alzò lentamente, quando fu
sicuro di
non poter essere sentito.
Mettersi
in piedi non fu doloroso, solo un po' difficile per via della
rigidità che sentiva in ogni cellula del corpo.
Camminò
lentamente fino alla porta e la aprì con cautela,
occhieggiando con
sospetto per vedere se qualcuno fosse al di fuori: il pianerottolo
circolare era deserto e si arrischiò ad uscire, dandosi
un'occhiata
attorno. La camera di fronte alla sua, dall'altra parte dell'anello
che faceva da corridoio per le camere, attirò la sua
attenzione, con
prepotenza.
No,
non ci sarebbe andato. Non voleva andarci. Ma doveva.
Camminò
raso muro, con pazienza e fatica, fino ad arrivare alla porta, la
seconda da sinistra, tra la camera di Leo e quella di Mikey.
La
camera dove aveva vissuto Isabel. Mikey continuava a chiamarla 'la
stanza di Isabel', anche se lei non viveva più con loro.
Cocciuto.
Doveva
bussare. Ma non voleva farlo. Eppure doveva. E vinse come sempre il
dovere.
“Avanti”
sentì dire alla voce dolce e familiare.
Entrò
e tutto ciò che vide in un primo momento furono due occhi
castani
che sparirono sotto un lenzuolo, e il ragazzetto, Steve, che lo
guardava con spavento dalla sedia vicino al letto, congelato con un
bicchiere in mano che tendeva verso la figura rannicchiata.
Avrebbe
quasi riso, perché la scena era davvero comica, seppur
grottesca. E
sapeva che solo lui poteva spezzarla in qualche modo.
“Mocc...
Steve” si corresse a metà strada,
“dovrei parlare con Isabel”
esalò con tutta la calma che gli riuscì, cercando
di non
spaventarlo più di quanto già non fosse.
Il
ragazzo assunse d'un tratto uno sguardo molto più lucido e
scaltro,
quasi guardingo.
Lo
stava sfidando?
“Solo...
solo se Isabel è d'accordo” gli rispose con
baldanza, più di
quanta ne avesse in effetti in quel minuscolo corpo.
“Sì,
non c'è problema, Steve” sentirono entrambi dire
da sotto il
lenzuolo, con sorpresa.
Il
giovane poggiò il bicchiere sul comodino e poi si
alzò con calma,
senza staccare lo sguardo fiero e diffidente dal suo, come se lo
stesse minacciando di non fare cose strane mentre non c'era. Rimase
sbalordito e sorpreso dalla cosa. Non che ne fosse davvero
intimorito, -era più o meno come se Isabel avesse un chiwawa
che gli
ringhiava contro,- ma perché il moccioso sembrava
così apertamente
ostile nei suoi confronti?
La
porta si richiuse alle sue spalle e il silenzio sembrò
ancora più
pesante di prima. Isabel non si mosse dal suo riparo improvvisato, ma
la sentiva respirare in agitazione dal di sotto.
Prima
avesse parlato, prima sarebbe finita.
“Sono
venuto a parlare con te. Per... quello che è successo dopo
lo
scontro... Don me l'ha raccontato” esalò con
forza, deciso a
sputare fuori tutto.
Vide
il lenzuolo muovere la testa a destra a sinistra.
“Non
ce n'è bisogno” disse in contemporanea Isabel,
frettolosamente, la
voce tesa che suonava più alta.
“Senti,
potresti almeno uscire da lì sotto? Sto cercando di
ringraziarti, se
non l'avessi capito” sbottò d'improvviso, con
parte della pazienza
che stava andando a farsi benedire.
Era
sempre stato così, con lei, mai una volta che riuscisse ad
essere
tutto lineare e facile, mai che gli venisse incontro.
“Non
posso” fu la pacata replica del lenzuolo, niente
più che un
sussurro.
Sospirò
e cercò di rimandare giù l'insulto che era
spuntato di colpo sulle
sue labbra. Agitarsi gli faceva male e Don lo avrebbe strozzato se
avesse saputo che non se n'era rimasto tranquillo a letto.
Perciò
si avvicinò alla sedia con cautela, si sedette e prese dei
grandi
respiri per calmarsi. Avrebbe provato a capire e a dire grazie e poi
se ne sarebbe andato via da lì e non le avrebbe rivolto
più la
parola per un altro mese, se era fortunato per sempre.
“Perché
non puoi uscire da lì sotto?” chiese con pazienza,
sperando che la
risposta avesse un qualche senso che lo aiutasse nella conversazione.
“Ti
ho promesso che non mi avresti più vista, se avessi
combattuto per
non morire” mormorò imbarazzata la vocina sotto il
tessuto,
confessando una cosa che non avrebbe mai avuto il coraggio di dire
senza la protezione di quel riparo.
Flashback
improvvisi passarono davanti ai suoi occhi, insieme al sonoro di
quello che sembrava essere lui in preda ad una crisi isterica: si
ricordò in un istante di quello che le aveva detto mentre
era tra le
grinfie del dolore e storse la bocca, solo mezzo colpevole.
D'altronde quelle cose le pensava sul serio, ma sentì che
non era
stato davvero carino sputargliele addosso con rabbia mentre lei
cercava di salvargli la vita. Poteva dare la colpa allo shock, la
perdita di sangue e il dolore?
Si
passò una mano in faccia, frustrato.
“Mi
dispiace di aver detto quelle cose. Non... sai che quelle cose le
penso, ma non avrei dovuto dirtele in quel modo, in quel momento...
mi dispiace, è stato insensibile da parte mia” si
scusò,
sinceramente, grato anche lui di non doverla guardare in viso.
Il
lenzuolo negò ancora, con più veemenza.
“Non
me la sono presa, lo so. E non c'è bisogno che ti scusi o
che
ringrazi. Va bene così... io l'ho fatto perché lo
volevo, tu non
hai nessun debito.”
Il
silenzio cadde di nuovo e Raph si chiese cos'altro avrebbe potuto
dirle. Non voleva i suoi grazie, non voleva le sue scuse. E c'era
sempre la tensione tra loro per via della rottura, davvero poco
delicata da parte sua, ma inevitabile; si accorse di colpo che era la
prima volta che parlavano da quella notte in cui l'aveva lasciata.
Allungò
la mano e afferrò il lenzuolo, tirandolo verso di
sé: la testa
bruna e scompigliata di Isabel spuntò fuori, con gli occhi
scuri
sorpresi e spaventati, le guance rosse che facevano un contrasto
nitido con la carnagione pallida e a pugni con le lievi occhiaie
viola.
Non
poté evitare di ammettere a sé stesso che era
adorabile. Ai suoi
occhi lei era sempre sembrata come una delicata fatina che appariva
all'improvviso e nella meraviglia.
“Isabel...
grazie. Grazie e scusa. Te lo devo, perché mi hai salvato la
vita. E
no, non cominciare con la storia che non è necessario.
Voglio farlo.
Perciò prenditi i miei ringraziamenti e le mie scuse e
taci”
replicò, in quello che lui reputava un discorso sentito.
Isabel
scoppiò a ridere e lui rimase meravigliato, dimentico
com'era del
suo strano senso dell'umorismo, che la faceva reagire in maniera
diversa da come le persone si aspettavano.
Ma
sembrava che l'imbarazzo ormai fosse scomparso, perciò fu
grato a
qualsiasi cosa avesse detto o al modo in cui l'aveva fatto.
“Adesso
vado o Don mi ucciderà” disse a disagio, mentre
gli ultimi sprazzi
di risata di lei si spegnevano.
Lei
annuì, semplicemente, perciò si alzò e
si avvicinò alla porta,
senza sapere che altro aggiungere.
“Ehm...
ciao” disse una volta superato l'uscio, ricevendo un saluto
identico in risposta.
Si
appoggiò alla porta una volta fuori, incredibilmente stanco.
Cos'era
affrontare un coccodrillo, a confronto? Avrebbe preferito altri dieci
coccodrilli piuttosto che ripetere una cosa del genere.
Vagliò
con la mente per ricordare cosa avesse detto, giusto per essere certo
che non ci fosse nulla di fraintendibile. L'ultima cosa che voleva
era che lei pensasse che ci aveva ripensato, che fosse ancora
interessato a lei. Sospirò, pensando che era stato gentile e
distaccato, senza nulla da travisare, perciò aveva fatto un
buon
lavoro.
Sentì
uno sguardo truce che lo passava da parte a parte e aprì gli
occhi
confuso, voltandoli intorno: Steve era ritto vicino alla porta della
camera e lo guardava con astio e diffidenza.
Era
rimasto per tutto il tempo lì fuori?
Il
giovane si incamminò verso la porta, manifestando la sua
intenzione
ad entrare, lanciandogli uno sguardo che sembrava dire: “Spostati,
mi intralci.”
“Stai
tornando da Isabel?” chiese Raph, senza spostarsi, deciso a
sfidarlo.
“Sì
e allora? Qualcosa in contrario?” replicò
prontamente Steve,
ergendosi in tutta la sua altezza, che però in confronto
alla sua
era davvero ridicola.
Raph
sorrise e gli passò una mano nei capelli biondi con fare
allegro.
“Ma
che carino. Ti sei preso una cotta per lei?” lo
punzecchiò, con
quel suo modo fastidioso che sapeva lo avrebbe mandato fuori dai
gangheri.
Steve
arrossì violentemente, allungando le mani per scacciare la
sua e
divincolarsi.
“No.
E se pure fosse non sono fatti che ti riguardano!” fu la
risposta
pronta e asciutta, da vero uomo maturo.
In
realtà era rimasto a controllare per conto di Leo. O meglio,
non che
l'amico sapesse che suo fratello era lì con lei, ma lui
voleva
comunque tenere tutto d'occhio, per essere sicuro che non succedesse
nulla. Tifava per Leo, lui. Se c'era uno che la meritava, e che lei
meritava, era di certo Leo e non quello lì.
Raph
sollevò un sopracciglio colpito, ma lui sapeva che lo stava
canzonando.
“No,
infatti. Ma le leggi e lo stato avrebbero qualcosa da ridire.
Perciò
stai attento.”
“Stalle
lontano, simpaticone!”
Steve
riuscì ad aprire la porta e ci si infilò dentro
velocemente, prima
che lui potesse anche solo pensare di replicare, sbattendogliela in
faccia.
Stupido
moccioso. Non poteva dire che non avesse buon gusto, ma che almeno ci
provasse con quelle della sua età.
Si
incamminò verso la sua stanza un po' frastornato e confuso,
ma con
un grosso sorriso al ricordo degli occhi azzurri di quello scricciolo
che lo sfidavano, mentre il corpo esile del ragazzino tremava.
Di
certo l'amore rendeva temerari, ma molto, molto stupidi.
Note:
Salve
a tutti!
Come
va? Alla fine per la storia del rating non ho avuto una risposta
secca e decisa, perciò ci sto pensando. È
comunque altamente
probabile che in futuro il rating si alzi. Vedremo.
Il
primo capitolo dall'ottica di Raph, finalmente. Era un po' che
l'aspettavo anche io, sono stata contenta di leggerla e correggerla.
Dunque,
questa scena la aspettavate da un po', ma di certo non è
andata come
ve l'eravate immaginata, no? Insomma, a Raph preme solo mettere le
cose in chiaro senza darle delle false speranze. Ovvio che la stessa
scena vista da lei abbia un sapore diverso, dato che è cotta
fino
alla pazzia.
Alla
fine, lui crede che Steve abbia una cotta per Isabel, travisando
ovviamente visto che non sa che Leo se n'è innamorato, e gli
dice di
stare attento, dato che essendo minorenne sarebbe una cosa illegale.
La cosa buffa è che tra Steve e Isabel c'è la
stessa differenza di
età che c'è tra Leo e Karai, almeno in questo
universo. In realtà
nella serie 2003 dovrebbero avere una differenza di più di
dieci
anni, stando a turtlepedia, ma io l'ho ridotta a sei. Quindi quando
si sono incontrati Leo aveva sedici anni e Karai ventidue. Sei anni
di differenza.
Steve
ne ha quindici e Isabel ventuno, giusto per ricordare.
Il
rifugio: è difficile orientarcisi, perciò allego
delle bozze del
prima di essere distrutto, giusto per farvi un'idea di come fosse, e
del dopo che Isabel l'ha rimesso a posto.
Quelle
del prima sono assolutamente affidabili ed esattamente così
com'è
il rifugio degli Y'Lyntian nella serie. Ho fatto milioni di ricerche
e scansionato gli episodi uno ad uno, certificato.
Se
vi dovesse servire, usatelo pure.
Allora,
nel primo ci sono meno stanze, il laboratorio di Don per esempio
è
nel corridoio sotto l'arcata del portico vicino all'officina. La
cucina è minuscola e al bagno si arriva attraverso di essa:
nel
fondo della cucina c'è un'altra porta, che non so davvero
dove
porti; ho immaginato ci sia una dispensa, ma non è strano
che possa
esserci anche una stanza da pranzo. Non viene mai mostrata,
perciò
non so proprio.
Le
stanze da letto al primo piano: che problema! A volte ne vengono
mostrate troppe e tutte attaccate, ma in realtà dovrebbero
essercene
solo quattro, perché quando April era andata a vivere da
loro, Mikey
aveva dovuto cederle la sua e andare a dormire da Raph.
Perciò sono
solo quattro.
Turtlepedia
mi dice che Don e Leo dividevano la camera, ma non ne sono sicura. Io
li ho messi in due separate.
Nel
dopo, dopo che Isabel l'ha ricostruito, mi sono divertita a rifare
tutto a mio gusto, mettendo molte stanze in più. I disegni
come
vedete fanno davvero pena.
Ok, la smetto con le mie solite spiegazioni inutili e chilometriche!
Grazie
a tutti voi, grazie a chi recensisce con tanto affetto, ai seguiti e
preferiti nuovi!
Grazie!
A
presto