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Autore: Clockwise    03/09/2014    1 recensioni
«Sicura di non aver ucciso il gatto di nessuno, rubato qualche fidanzato, avvelenato qualcuno, fatto ritratti offensivi, non so… Sei piuttosto pericolosa quando ti ci metti.»
Mel finse di pensarci su.
«No, non negli ultimi tempi.»
«Beh, dovremmo cominciare a indagare sulle tue passate e presenti relazioni, allora, e cercare di scoprire chi è che hai mortalmente offeso.»
«Suona bene, Sherlock. Ci vediamo domattina a Baker Street?»
«Ah, no, domani mattina devo fare un salto al Bart’s, poi ho merenda con Moriarty, ma potrei essere libero per le tre.»
Genere: Commedia, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Benedict Cumberbatch, Martin Freeman, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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'Sera gente!
Non è stato facile tirare fuori questo capitolo, l'avrò riscritto venti volte. Spero che il risultato sia buono e non vi deluda, ma ho un po' paura di stare commettendo un errore madornale. Vi prego, fatemi sapere che ne pensate.
Detto questo, un grazie stra-mega-gigante alle meravigliose persone che leggono/seguono/preferiscono/ricordano/ recensiscono: davvero, grazie infinite.
Vi lascio al capitolo, 
a presto!
-Clock
Ps: lo so il titolo è demenziale, ma non mi veniva in mente altro. Se riesco, lo cambio.



 
Capitolo 10
Bilbo Baggins e i biscotti bruciacchiati
 
 
 
Sabato 20 aprile.
Martin chiuse gli occhi e si prese la radice del naso fra indice e pollice.
«Ben, dimmi che non l’hai detto davvero.»
«Ma è così!» insisté Benedict, dall’altra parte del telefono. «è come se me lo vedessi davanti agli occhi: Moriarty parla con Moran, e le fotografie, e I.O.U., e il cuore che brucerà nell’inferno e… Moriarty ha rubato i quadri per vendicarsi di me, perché non ci credi, è così ovvio! E ora farà saltare in aria tutto e io vedrò Mel bruciare perché lui vuole bruciarmi il cuore, e dobbiamo fare qualcosa e…»
«Ben, quanto hai bevuto?»
«Io non ho bevuto
«Ben
«Va bene» sbuffò. Silenzio mentre si sforzava di contare. «Ok, forse un paio di birre più del solito, ma non sono ubriaco
«Oh, certo. Infatti non mi hai appena raccontato di come Moriarty stia congetturando insieme a Lord Moran contro di te.»
«Ma è vero! Me l’ha detto Andrew.»
Martin sospirò.
«Ti rendi conto che Andrew interpreta e basta Moriarty e che ti stava probabilmente prendendo in giro?»
Ben aggrottò le sopracciglia.
«Perché dovrebbe? Lui è un amico, non mi prende in giro…» farfugliò, e Martin pensò che sembrava tanto Grace, in quel momento.
«Dove sei?»
«A casa.»
Martin sospirò, andando a prendere la giacca.
«Non muoverti, arrivo.»
«Yuppie!»
 
°°°
 
Birra, vino, gin e Jack Daniels. Gli ABBA a tutto volume. E un Benedict stravaccato sulla poltrona a testa in giù con i piedi sullo schienale che declamava Amleto.
«E io che pensavo di averle viste tutte.»
Ben lo guardò confuso dalla poltrona.
«Bilbo Baggins» disse piano, socchiudendo gli occhi e ruotando la testa, come se faticasse a riconoscerlo.
«Bilbo!» esclamò poi, spalancando gli occhi e le braccia, rischiando di cadere e fracassarsi la testa sul pavimento.
«Ciao, Ben.»
«Andiamo a ballare.»
«Ballare?»
«Sì! Lo sai perché?»
«Non so se voglio saperlo…» gemette Martin, prendendolo per le braccia e tirandolo su.
«Per trovare la nostra Dancing Queen! Tutti ne abbiamo bisogno! Young and sweet, only seventeen» esclamò, gli occhi spalancati. Martin scosse la testa e lo rimise in piedi senza tanti complimenti. Benedict sbatté le palpebre mentre il sangue defluiva dal cervello, poi accennò qualche passo di danza cantando Waterloo insieme agli ABBA.
«One night, Napoleon did surrender…»
Completamente stonato e fuori tempo.
«Oh, Gesù.»
«Vieni Bilbo!»
Martin chiuse gli occhi, cercando la pazienza dentro di sé. «Ok, ora piantala e vieni di là a bere un po’ d’acqua, poi fatti una doccia e fila a letto.»
«L’acqua è noiosa! Prendiamoci del sidro, come dei veri nani!» propose, come se fosse una brillante idea, mentre iniziava a piroettare, inciampava nei suoi stessi piedi e finiva tempestivamente fra le braccia di Martin.
«Gesù, Ben, questa è l’ultima volta che…»
«Ooh, Bilbo, ma che bel nasino da folletto che hai…»
«Fila in cucina» comandò Martin, cercando di ignorarlo mentre gli faceva il solletico sotto il mento ridacchiando in maniera ridicola. Lo trascinò in cucina e gli mise un bicchiere d’acqua fra le mani. Lo osservò bere avidamente e schioccare le labbra soddisfatto, guardandolo con aria vacua. Poi sembrò riacquistare un minimo di lucidità perché sbatté le palpebre e aggrottò le sopracciglia.
«Martin? Che ci fai qui?»
«Sostituisco Bilbo come babysitter» affermò Martin, impassibile. Ben lo osservò perplesso. Poi decise che quello era un buon momento per vomitare e corse in bagno.
 
 
Finì di sistemare le bottiglie mentre Benedict ritornava dal bagno pallido e sudato. Crollò sulla poltrona tenendosi la testa fra le mani.
«Ora puoi spiegarmi cos’è successo?» chiese Martin sedendosi sul divano proteso in avanti, i gomiti sulle ginocchia, preoccupato. Benedict grugnì e si tirò su, appoggiando la testa indietro sullo schienale e chiudendo gli occhi.
«Ero uscito con Andrew per una pinta e gli ho parlato di Mel e lui ha detto quella cosa su Moriarty, poi… Sono tornato a casa e forse ho sognato, ma non ricordo di essermi addormentato, ricordo solo Moriarty parlare al telefono e poi… Devo aver cominciato a bere e ripensando ad Andrew e al sogno ti ho chiamato e… Dio, quanto ho bevuto.» Si coprì gli occhi con una mano, gemendo.
«Ma perché hai bevuto? Non ti era bastata la pinta con Andrew?» domandò Martin, guardando il relitto che era diventato quell’uomo solitamente composto ed elegante.
«Perché sono un idiota.»
Gli raccontò a fatica di quello che era successo negli ultimi giorni, dell’incontro con Bruce Gallagher, di come non vedesse Mel da una settimana e non la sentisse quasi più.
«Ecco perché eri così depresso sul set. Scusa, non potevi parlarmene prima?» sospirò Martin, provando un moto d’affetto per quell’idiota pallido come un cencio gettato sulla poltrona davanti  a lui.
Il cencio non rispose, si limitò a grugnire e cambiare posizione, abbassando la testa. Socchiuse un occhio per guardare Martin.
«Devo parlare con Mel, vero?»
Martin allargò le braccia e sollevò le sopracciglia.
«Però. Ti è servita una sbronza per capirlo, ma ci sei arrivato finalmente.»
Ben aprì anche l’altro occhio, notando una leggera irritazione nel tono dell’amico.
«Pensi ancora che devo starle lontano, vero?»
«Cosa? Io? Dopo quello che mi hai raccontato? Perché mai?» fece Martin, sarcastico. Ben chiuse gli occhi e sospirò.
«Martin…»
«Questo non rafforza assolutamente l’ipotesi che lei voglia sfruttarti, affatto, anzi, è una coraggiosa prova di fiducia…» continuò, sullo stesso tono.
«Martin, ti prego.»
Martin sbuffò, incrociando le braccia e puntandogli un dito contro.
«Va bene, per stasera basta. Ma non credere di poter continuare così. Devi parlarle una volta per tutte. Questa è l’ultima volta che ti vengo a raccattare dopo che hai annegato i tuoi dispiaceri amorosi nell’alcol.»
Ben grugnì il suo assenso, chiudendo di nuovo gli occhi.
«Hai ragione. La prossima volta sarà sidro.»
 
°°°
 
Domenica 21 aprile.
Infilò con attenzione la teglia nel forno e chiuse lo sportello, controllando l’orologio.
Era la terza teglia di biscotti che preparava in due giorni. Apparentemente, fare biscotti, ora che aveva imparato, la calmava.
No, forse non così tanto, visto che aveva fatto almeno cento biscotti senza sapere che farsene e continuava a infornare.
Stava fissando torva lo sportello del forno, quando il campanello squillò, facendola sobbalzare. Si pulì le mani su uno straccio e corse nell’atrio, trovando Matisse accoccolato fra i pennelli – aveva imparato a non starle intorno quando fiutava un umore tempestoso come quello degli ultimi giorni.
«Ben!»
Lui sorrise mestamente.
«Ciao. Come stai?»
Alzò le spalle, senza tentare di nascondere la sua irritazione.
«Al solito. Vieni, entra.»
Si fece indietro per lasciarlo entrare.
«Ho portato dei pasticcini. Macaroons, non so se ti piacciono.»
«Oh, grazie, non c’era bisogno. Vuoi del tè? Sembra in grado di riappacificare nazioni, ed ho imparato a farlo, finalmente…»
«Sì, certo. Grazie.»
«Niente.»
Lo precedette fino al soggiorno senza guardarlo negli occhi e si diresse in cucina, dedicandosi al tè, mentre Benedict si sedeva sul divano e apriva la scatola di macaroons. Matisse venne a salutarlo e lui lo lasciò a strusciarsi sulle sue caviglie.
«Ho solo dell’Earl Gray.»
«Ok, va benissimo.»
«Bene.»
Il silenzio ormai stava diventando insopportabile, oltre il rumore del forno e il concerto che stava producendo Mel sbattendo qualsiasi stoviglia trovasse più rumorosamente possibile. Sapeva di starsi comportando come una bambina, ma non le importava. Era troppo arrabbiata.
«Mi dispiace se sono saltato fuori così senza nemmeno chiamarti, ma…» trasse un respiro. «Io volevo… parlare.»
«Mh, però» fece lei, fingendosi sorpresa, senza voltarsi. «E perché quest’improvviso bisogno dopo tanti giorni, se è lecito chiedere?»
Ben strinse i denti.
«Mel…»
«Cosa c’è che non va, Ben? Perché tutt’a un tratto non mi parli? Perché mi hai mentito? Perché non mi hai mai detto che dipingevi?» strinse i pugni, fissando la teiera. «O non mi hai parlato di Olivia, o di come hai conosciuto Ruth, di quello che le hai fatto, di che stronzo sei stato, perché, perché non mi hai mai portato a casa tua, perché non mi hai fatto conoscere i tuoi amici, perché non mi hai presentato tua madre ma l’hai mandata in incognito, perché?» si voltò, finalmente.
«Cos’è, diventi un altro quando sei con me, fai finta? Perché…?»
Tacque e aprì e richiuse la bocca più volte, cercando le parole, tremante, aggrappandosi al bancone. Ben socchiuse gli occhi e si alzò in piedi. A Mel non era mai sembrato così minaccioso.
«Sono io quello che non è stato sincero? Sono io che ho incontrato il mio ex-ragazzo di nascosto e che non ho detto nulla al mio presunto ragazzo attuale riguardo al mio passato, i miei problemi con la droga, il perché non parlo con la mia famiglia?» La voce di Benedict era bassa e controllata, vibrante di risentimento.
Mel sbiancò e deglutì. Ben allargò le braccia.
«Chi ha più colpe, allora, qui dentro? Chi è che non si è fidato?»
Mel chiuse gli occhi.
«Come l’hai saputo?» sussurrò. A Ben tremò il cuore nel vederla così a pezzi, ma si impose di resistere.
«Amanda, la moglie di Martin, ha una nipote che andava alle superiori nella tua scuola e aveva sentito parlare di te. E lunedì ho incontrato Bruce Gallagher in un pub. Mezzo ubriaco, mi ha offerto da bere e mi ha raccontato la sua storia. E la tua storia.»
Mel fissava un punto nel vuoto davanti a sé, gli occhi lucidi, le mascelle serrate. Ben strinse i pugni.
«“Il tipo dei quartieri alti” che esce con lei non sapeva niente di questa storia, se l’è dovuta far raccontare in un pub da Bruce Gallagher di Liverpool, perché la sua ragazza non si fida abbastanza di lui.»
Mel alzò gli occhi. Il bollitore scelse quel momento per fischiare e Mel spense il fuoco, voltando per un attimo le spalle a Ben.
«Non è una questione di fiducia…»
«Certo che lo è, cos’altro potrebbe essere?»
«Tu non avresti capito… E non ti saresti mai avvicinato a me se avessi saputo» disse Mel, a voce bassa, in contrasto con quella di Benedict, sempre più alta mentre si colorava della rabbia e della delusione repressa di quei giorni.
«Io non mi sarei avvicinato a te? Ma come ti viene in mente? È questo che pensi di me, che sia uno snob dei quartieri alti che non si avvicina ad una ragazza perché questa ha avuto problemi di droga? È questo che pensi?»
Si voltò di nuovo.
«Tu non…»
«E io che dovrei pensare? Adesso che so tutto questo, cosa dovrei pensare? Se non è una questione di fiducia, se la tua paura era che potessi allontanarmi, allora non provi neanche affetto per me. Quindi cos’è che vuoi, la tua fetta di fama?»
Mel spalancò gli occhi.
«Stai davvero pensando che io possa approfittarmi di te?»
«Due più due fa quattro! Io sono un attore abbastanza famoso, tu hai dieci anni meno di me, sei giovane e affascinante, mi nascondi parte del tuo passato perché non vuoi che io mi allontani da te…»
Gli occhi di Mel esprimevano tutta la delusione e la rabbia che le sue labbra tacevano.
«Questo è quello che pensi di me? Sono colpita.»
Benedict si strinse nella spalle, sulla difensiva.
«Perché non mi avresti raccontato nulla allora? Se… se tu avessi provato un affetto genuino, ti saresti fidata, mi avresti parlato, e invece…»
«Credi forse che sia facile? Che sia una storia come un’altra, da raccontare tranquillamente davanti a un tè? Che sia qualcosa da raccontare al primo che capita?» esplose lei, avanzando verso di lui. Matisse li guardava dal suo cantuccio, ipnotizzato.
«Io mi vergogno di quella storia, Ben. Mi vergogno di quello che ho fatto. L’unica cosa che voglio è dimenticarlo, cercare di non pensarci per non rovinarmi la vita, perché ormai è passato e non posso più farci nulla, ma… Non te ne ho parlato perché avevo paura di quello che avresti potuto pensare. Già mi sembrava assurdo che il bello e famoso Benedict Cumberbatch perdesse tempo con una ragazzina che gioca a fare la pittrice, se avesse saputo che la ragazzina aveva avuto un passato da drogata ci avrebbe messo una croce sopra e tanti saluti. E io non volevo perderti. Ma tu… Forse non mi fidavo perché non sapevo… Insomma, che relazione avessimo, noi…»
Tacque, il petto che si alzava e si abbassava mentre cercava con tutte le sue forze di respirare e non piangere.
Benedict abbassò il capo, sentendosi poco meno che un verme.
«Mi dispiace» mormorò, la voce roca. «Avrei dovuto capire. Non avrei dovuto attaccarti così, perdonami.»
Mel annuì, la gola dolorante, gli occhi bassi. Ben, vedendo come cercava di impedirsi in tutti i modi di piangere, fece un passo avanti, sentendosi un essere orribile per averla ridotta così. Senza preavviso, le lacrime zampillarono incontrollate dagli occhi di lei, che gemette, sconfitta. Lui si avvicinò ancora e fece per abbracciarla, ma lei gli voltò le spalle e si asciugò rabbiosamente gli occhi con la manica. Benedict cercò di non sentirsi troppo ferito.
«Mi dispiace, davvero, io…»
«Non importa» mormorò, la voce rauca.
«Mel ti prego… Sopportami ancora un po’, prendiamoci un tè. Dobbiamo capire.»
Mel annuì, prendendo due tazze.
 
 
«Perché non me ne hai mai parlato, Mel?» domandò, dolcemente, guardandola con occhi feriti.
«Perché non sapevo cosa avessimo, Ben. Io… Non mi sentivo abbastanza sicura per parlarti, perché… forse non ti conosco abbastanza, non lo so. Forse abbiamo corso troppo.»
Il tè le riscaldava le mani, ma non lo beveva: era troppo concentrata a guardare il fumo danzare dal liquido bollente.
«Forse. Ma non mi pento. Voglio dire, sono onorato di averti conosciuta, Mel, e di... tutto quanto.»
«Sì. Anch’io. Ma forse dobbiamo… Abbiamo troppe cose in sospeso, forse non…»
«No.»
La guardò, gli occhi duri come gemme grezze. «Non ti lascerò, se è questo che intendi.»
«Ben, ma forse…»
Scostò gli occhi, cercò di sfuggire, come il fumo che le sue dita racchiudevano, ma Ben la inseguì e la incatenò ai suoi occhi, di nuovo.
«No. Ci proveremo finché non funzionerà. Ci vorrà tempo e pazienza, ma io voglio poterti chiamare la mia ragazza, guardare stupidi film sul divano con te, portarti a pranzo dai miei, dormire con te» abbassò la voce.
«Voglio amarti, Mel, e innamorarmi di te.»
Quelle gemme scavavano dentro di lei inesorabili, intrappolando il fumo inerme.
«Per favore. Perdonami e promettimi che ci proveremo, e…»
«Non posso, io…»
«Ti prego. Pensaci, almeno. Pensaci, e poi… vedremo. Che ne dici?»
Spostò di nuovo lo sguardo, che le cadde sul forno e corse poi all’orologio.
Imprecando, si affrettò ad aprire il forno e a tirare fuori la teglia e i biscotti mezzi abbrustoliti. Si accorse della domanda che stava per spuntare dalle labbra di Benedict, ma lo fulminò con un’occhiata e lui richiuse la bocca. Prese un sacchetto di stoffa e ci cacciò dentro i biscotti fumanti.
«Io…»
Tornò da lui e gli cacciò il sacchetto in mano, piantando gli occhi nei suoi.
«Con gli omaggi della casa.»
Se te ne vai adesso, torni a casa tutto intero.
Abbassò il capo e annuì, prendendo i biscotti. Si alzò silenziosamente, afferrò il cappotto e si avviò alla porta. La voce di Mel lo fermò mentre allungava la mano verso la maniglia.
«Forse, la prossima volta, se ti comporti bene, puoi venire a mangiarti dei biscotti fatti come si deve. Potrei perfino chiederti il tuo gusto preferito e cucinarli di conseguenza.»
Lui chiuse gli occhi e sorrise, sollevato. Voltò appena la testa a guardarla, a braccia conserte sulla soglia del soggiorno.
«Alla vaniglia, ricoperti di cioccolato fondente.»
 
°°°
 
Venerdì 26 aprile.
Finì di caricare l’ultima tela e osservò Benedict chiudere cauto il bagagliaio, attento a non danneggiare nulla. Si voltò verso di lei, soddisfatto.
«Fatto. Andiamo?»
Mel annuì, stropicciandosi le mani.
«Grazie per l’aiuto, Ben, so che per te dev’essere una scocciatura, avrei potuto affittare qualcosa, ma davvero…»
«Ehi, non dirlo neanche per scherzo» sorrise dolcemente lui, cercando i suoi occhi. «Ti aiuto più che volentieri, ed è più sicuro portarli noi stessi, almeno li controlliamo.»
Mel annuì e gli sorrise brevemente.
«Andiamo allora.»
Salì sul posto del passeggero. Abbassò il finestrino e si sporse fuori.
«L’ingresso secondario della Galleria, mi raccomando» disse.
Benedict si portò una mano alla fronte in una specie di saluto militare, sorridendo.
«Roger. Ci vediamo lì.» Fece per andarsene, ma esclamò un “Ah!” e si voltò di nuovo verso di lei.
«A che ora è domani?»
«La mostra? Alle sei» rispose Mel. Benedict sollevò i pollici e salì nella sua macchina mentre Ruth saliva accanto a lei e metteva in moto. Le lanciò un’occhiata.
«Avete risolto?» domandò piano.
«Ci stiamo provando. Serve un po’ di tempo» rispose Mel, appoggiando indietro la testa. In realtà si trovavano in una situazione di stallo, nessuno aveva il coraggio di inquisire, scavare nel profondo, richiamare i fantasmi del passato; Mel non aveva ancora risposta a nessuna delle sue domande, ma non riusciva a trovare il coraggio di riformularle e Benedict sembrava essersene del tutto dimenticato.
Ruth annuì, stringendo le dita attorno al volante.
«Solo… Stai attenta, Mel.»
Mel annuì, lo sguardo fisso sulla strada davanti a loro.
 
°°°
 
Sabato 27 aprile, ore 17.02. Giorno della mostra.
«Pronto, signore?»
L’uomo esitò.
«Possiamo sempre evitare, non so se tutto questo sia necessario…»
La figura davanti a lui si irrigidì.
«Le ho chiesto se è pronto, non se ci ha ripensato» disse, la voce bassa e minacciosa. L’uomo deglutì e annuì, dirigendosi a testa bassa verso la porta.
L’altra persona seguì l’uomo con un sorriso.
«Che i giochi abbiano inizio» mormorò e chiuse la porta dietro di sé.
 






 
 
  
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