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Autore: Nero Wolfice    05/09/2014    1 recensioni
Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra.
Genere: Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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La mattina del primo Novembre 1943 il paese di Vicovaro  fu svegliato dal rumore dei mitra e dallo scoppio delle bombe a mano. 
I Tedeschi  effettuarono un accurato rastrellamento. Destinazione: I campi di concentramento. 
Ovunque la gente invocava aiuto e, nella cacofonia generale, una parola urlata a squarciagola sovrastava le grida terrorizzate  del popolo. Una parola che per molti era una condanna a morte.

Tedeschi.

I giovani cercarono di fuggire dal paese per trovare rifugio nei boschi e nelle campagne circostanti. 
Per molti, me compreso, la fuga poteva rappresentare l'unica possibilità. 
Scesi le scale di casa e cominciai a correre. Non avevo idea di dove stessi andando ma non mi importava. In quel momento l’unica cosa essenziale era la velocità con cui si muovevano le mie gambe, il resto era superfluo. 
Corsi a perdifiato, con tutta la forza che possiede un ragazzo di quindici anni, senza pensare, senza vedere.
Il terrore si era impossessato di me al punto da rendermi cieco. Quando arrivai nella località chiamata ‘la Romenta Roscia’, mi fermai per riprendere fiato, ma notai immediatamente una pattuglia sull’altro lato della strada proprio nel momento in cui i soldati si accorsero di me. 
Senza esitazione ripresi la mia folle marcia verso la salvezza. A quel punto deviai prendendo un altro viale e i soldati mi seguirono.

Prima udii gli spari, poi il dolore alla mano sinistra, un dolore intenso, forte, che mi fece venire i brividi. Non potevo riposare, non potevo arrestare la corsa. Se mi fossi concesso una pausa, avrebbero guadagnato terreno, così avanzai. Le mitragliatrici emettevano proiettili senza sosta, ed uno colpì il bersaglio. Sentii un dolore lancinante al fianco. Stavo per accasciarmi a terra, quando scorsi una piccola collina in lontananza e, ancora non so come, riuscii a  raggiungerla. Crollai, esausto, stremato, impaurito ma felice, perché ero riuscito a seminarli. Sorrisi e mi rialzai. Quell’espressione di gioia durò poco, dato che si stava avvicinando un’altra pattuglia. Come si avvicinarono sentii un soldato urlare.
"Tu no correre, se tu corri loro sparano, alza mani" Alzai le mani obbedendo  al comando. Il terrore era così viscerale che non mi ero reso conto di non essere stato l'unico ad aver cercato la salvezza su quella collina. 
Insieme a me  c’erano altri giovani.
Non dissero una parola, furono i loro occhi a parlare, occhi che mi guardavano pieni di tristezza e compassione, occhi terrorizzati esattamente come i miei. Ci costrinsero a camminare tutto il giorno, e ogni ora il numero dei giovani catturati aumentava. Alla fine, il sole tramontò e arrivammo a Ponte Lucano. La maggior parte dei militari si addormentò, lasciando sei sentinelle a sorvegliare la zona. Mi sdraiai e attesi pazientemente.

Coloro che ci tenevano d’occhio iniziarono ad assopirsi, dopo qualche minuto la stanchezza prese il sopravvento. Scavalcai lentamente i loro corpi e mi incamminai verso casa, inizialmente adagio, successivamente con una fretta eccessiva. Quando tornai, il paese era silenzioso e le stelle splendevano nel firmamento. Aprii il portone del condominio e bussai delicatamente per non svegliare il vicinato. Subito la porta si spalancò e davanti a me si presentò una donna in vestaglia, con la tensione dipinta sul volto. Mia madre, non sapendo se ridere o piangere, con le lacrime agli occhi,  esclamò: "Figlio mio!"
 
   
 
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