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Autore: Rosalie97    05/09/2014    4 recensioni
[IN REVISIONE]
Sono passati quattro anni da quando è scoppiato il caos, da quando il destino della razza umana ha subito una drastica svolta. Niente è più lo stesso, soprattutto negli Stati Uniti e nel Canada, regnati dal Governatore, una creatura spietata e priva di compassione.
Dakota conosce bene quell'uomo, e prova immenso disgusto verso di lui. Vuole vendicarsi per ciò che le ha fatto, per ciò che la ha costretta a passare.
Nel suo cuore non alberga altro che odio, ed è decisa ad ucciderlo. Ma cosa succederà, quando finalmente le si presenterà l'occasione di eliminarlo?
Cosa farà quando verrà a scoprire il più oscuro segreto del suo nemico? Riuscirà finalmente ad attuare la sua vendetta o il destino le giocherà un brutto scherzo e la farà sprofondare nel buio vortice dell'amore?
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Questo è il sequel di The Bad Boy, e narra le vicende che accadono ai superstiti di Total Drama quattro anni dopo l'arrivo del ciclone. (Non è necessario leggere il prequel, ma lo consiglio per capire meglio gli avvenimenti).
Genere: Guerra, Romantico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Chris McLean, Dakota, Jasmine, Max, Scarlett | Coppie: Alejandro/Heather
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
Capitoli:
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3. Memories

 




Fuori stava nevicando. I fiocchi di neve, soffici e leggeri, scendevano senza un singolo rumore fino al terreno, dove si posavano con grazia assoluta. Lei era affacciata alla finestra aperta, mentre ascoltava il suono del completo silenzio. A volte poteva stare lì ferma per ore a contemplare quel paesaggio e con le orecchie tese a tentare di udire qualche suono lontano, mentre tutti nella grande casa, che sembrava più che altro un palazzo, svolgevano i propri compiti o vivevano la propria vita.
Trovava qualcosa di magico nella purezza della neve, l’attirava. Forse per quella stessa purezza che lei non possedeva, che probabilmente mai nel corso della sua vita aveva o avrebbe posseduto.
Alzò lentamente gli occhi verso il cielo, incolore e pieno di nuvole inconsistenti che si formavano e si disfacevano come nebbia impalpabile. Viveva lì da tre anni ormai, insieme alla sua famiglia, o quello che ne restava, e a quella di Alejandro. Il padre e la cugina di Heather erano morti, divorati, si erano sacrificati per permettere alla madre, la sorella ed il fratello di lei di salvarsi.
Ed ora, erano tutti lì, con donne e uomini di servizio ai loro ordini, soldi a palate e un bambino. Heather ricordava quando erano giunti a casa di Alejandro, e ricordava tutto il tempo che aveva passato insieme ai due fratelli, mentre cercava la sua famiglia e poi una casa in cui vivere.
Alzò nuovamente gli occhi al cielo, tristemente. Dov’era ora José? Se ne era andato da molto tempo, in cerca di avventure in quel mondo estraneo non appena erano state costruite le mura ed era nata la milizia del Governatore. << Forse mi arruolerò >> aveva detto, << o magari troverò una persona speciale con cui passare la mia vita e tornerò qui da voi >> si era allontanato con un sorriso, e li aveva salutati da lontano con la mano. Tra lui e Alejandro era nata una tregua, avevano imparato a legare pian piano, combattendo uno di fianco all’altro per proteggere le persone che amavano. Ma ora José era andato chissà dove, ed il giorno in cui l’avevano visto per l’ultima volta era passato ormai da ben due anni.
“Dove sei, José?” Sussurrò Heather nella propria mente. “Stai bene?” Lei ed il fratello dell’uomo che amava avevano legato tantissimo, era diventato il suo migliore amico, e non passava giorno in cui non si chiedesse che fine avesse fatto o se stesse bene. Sperava fosse così.
<< Tesoro >> disse la voce di Alejandro, e lei si voltò verso a guardarlo. Se ne stava sulla porta, con uno sguardo preoccupato. << Sei ancora qui a fissare la neve? >>
A Toronto il clima era o l’uno o il completo opposto. La maggior parte delle volte nevicava costantemente, e l’aria era molto fredda, ma in poche rare occasioni, che cadevano due o tre volte ogni due mesi, tutto diventava desertico e l’aria si scaldava diventando tiepida.
<< Sì >> rispose con un leggero sorriso. << Stavo pensando. >>
<< A…? >> Chiese lui avvicinandosi a lei.
Heather sospirò, riportando gli occhi alla finestra e puntandoli sul cielo incolore. << A José >> ammise.
<< Sai, per un uomo non è il massimo sentire che la donna che ama pensa a suo fratello >> disse lui circondandola con le braccia forti e sorridendo lievemente. << Ci penso spesso anche io, mi chiedo dove sia quell’idiota di mio fratello >> rise, ed Heather buttò il capo all’indietro poggiandolo contro la spalla di Alejandro.
<< Spesso mi viene da pensare di andare a cercarlo. Di preparare l’occorrente, portarti con me trascinandoti per le orecchie, andare giù in città a cercare Luana e partire tutti assieme. >>
<< E a Martin non ci pensi? Lo lasci da solo senza sua moglie? >>
<< Ah, ma chi se ne frega di Martin >> scoppiò a ridere lei. << Ti ricordi >> disse poi con un sorriso, << quando ci provava spudoratamente con lei? >>
<< Sì, come dimenticarlo >> Alejandro scoppiò a ridere, non riuscendo a trattenersi. Quei tempi erano stati belli, non c’era ancora la milizia, non c’era il Governatore, e sì, c’erano stati gli scheletri, ma almeno erano tutti assieme. Poi, improvvisamente, avevano dovuto separarsi. Avevano trovato un bar ed un computer che magicamente aveva ancora la connessione alla rete internet, e Luana connettendosi aveva scoperto di aver ricevuto una email dai suoi genitori. Si trovavano in una cittadina a qualche chilometro da Toronto. L’africana si era dovuta vedere costretta ad andare a prenderli, e Martin l’aveva seguita, lasciando soli Heather ed Alejandro. Fortunatamente però, non molto tempo dopo che l’asiatica ed il latino-americano si erano sistemati in quella casa a Toronto, i due ragazzi erano tornati con i genitori di lei ed avevano occupato un’abitazione giù in città.
A Toronto erano indipendenti, Heather non aveva bisogno di lavorare, così come Alejandro, mentre Luana era la farmacista di fiducia di tutti. Conosceva una soluzione per qualsiasi problema legato al campo delle malattie o di qualsiasi tipo di ferite. Sembrava di essere tornati indietro nel tempo, e poiché la città era stata proclamata come uno dei punti fuori dalla giurisdizione di ogni governatore dall’Ordine Mondiale, nessuno poteva pensare di toccarla.
<< Non ti sembra di vivere nell’Ottocento? Certo, senza quei vestiti insulsi e tutte quelle buone maniere >> disse Heather facendo un verso di disgusto ed imitando un conato di vomito, ed Alejandro scoppiò a ridere.
<< Sì. E mi trovo d’accordo con te. Anche io mi chiedo dove sia quell’idiota scansafatiche di mio fratello, e vorrei andare a cercarlo, ma… >>
L’asiatica lo interruppe: << Ma? >>
<< Lo sai >> disse lui scoccandole un’occhiata severa.
<< Già, il bambino. >>

<< Non possiamo abbandonarlo. Siamo i genitori di Josh, non possiamo lasciarlo ai nostri familiari per andare alla ricerca di mio fratello. Potrebbe essere ovunque, potrebbe aver raggiunto anche un altro Stato, per quel che ne sappiamo, e per noi sarebbe impossibile raggiungerlo. >>
<< Hai ragione >> ammise Heather riluttante.
<< È ovvio che ho ragione, io ho sempre ragione, sono intelligentissimo! >> disse lui alzando le spalle come fosse una cosa scontata, e lei scoppiò a ridere.
<< Certo, Burromuerto dei miei stivali >> replicò per poi voltarsi, poggiare le braccia sulle spalle di lui e baciarlo con passione.
 
 
Max alzò piano lo sguardo dal grande macchinario pieno di pulsanti di ogni colore posto direttamente davanti a lui. Se ne stava in silenzio, circondato solo dal buio rischiarato dalle fioche luci a led color blu elettrico. Era solo, in quella stanza, seduto sopra uno sgabello, piegato su se stesso a riccio, come se volesse implodere e scomparire dall’interno. Che razza di esistenza aveva accettato di vivere?
Seduto su quello sgabello, chiuso nel più grande tra i suoi laboratori, Max se ne stava ad ammirare la propria creazione, quella per la quale aveva speso due interi mesi della propria vita chiuso in quel luogo. Quando non se ne stava insieme agli altri scienziati ed ingegneri, suoi diretti sottoposti, a lavorare, rimaneva chiuso nella sua stanza, a fissare il soffitto. Solitamente non riusciva mai a chiudere occhio, raramente gli capitava di dormire, perché la sua mente non riusciva, o magari non voleva lasciarlo riposare. Anche se Max era convinto non sarebbe in ogni caso riuscito a fare bei sogni, solamente incubi. Perché era questo che si meritava.
<< Cosa ho fatto? >> Disse passandosi le mani paffute sul viso altrettanto paffuto. Come sempre, quando era da solo, riprendeva a pensare al passato, ed ogni santissima benedetta volta, si poneva quella domanda, alla quale riusciva a rispondere solamente con due parole: << Un casino. >>
La aveva abbandonata. Perché? L’aveva lasciata per seguire un ideale che lo stesso Governatore, quel dannato giorno che aveva segnato la sua vita, gli aveva inculcato. << Avrai grandi ricchezze! Avrai cibo, alcolici, acqua a volontà, ragazze, qualsiasi cosa tu preferisca! >> gli aveva detto con grande entusiasmo, spalancando le braccia. Max era rimasto sorpreso del comportamento dell’uomo, soprattutto riguardo al loro rapporto in passato, ma gli stava offrendo tutto ciò che Max avrebbe mai potuto desiderare, a parte la cosa più meravigliosa di tutte, quella che lui già possedeva. E che non aveva pensato due volte a lasciare: Scarlett.
Dov’era ora lei? Era felice? Viva? Stava bene?
<< Conoscendola >> sorrise tra sé, amaramente ma con una luce piena d’amore negli occhi, << vorrà uccidermi in modo lento e doloroso >> quasi non riusciva a trattenersi dallo scoppiare a ridere istericamente. Quanto lo aveva odiato, Scarlett, e quanto era stato stupido a trattarla a quel modo durante Total Drama. Ma poi tutto era cambiato. Lui ed il suo amico Skylar si erano imbattuti in Jasmine, Scarlett ed Ella, e quasi Max aveva rischiato che la rossa gli saltasse addosso per strangolarlo. Al ricordo, al ragazzo venne da ridere.
Contro ogni volontà di Scarlett, Jasmine aveva deciso di aiutare sia lui che Skylar, e la rossa non aveva potuto fare molto per impedirle di prendere quella decisione. Le doveva un favore, un grande favore, e non si poteva certamente imporre sull’australiana. Se avesse voluto, Jasmine avrebbe potuto mollarla lì, e Scarlett, essendosi trovata già da sola davanti al pericolo di quelle creature, era stata zitta per la paura di essere lasciata di nuovo al suo destino.
Col tempo, dopo un inizio molto complicato e difficile, Scarlett gli si era avvicinata. Era cominciato tutto una tiepida notte di maggio, quando la luna era alta nel cielo ed il piccolo gruppetto si trovava accampato in uno spiazzo verde, il bosco alle spalle ed ai lati e davanti grandi rocce ed un lago immenso, la cui acqua, alla luce del satellite della Terra, pareva talmente limpida che chiunque si sarebbe aspettato di veder comparire una sirena o qualche creatura mitologica come un elfo o una fata.
Jasmine ed Ella allora dormivano da un bel pezzo, e Max se ne stava seduto su una piccola roccia, a guardare l’orizzonte, un paesaggio magico, che mai nella sua vita avrebbe potuto pensare di riuscire a vedere. Scarlett si era seduta al suo fianco, gli aveva lanciato un’occhiata ed in silenzio si era circondata le gambe con le braccia, aveva poggiato il mento sulle ginocchia e si era messa a fissare il mare. << È bellissimo, qui >> aveva detto, e Max aveva sorriso, trovandosi d’accordo. << Non immaginavo ci potesse essere tanta pace dopo tutto ciò che abbiamo visto. >>
<< Lo so, è stato orribile >> al ricordo di quegli scheletri, il ragazzo era rabbrividito, mentre il suo cuore veniva avvolto dalla paura come la presa forte di una mano.
<< Ma ora siamo insieme >> aveva risposto la rossa. Max non aveva capito cosa lei intendesse, ma non fece in tempo a chiederglielo, che Scarlett si era già poggiata contro la sua spalla, il capo contro l’incavo del suo collo, ed aveva chiuso gli occhi.
Quella notte era stata magica, la prima di una serie che con il passare del tempo aveva preso a ripetersi sempre più frequentemente.
<< Se solo non fossi stato così stupido >> disse alzando lo sguardo verso il soffitto. Aveva avuto tutto, allora, assieme a Scarlett, ma lo aveva buttato via. Il Governatore gli aveva mentito. Certo, poteva avere qualsiasi cosa chiedesse, ma non era una vita felice. Se ne stava chiuso lì, nelle profondità della casa delle vacanze di quel tiranno, insieme a tutti i suoi collaboratori. Ogni cosa lì pareva talmente futuristica che pensare al fatto che fuori da quel luogo tutto fosse degradato e senza tecnologia sembrava qualcosa di inimmaginabile, pazzesco.
C’erano voluti quasi due anni interi per creare quel luogo, con grande uso di manodopera. Era stata un’impresa quasi biblica, ma alla fine, il risultato era ottimo.
“Certo, ottimo, ma non potrà mai riportarmi indietro quello che ho perso per sempre” si diceva sempre Max tra sé e sé.
Sospirò, portando nuovamente lo sguardo sulla grande macchina. Alla fine, stanco di star lì seduto a non far nulla, si alzò. Era rimasto immobile su quello sgabello per talmente tanto tempo che pensava di non ricordarsi più nemmeno come si camminava. Quanto era passato da quando gli altri se ne erano andati nelle loro stanze, congedandolo? Forse una o due ore, Max non ricordava. E forse, non gliene importava nemmeno. Che senso aveva il tempo quando la sua vita era votata ad una causa che non condivideva, quando creava macchine e aggeggi infernali che avrebbero solamente aiutato il Governatore a compiere altre mille orribili azioni?
<< Shila, spegni le luci >> disse con voce stanca mentre la porta si apriva davanti a lui con un rumore strascicato, scomparendo nella parete.
<< Certo, signore >> disse la voce meccanica del computer che controllava quell’ala sotterranea della grandissima casa.
La dimora delle vacanze del Governatore era fin troppo immensa, estesa molto più nella parte al disotto del livello del suolo che in quella superficiale. Tutto era talmente futuristico, lì, che a Max pareva di essere su un’astronave, ma se ci pensava, al fatto che tutti loro si muovevano lì sotto e limitavano la loro vita a quei luoghi, gli pareva di essere una formica tra tante. Erano come quei piccoli animaletti, chiusi in un labirinto costruito per loro da qualcun altro, qualcuno che si riteneva grande ed imbattibile.
“Blah, non mi è mai piaciuto” pensò tra sé il giovane.
Quando giunse dinanzi alla porta del proprio alloggio, Max si lasciò andare a un rumoroso sospiro. Era praticamente esausto, non ne poteva più di quel ritmo di vita, ma cosa mai avrebbe potuto fare per cambiare le cose? Nulla. Se solo avesse tentato di mollare tutto ed uscire da quella prigione, se anche solo fosse riuscito ad uscire di lì vivo, dove sarebbe potuto andare? Non aveva un posto dove dirigersi, non aveva delle persone da cui recarsi, ed il Governatore gli avrebbe fatto sganciare dietro gruppi e gruppi di soldati, etichettandolo come traditore dello Stato.
Entrò in casa e la porta di metallo si chiuse con un suono strascicato alle sue spalle. La luce dell’alloggio era soffusa, mentre le lampade a led diffondevano un caldo bagliore biancastro. Si diresse verso la camera da letto, passando per il corridoio. I suoi appartamenti consistevano in una grande stanza in cui era allestita la cucina e verso la parte est, il salotto, collegata tramite un corridoio buio, dentro le cui pareti erano posti degli armadi con le sue cose, che portava alla camera da letto. Il bagno faceva parte della stanza in cui dormiva, e ci si arrivava oltrepassando una porticina di legno scuro. Era piccolo e a malapena riusciva a muovercisi. Ma erano comprensibili, le dimensioni di quel posto, dato che oltre a lui c’erano almeno altre centinaia di persone in quei luoghi sotterranei.
Max stava nell’area assegnata agli scienziati dei laboratori, che si divideva nei laboratori, nelle mense, nelle aree di svago e negli alloggi dei suoi collaboratori e dei soldati. I soldati erano ovunque. Per lo più erano uomini che avevano scelto di spontanea volontà, due anni prima, di far parte della milizia, al servizio di quell’uomo spietato che si faceva chiamare con molta poca modestia, “Governatore”. Anche se molti dei soldati erano uomini o ragazzi, le donne non mancavano di certo. Max ricordava di quando, tempo addietro, aveva conosciuto una tra i due capitani più importanti della milizia, appena sottostanti al Governatore. Alex era una donna bellissima e pericolosa, con i capelli costantemente legati ed un’espressione serissima dipinta in viso. La sua carnagione era scura e priva di imperfezioni, ed i suoi occhi, oh, gli occhi di quella donna potevano atterrare un uomo ed afferrargli il cuore in una ferrea presa con un solo sguardo. Ricordava di aver pensato a lei, per qualche tempo, appena dopo aver lasciato Scarlett. Ma presto l’aveva dimenticata. Anche se era bellissima, ed il sogno di ogni uomo, lui amava la sua Scarlett con tutto il cuore. Anche se sua, non lo era più.
Sospirò nuovamente, passandosi una mano tra i capelli color viola scuro, per poi cominciare a sbottonare il camice che portava costantemente quando era in laboratorio. Almeno, una doccia alla sera se la faceva, prima di distendersi a letto e tentare inutilmente di chiudere occhio, cosa che puntualmente non riusciva a fare. Ma quella volta, Max proprio non ce la faceva. Il suo cervello pareva un tamburo, gli pulsava la testa, e sembrava come se la prossima fitta sarebbe stata quella che l’avrebbe finalmente tolto di mezzo. Il cuore, nel petto, gli doleva, mentre altre fitte dolorose gli percorrevano il busto. Si sentiva stanco, dannatamente stanco, e tutto ciò che desiderava fare, in quel preciso istante, era distendersi sul materasso e chiudere gli occhi. Poco importava che non avrebbe dormito, non si reggeva in piedi, ed era anche comprensibile, dato il suo stile di vita poco sano.
“Forse sono semplicemente io” si disse stendendosi sul letto, con indosso solamente i pantaloni grigi della sua tenuta da scienziato. “Forse sono io che mi vieto di dormire per paura di sognarla.” Ed in realtà, era proprio così. Max non se ne era reso nemmeno conto, quando aveva dato il via al modo in cui ora viveva la sua vita, si era lasciato trasportare. Con il cuore avvolto da un’aura oscura di paura, aveva smesso di dormire, preferendo il restare sveglio tutta la notte a lavorare, per non essere costretto a sognare Scarlett, o meglio, ad avere incubi in cui lei era costantemente presente. Una o due volte, nei primi tempi, in cui gli era capitato di chiudere occhio per qualche ora, Max ricordava di aver sognato il Governatore, Jasmine e Scarlett. L’australiana e la rossa erano legate per le mani ad una grande macchina fatta di legno e metallo, ed il Governatore gli diceva: << Bel lavoro, socio! >> con un sorriso malvagio dipinto in volto. Allora Scarlett gli urlava contro: << Sei un traditore! Guarda cosa hai fatto! >> La voce della ragazza era piena di odio e rabbia come Max mai l’aveva sentita, e non appena tornato dal mondo dei sogni, il giovane aveva potuto sentire ancora su di sé gli occhi furiosi color oliva di colei che tempo addietro lo aveva amato.
“Non voglio più rischiare di sognarla. Preferisco restare sveglio fino a morire, invece che essere costretto a vederla e subire la sua ira.” Pensò tra sé, disteso e con le braccia grassottelle sotto alla testa. Chiuse gli occhi, soffiando piano dal naso, come un drago le cui membra stanche anelano riposo, senza forza anche per il solo sbuffare.
Le palpebre erano pesanti, e gli occhi gli bruciavano. Era sicuro fossero rossi, talmente era privo di forze. Troppo tempo passato in laboratorio, a lavorare e studiare, non alternato ad un po’ di riposo, non è quel che un medico sano di mente consiglierebbe. E Max ce l’aveva un medico, un uomo di sessant’anni con radi capelli in testa e tutti bianchi, simili a ciuffi crespi di polvere. Era un uomo buono, molto buono, e Max si stupiva del fatto che lavorasse per quel tiranno che aveva preso il controllo di tutto. Probabilmente, come altri prima di lui, si era ritrovato incastrato nella tela del Governatore. E prima di riuscire ad uscirne sarebbe morto, con ogni probabilità.
Max continuò a tenere gli occhi chiusi, respirando piano, mantenendo fuori i pensieri. Piano piano cominciò a calmarsi, finché, silenziosamente, non scivolò nel sonno, senza nemmeno accorgersene.
 
 
Dakota sorrise, buttandosi all’indietro e quasi sprofondando nella marea di soffici e lisci cuscini di ogni forma e dimensione poggiati sopra il letto nella stanza degli ospiti. Erano pronte per ogni evenienza, e quella grotta era davvero molto molto grande.
<< Questo posto è davvero fantastico >> disse Brick, lanciando un’occhiata alla ragazza dopo essersi lanciato a sua volta sul grande letto pieno di cuscini. Alcuni di essi erano a forma di pesce, alcuni di coniglio, ed altri ancora di piccoli e teneri orsacchiotti.
<< Lo so, ce ne ho messo di tempo per sistemarlo >> disse Dakota ridendo, << ma le stanze erano già così prima del mio arrivo. Io ho provveduto a qualche mobile qua e là, ed il resto è arrivato con il tempo, grazie anche al prezioso aiuto di Jasmine e Scarlett. Se loro non ci fossero questo posto sarebbe… >> abbassò lo sguardo, pensando, per poi rialzare di colpo la testa e sorridere, inclinando il capo. << Non sarebbe casa. >>
<< Siete così tanto legate? >> Le chiese, disteso a pancia in giù e guardandola con una strana luce negli occhi. Non l’aveva mai vista così, Dakota. Brick non avrebbe mai nemmeno potuto immaginare che la bionda potesse avere quell’aspetto nel suo carattere. Era una piacevole sorpresa.
<< Sì, te l’ho detto, siamo come sorelle. >>
<< Posso farti una domanda indiscreta? >> disse poi lui, dal nulla, e Dakota alzò gli occhi verdi verso il giovane. Lo fissò per qualche secondo, per poi arrendersi ed annuire piano.
<< Non ti assicuro una risposta, però. >>
<< Chi è Mattew? >>
Dakota scattò e si fece scura in volto. Puntò ed agganciò gli occhi a quelli neri di Brick. Il ragazzo deglutì, a disagio, finché la bionda non si decise a rispondere. << Non… Non ne voglio parlare >> disse lei poi, balbettando. << Ed ora, scusami ma sono stanca >> senza degnarlo più di uno sguardo, Dakota si alzò dal letto ed uscì dalla stanza priva di porta, fino a raggiungere quella in cui solitamente dormiva. Lì, senza neanche accendere la luce, andò dritta a distendersi a letto, e si rifugiò sotto le coperte. Il cuore le faceva male, mentre il ricordo del ragazzo riaffiorava. No, non voleva ricordare, non voleva pensare al secondo ragazzo che più aveva amato e che aveva tragicamente perso.

 
Superò la soglia, poggiando rumorosamente i piedi avvolti negli stivali sul polveroso pavimento di legno. Nel saloon tutti tacquero improvvisamente, evitando chiaramente di incrociare il suo sguardo, di dare nell’occhio. Nessuno di loro voleva rischiare di vedere i suoi occhi neri puntati su di sé, nessuno aveva tanto coraggio.
Nessuno era tanto stupido. Anche se a volte, qualcuno capitava, qualche stolto che pensava di poter permetterselo.
Restò sulla soglia per qualche istante, immobile, la mano dalla pelle abbronzata e sudata accanto alla fondina legata alla scura cintura di cuoio. Due anziani seduti ad un tavolo verso la fine della sala ebbero il coraggio di alzare lo sguardo, distogliendolo però subito.
“Li lascerò in vita” si disse nella propria mente.
Fece un passo avanti, con il suo solito passo deciso, e raggiunse il bancone dove il giovane uomo stava pulendo un bicchiere di vetro con uno straccio bianco macchiato in alcuni punti da una sostanza nera e grigiastra.
<< Si può ordinare da bere? >>
Il giovane sorrise, mentre ancora teneva lo sguardo basso. << Ovviamente. Abbiamo quel che preferisce >> si stava trattenendo a malapena dallo scoppiare in una risata isterica.
<< Bene. Il solito, scotch con ghiaccio. >> Rispose con voce seria. << Lo trovi divertente? >> aggiunse quando il ragazzo cominciò a sogghignare. Alzò gli occhi verso la persona che gli stava davanti, e sorrise sbruffone. La pelle bianca era completamente disseminata di lentiggini della stessa tonalità dei capelli color carota che teneva tirati all’indietro. Come sempre, indossava una canotta bianca non esattamente pulita, dei jeans lunghi e blu e uno straccio a cavallo della cintura, davanti alla fibbia d’argento.
<< Già, molto divertente >> rispose sbruffone.
<< Ah sì? >> replicò con un tono serio, socchiudendo gli occhi dalle iridi più nere del buio.
<< Sì. >>
<< E cosa esattamente trovi così esilarante? Eh? Stupido garzone, cameriere >> sputò quella frase in modo sprezzante, socchiudendo ancora di più gli occhi.
L’altro rise, << Già, anche io ti amo, Courtney. >>
La ragazza continuò a guardarlo cattiva, per poi scoppiare a ridere e piegarsi in due tenendosi la pancia. << Anche io, Scott >> disse quando si fu calmata, tornando in piedi ed asciugandosi una lacrima al lato dell’occhio destro.
Un uomo seduto al bancone, accanto a lei, sghignazzò, e lei si fece nuovamente seria. << Cos’hai da ridere tu, eh? >>
Il vecchio barbuto dalla pelle abbronzatissima e piena di rughe d’espressione oltre che zampe di gallina al lato degli occhi, dalle guance macchiate dai segni dell’età e dalla barba bianca ispida e sporca balbettò un: << N-nulla… >>, e Courtney socchiuse gli occhi.
<< Sarà meglio. All’ultimo che si è azzardato a ridere di me ho piantato un coltello da marmellata in piena mano. >> Detto questo si voltò ed uscì senza un’altra parola dal saloon. Scott mollò tutto, lanciando lo straccio sul bancone di legno e seguendola.
<< Ehi, Court! >> disse raggiungendola e poggiandole una mano sulla spalla.
Lei si voltò a guardarlo, con un viso impassibile, privo di una qualsiasi espressione. Il cielo era di un azzurro intenso, striato di nuvole bianche, mentre il sole scaldava con tutta la sua potenza. L’aria era calda, afosa, e respirare era quasi impossibile, per uno straniero, ma loro ormai lì ci vivevano da lungo tempo, erano abituati a quel clima.
Il paesaggio era desertico, non c’era traccia di vita se non quella dei cactus e delle erbacce secche che crescevano qua e là accanto a sassi disseminati a caso sul suolo. La vista delle montagne lontane, le cui vette erano innevate e circondate da nuvole che si diradavano e riformavano dal nulla era qualcosa di spettacolare. Sembravano enormi, e con ogni probabilità lo erano, considerato che distavano da Paceful chilometri e chilometri.
Courtney e Scott, dopo mesi e mesi di vagabondaggio, avevano trovato finalmente un posto dove rifugiarsi, Paceful, una città inizialmente fantasma riportata alla vita. Gli abitanti si erano sistemati alla grande, ed i due giovani avevano dovuto superare dure prove per far capire ai cittadini di poter meritarsi una residenza a quella fantomatica cittadina del deserto.
Paceful si trovava lontano dal centro di potere del Governatore, ma sempre dentro le mura, che prendevano quasi tutto il territorio di ciò che una volta erano stati gli Stati Uniti e il Canada. Loro, precisamente, erano nei confini canadesi, non che importasse più qualcosa.
<< Court >> disse lui, con un tono di voce lamentoso.
<< Cosa? >>
Scott abbassò lo sguardo a terra. Courtney, dalla morte di Dawn, era cambiata. Ora non aveva regole, era pericolosa, e non si faceva scrupoli. << Lascia il tuo lavoro. >>
<< Cosa?! >> Quasi urlò. << E come pensi potremmo ricavarci da vivere? Con il tuo impiego al saloon? >>
<< Court, è pericoloso >> replicò lui sottolineando l’ultima parola.
<< A me piace. >>
<< Rischi la vita. >>
<< Ma ti piace quando porto a casa i nostri soldi. >>
<< Pensi che mi piaccia sapere da dove vengono? Me ne sto dietro a quel bancone, aspettando che tu torni da me, sperando tutta integra. In quei giorni ho costantemente paura di non rivederti più, attendo che tu ritorni a casa da me, tra le mie braccia, e penso a quelle persone che rischiano di ucciderti. Sono pericolosi, Court. >>
<< Ma io lo sono più di loro. >>
<< E cosa accadrà quando troverai pane per i tuoi denti?! >> Ora Scott stava urlando.
<< Sono la migliore. Smettila di preoccuparti inutilmente. >>
<< Sarai anche la migliore cacciatrice di taglie in circolazione, Courtney, ma sei la mia ragazza, ed io non posso far altro che preoccuparmi per te quando sei lontana da me. >> Le si avvicinò, e fece passare le braccia attorno alla sua vita. Lei alzò gli occhi neri ossidiana e li puntò in quelli grigi di Scott. Restarono lì immobili per qualche tempo, finché lui non esordì in un: << Io ti amo, Courtney. >>
<< Anche io ti amo, Scott >> rispose lei con un sorriso, addolcendosi improvvisamente.
<< Ma… Fammi finire. >> Replicò lui. << Ti amo, Courtney Barlow, ed odio essere solamente il tuo ragazzo. Stiamo insieme da quattro anni, ormai, ed io sono innamorato di te alla follia. >> Si scostò, liberandosi dalla stretta, e mettendosi in ginocchio davanti alla ragazza.
<< Ma che… >>
<< Ho una domanda da farti. >>
Per tutto il tempo, i loro occhi erano rimasti fissi gli uni negli altri. << C-cosa? >> la voce di Courtney stava tremando.
<< Io ti amo, Courtney Barlow >> la voce di Scott era quasi disperata, mentre si vedeva chiaramente che si stava trattenendo a stento dalle lacrime. Si mosse, sempre guardando fisso la ragazza ispanica, e dalla tasca estrasse una piccola scatolina di velluto blu notte. La portò davanti al viso e la aprì facendola scattare con un click. La ragazza spalancò la bocca e si mise una mano davanti alle labbra. << Sposami, Courtney, io voglio che tu sia mia moglie. >>

 
Chris aprì lentamente gli occhi, sospirando. Si trovava chiuso nella propria stanza, al buio. Si passò una mano sul viso, sbuffando. Aveva dormito veramente male. Fuori il cielo era scurissimo, mentre la notte era calata da un pezzo. Fuori della porta sentiva un vociare che gli dava sui nervi. Era solo nel suo letto, le lenzuola disfatte. Sbatté il capo sul cuscino, fortemente, puntando gli occhi neri sul soffitto.
Era completamente privo di vestiti, solo una coperta leggera a coprirlo parzialmente.
Chiuse gli occhi, ma fu costretto a riaprirli. No, non sarebbe riuscito ad addormentarsi, non dopo ciò che aveva sognato.
<< Ah, al diavolo >> disse quasi imprecando, per poi scattare in piedi diretto verso la porta e quel rumore di voci.
  
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