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Autore: yelle    25/09/2008    2 recensioni
One-shot puramente platonica, e a tratti definibile introspettiva, ma con ovvi riferimenti alla coppia B&B. Spoiler free.
Cosa può succedere quando Bones perde il controllo di ciò che le sta intorno... restando chiusa nell'ascensore!
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Seeley Booth, Temperance Brennan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era l’ennesima giornata di lavoro, una delle classiche, in cui Bones non poteva esonerarsi dal rimanere rinchiusa in ufficio sino a tardi

Era l’ennesima giornata di lavoro, una delle classiche, in cui Bones non poteva esonerarsi dal rimanere rinchiusa in ufficio sino a tardi. Sapeva che le piaceva, e solo per quello non le diceva nulla, ma notava quanto poi fosse stanca nel momento in cui finalmente decideva di alzarsi dalla scrivania.

Booth non sapeva cosa fare: vietarle di rimanere seduta in ufficio un minuto di più, o andarsene e lasciarla tranquilla?

Alla fine optò per la seconda opzione. Sapeva che in caso contrario lei comunque non lo avrebbe ascoltato, quindi era meglio stare zitto per amore del quieto vivere.

Se ne andò silenziosamente cercando di non farsi notare e di non disturbarla. Spense tutte le luci e chiuse tutte le porte, tranne quella di ingresso. Ma sapeva che era inutile: era certo che il mattino dopo, a qualsiasi ora avesse deciso di venire in ufficio, l’avrebbe trovata nella stessa posizione in cui ora la stava lasciando. Era suo solito dormire in ufficio, quando faceva tardi. E gli sembrava abbastanza stanca da non avere la voglia di mettersi al volante.

Sospirando rassegnato lasciò la sua collega nel silenzio notturno del laboratorio.

--- ---

D’improvviso Bones sentì le palpebre farsi pesanti. Le sembrava di non riuscire a tenere gli occhi aperti.

Solo un minuto, pensò allora. Avrebbe posato la testa su quella scrivania solo per un minuto, giusto per farsi passare quell’improvviso senso di stanchezza, pesantezza e malessere.

Fu un incubo a svegliarla.

Si destò tremante, con rivoli di lacrime che le scorrevano, leggere e impalpabili, lungo le guance, gli occhi spalancati.

Aveva appena fatto un sogno orribile. Come le era sembrato reale tutto quel sangue! Tutto quel sangue di Booth, colpito al petto. E lei, incapace di aiutarlo.

Si alzò dalla sedia e girovagò per la stanza con frenesia, cercando di calmarsi e di cancellare dalla mente quelle orrende immagini. Si sfregò gli occhi stanchi e si massaggiò le tempie, ma dietro le palpebre chiuse continuava a vedere lui, e solo lui, disteso in una pozza di sangue. Andò in bagno a risciacquarsi la faccia, e decise che probabilmente dormire a casa sua, nel suo letto, avrebbe potuto essere di aiuto.

Senza controllare in che stato fosse il suo viso, e senza che gliene fregasse veramente qualcosa, spense il computer, prese chiavi e cappotto e si diresse vero la porta. Voltandosi solo un istante indietro pensò a quanto le piacesse il suo lavoro. Amava quell’ufficio, amava passare le ore seduta a quella scrivania. Ma visto che anche il troppo stroppia, in quel momento non si sentiva affatto in colpa a tornarsene a casa, nonostante tutto il lavoro che ancora le restava da fare.

Chiuse le porte principali di vetro ermeticamente e si diresse verso l’ascensore.

Dalle finestre vedeva la notte che l’aspettava, di fuori. Limpida, pulita, senza nuvole, fievolmente illuminata dalle luci della città, non troppo vicine da costituire un fastidio per la vista di chiunque avesse guardato la città dalle finestre del Jeffersonian Institute.

L’ascensore arrivò gentilmente al piano senza produrre il benché minimo rumore.

Salì e premette il pulsante di discesa al piano seminterrato. La cabina si mise in moto altrettanto silenziosamente, e lei chiuse gli occhi per godere di quell’istante di assoluta pace.

Arrivata a destinazione, si diresse verso il parcheggio sotterraneo frugando, nel mentre, nella sua borsa. Prima di raggiungere la macchina si accorse però di non avere con sé il cellulare, né tanto meno le chiavi del veicolo. Era costretta a tornare indietro.

Per un semplice impulso agonistico non tornò in ascensore, ma se la fece a piedi. Si accorse troppo tardi di essere troppo stanca, e di avere i riflessi inutilizzabili per permettersi una corsa su per le scale per così tanti gradini. Arrivata in cima al primo piano poggiò male la gamba, e non riuscì ad impedirsi di cadere all’indietro. Ruzzolò per diversi metri, fino al pianerottolo mediano, e lì giacque dolorante per diversi minuti, incapace di muoversi. Gemette di dolore quando si toccò il polso. Lo esaminò con tutta l’attenzione che riuscì a racimolare, che non era poi tanta, e ne diagnosticò momentaneamente la frattura. Frustrata, usò il braccio sinistro, quello illeso, per fare leva sul corrimano ed alzarsi, ma anche la caviglia destra era ridotta male. Colta di sorpresa da dolore lancinante che le attraversò la gamba intera, si lasciò cadere a corpo morto.

Era ridotta non bene. Eppure doveva raggiungere assolutamente il suo ufficio, dove si trovavano sia il telefono che il cellulare. E per raggiungerli non poteva, e non riusciva, a fare altro che trascinarsi sulla gamba e sul braccio sani.

Fu un percorso interminabile, doloroso e terribilmente spossante, ma alla fine riuscì ad arrivare. Prese immediatamente il telefono e compose un numero. Era notte inoltrata, ormai, ma sapeva, quanto e forse meglio di lui, che ci sarebbe stato per lei sempre e dovunque, qualunque fosse l’ora del giorno - o della notte.

"Booth" rispose lui con voce stanca, assonnata, ma non addormentata. Non stava ancora dormendo.

"Sono io."

"Bones!" lei sentì quella voce calda e mascolina riempirsi di apprensione. "E’ l’una di notte! Cosa c’è, è successo qualcosa?"

"In effetti sì. Sono caduta. Stavo..."

"Caduta?" la interruppe lui con l’ansia nella voce. "Dove? Dove sei ora? Dimmi subito dove devo venirti a prendere. Sei ferita? Stai bene? Riesci a camminare?"

"Booth, calmati" sorrise lei "sto bene.... quasi. Ho solo qualche problema a camminare, altrimenti non ti chiamerei. Avrei bisogno..."

"Non dire nient’altro, Bones. Sto arrivando. Dove sei? Ancora al Jeffersonian?"

"Sì, io..." ma s’interruppe. Booth aveva già chiuso la comunicazione. Lei sbuffò, temendo di non aver gestito bene quella telefonata, ma ormai non importava più. Si accasciò sul pavimento, gemendo dal dolore, e lasciò cadere il cellulare. Si sarebbe volentieri addormentata di nuovo, esattamente dov’era. A parte il dolore, c’era una quiete che raramente si respirava in quel posto.

Eppure non poteva.

Doveva raggiungere in qualche modo l'ascensore e tornare al piano terra. Doveva raggiungere Booth, che stava venendo da lei.

Il suo Booth. Sempre lì, sempre lui.

Scacciò quei pensieri scomodi dal cervello, cercando di concentrarsi sul corridoio che doveva percorrere. Le veniva il magone a pensare alla strada da fare: il polso e la caviglia insieme la facevano gemere dal dolore, regalandole fitte intense e spietate che le procuravano silenziose e solitarie lacrime. Si era messa a piangere dal dolore senza neanche rendersene conto. Quando se ne accorse le asciugò con un gesto rabbioso del braccio sano. Non voleva che Booth la vedesse così. Era già abbastanza fragile, per la malaugurata situazione in cui era andata a cacciarsi.

Arrivata davanti all'ascensore, aprì le porte e vi si trascinò dentro. Schiacciò a fatica il pulsante del piano terra e, sfinita dallo sforzo, si accasciò sul pavimento. Non riusciva più a muovere un solo muscolo. Chiuse gli occhi, rimpiangendo in quel momento di non essere nel suo letto, sotto le coperte calde e confortevoli, a leggere quel libro che agognava da settimane di riuscire a finire.

E poi successe.

Perché le cose non accadono mai per caso. Perché se quello è la tua giornata storta, puoi star pur sicura che nulla ti lascerà in pace. Perché se sei stanca, sfinita e sfibrata da una giornata pesante, devi essere certa che dietro l'angolo c'è qualcosa pronto ad aspettarti.

L'ascensore si bloccò. Le luci al suo interno si spensero, e il ronzio del motore cessò di farsi sentire.

Bones aprì gli occhi. Era completamente immersa nel buio. Lo spiraglio rimasto aperto fra le due porte le regalava un minimo di luce, ma solo in un punto troppo alto da raggiungere, per il suo polso mal ridotto. Era ferma fra due piani, e ridotta com’era tentare di aprire manualmente quelle porte non sarebbe stato altro che uno sforzo inutile.

Fu a quel punto che l'angoscia che le premeva il petto da diversi minuti proruppe, rompendo gli argini già fragili della sua ormai solo apparente rigidità e portandola sull'orlo di una crisi di portata non poco rilevante. Singhiozzava e gemeva, sentendosi incredibilmente ridicola e, al contempo, desolatamente sola.

Quanto tempo ci metteva? Perché non era ancora arrivato?

Dannazione a lui.

"Booth..." sussurrò al buio, al vuoto, al nulla. "Dove diavolo sei?"

Singhiozzò di nuovo, e le vennero in mente ricordi poco piacevoli della sua infanzia.

Non aiutava, non l'aiutava per nulla.

Chiudendo nuovamente gli occhi si rassegnò all’attesa, conscia di quanto le pesasse sul cuore quella forzata immobilità, quel dipendere dall’altrui aiuto, doversi fidare di una persona che solo fortunatamente era affidabile e presente. Che solo fortunatamente era Booth. Ma le pesava comunque, animale selvatico quant’era lei. E non apprezzava quel suo improvviso bisogno, quella sua improvvisa necessità del suo appoggio. La faceva sembrare debole e indifesa.

Un suono improvviso le fece aprire gli occhi di scatto.

Un rumore lontano, ma che si faceva sempre più vicino. Un suono continuo e veloce.

Suono di passi.

Qualcuno stava arrivando.

Era lui, e non aveva bisogno di aprire gli occhi per vederlo. Ogni suo lineamento e tratto del viso era già impresso a fuoco ed indelebilmente nella sua memoria.

Lo sentì arrivare precipitosamente nel punto in cui le porte elettroniche dell’ascensore erano rimaste semichiuse.

Percepì il suo sguardo su di sé. La stava fissando, lo percepiva nell’aria.

E allora ogni suo muscolo si rilassò improvvisamente.

Non era più sola. Era venuto, venuto da lei. Non aveva bisogno d’altro.

--- ---

Uno spiraglio fra le porte. Era tutto ciò che aveva, tutto ciò che poteva vedere di lei.

Il capo chino, il corpo mollemente appoggiato alla parete antistante, Bones sembrava apparentemente privata della vita in ogni fibra del suo essere.

Doveva andare da lei. Subito.

Provò ad aprire le porte manualmente, ma dovette desistere in fretta. Lo sforzo era troppo, per le sue braccia ed i suoi muscoli. Andò allora in cerca di qualcosa, un qualsiasi oggetto, con cui provare a far leva. Tornò sui suoi passi, negli uffici e sulla piattaforma. Alla fine trovò un bastone d’acciaio, la cui natura, lo scopo e il metodo d’impiego gli erano completamente sconosciuti, e con esso si diresse di nuovo all’ascensore.

Stavolta Bones aveva gli occhi aperti e lo guardava.

Dritto negli occhi, lo sguardo di lei puntato diretto e preciso verso di lui.

Perché ora sentiva quella strana sensazione alla bocca dello stomaco?

"Bones, riesci a sentirmi?" le urlò.

Lei, mesta, fece un semplice cenno del capo in senso affermativo per fargli capire che lo aveva sentito.

"Non muoverti, non fare il minimo movimento. Ora ti tiro fuori di lì."

Nessuna risposta. Lei chiuse gli occhi e appoggiò il capo alla parete. Il colorito del viso era pallido e smunto, tendente al grigio. Sembrava come morta, cristallizzata in quell’immobilità… o ad un passo dalla tomba.

Avrebbe voluto abbracciarla in quel preciso momento, ma non poteva. Non ancora. Prima doveva raggiungerla. Facendo leva con il nuovo strumento appena procurato, Booth diede sfogo ad ogni briciolo di energia rimastagli in corpo per tentare di aprire quelle dannate porte. Alla fine fu lui ad avere la meglio e, con lentezza disarmante, aprì finalmente l’uscita. Facendo attenzione a non caderle addosso, si calò piano nell’abitacolo, le si chinò accanto e ne valutò attentamente le condizioni fisiche.

"Bones…" le sussurrò "come ti senti?"

"Acciaccata" fu la mesta risposta.

Con estrema delicatezza, più di quanta avesse mai pensato di possederne, le prese il polso malmesso, lo studiò, lo soppesò e ne valuto il danno. Fece lo stesso con la caviglia, ma stavolta una ruga di preoccupazione gli corrugò la fronte. Avrebbe dovuto essere medicata al più presto, se voleva non avere problemi più seri.

"Bones, adesso dobbiamo uscire di qui. Dovrò prenderti di peso e issarti lì sopra. Pensi di farcela?"

"Non chiedermelo. Devo farlo. Mi basterà saperlo."

"Sapere cosa?"

"Che se voglio uscire di qui devo farcela. Se non ne fossi convinta è probabile non ci riuscirei."

"Va bene. Non preoccuparti, Bones. Ce la faremo, ne usciremo. Insieme." Sottolineò l’ultima parola, caricandola di significato. Ma era così. O insieme, o non ne sarebbero usciti.

Si girò, dandole le spalle, e si chinò ancor di più.

"Avanti" le disse.

"Cosa?" chiese lei con lo sconcerto nella voce.

"Avanti, sali."

Non sentì movimenti, né la sentì avvicinarsi in alcun modo.

Si voltò e la scoprì intenta a fissarlo.

"Allora? Vuoi far le ragnatele? Ti piace tanto startene qui, dolorante e mezza pesta?"

Lei fece cenno di no con la testa.

"E allora perché diamine non sali?"

"Sulla tua schiena?"

Lui rispose con un’occhiata esasperata.

"Ma sono pesante…"

"Bones, non farmi ridere! Sono stato nell’esercito, che diamine! Ho sollevato cose ben più pesanti di te."

Lei si lasciò convincere e, ancora titubante, gli mise le braccia al collo. Lo strinse forte, fino a sentire il suo profumo mascolino arrivargli alle narici, penetrarle sin nel cervello.

Lui le sollevò le gambe e se le posizionò intorno al bacino. Poi scalò il basamento di cemento. In pochi minuti erano sul pavimento del primo piano, liberi e, almeno in un caso, doloranti.

Booth la sentì gemere. Erano ora entrambi sdraiati sul pavimento, boccheggianti, lei di schiena, lui prono. Si voltò a guardarla e vide che il volto cinereo si era fatto più grave, mentre tentava palesemente di reprimere le smorfie di dolore che riuscivano comunque ad attraversarle lo sguardo.

"Bones, avanti, tirati su. Ti porto in ospedale."

"Booth, non ce la faccio. Mi fa male la gamba."

"E va bene" sospirò lui. Le si avvicinò e, di nuovo, armandosi di tutta la delicatezza di cui era capace, la prese per spalle e ginocchia e la sollevò, stringendosela al petto. Le sembrava un pulcino bagnato bisognoso di cure.

Immediatamente sentì il contatto delle sue braccia cingergli delicatamente il collo. Provò in quel medesimo istante un’emozione difficile da spiegare, ma l’accantonò per fare spazio all’urgenza che in quel momento aveva.

Ci mise pochi minuti a fare le scale con lei in braccio e raggiungere la macchina, che aveva lasciato davanti all’entrata, parcheggiata in malo modo.

Poggiò il suo prezioso carico sul sedile del passeggero, delicatamente. Le allacciò la cintura di sicurezza, eseguendo le stesse mosse che avrebbe fatto se al posto di Bones ci fosse stato suo figlio Parker. Poi si mise al volante e, con una guida veloce e pulita, in pochi minuti fu davanti al pronto soccorso.

Tornò alla portiera di lei e la prese nuovamente in braccio.

Gli piaceva quella sensazione, quella che provava nel toccare il suo corpo in modo così innocente, naturale.

La portò sino all’ingresso, dove adocchiò una sedia a rotelle libera, a cui si avvicinò con l’intenzione di accomodarci Bones. Ma quando fece per scostarsela dal petto trovò la resistenza di lei stessa, che lottò per non staccarsi da lui.

"Bones? Cosa c’è?"

"Non lasciarmi…" sussurrò lei con voce sommessa, tanto che lui stentò a capire il senso delle parole appena pronunciate.

"Non ti abbandono, Bones, non esserne così terrorizzata. Però ora lasciami. Ti devo far vedere da un dottore."

Lei, il volto nascosto nella sua spalla, scosse la testa. Di nuovo in segno di diniego.

"Bones, che diavolo ti prende?"

Booth era sconcertato. Che cosa stava succedendo alla collega, alla donna forte e sicura di sé che conosceva?

Proseguì allora per il corridoio, fino a trovare le poltroncine della sala d’aspetto, quasi vuota data l’ora. Solo un anziano signore con un braccio al collo faceva loro da spettatore.

Si sedette continuando a tenerla in braccio. Le accarezzò con gesti gentili e timorosi la schiena, delicatamente, cercando con quel solo, semplice contatto di infonderle un po’ di coraggio. Le baciò i capelli, in un impulso che non cercò neanche di contenere, o nascondere.

Lei scostò il viso e lo rivolse verso di lui. "Ho avuto paura…" confessò. "Era tutto dannatamente buio, ed ero completamente sola… Odio gli ascensori, te l’ho mai detto?"

"No, non credo di ricordare una cosa simile."

"E’ stato l’anno in cui i miei genitori scomparirono…" iniziò a raccontare lei. Booth notò come i suoi occhi si fecero d’un tratto vacui, privi di vita, intenti a fissare un punto oltre la sua spalla. "Uno di quei giorni in cui tornavo a casa completamente sola. Quel giorno in particolare rimasi chiusa dentro l’ascensore di casa, tra il secondo ed il terzo piano."

Chiuse gli occhi ed appoggiò la fronte alla spalla di Booth.

"Ricordo ancora la puzza di chiuso, di cane bagnato e di sporco che aleggiava nella cabina. E il buio, soprattutto. Quel buio intenso che non permette ai tuoi occhi di vedere la minima cosa."

Booth sentì il respiro di lei bloccarsi per un secondo, prima che ricominciasse a parlare con voce tremante.

"Sono rimasta chiusa in quel buco per 23 ore, prima che qualcuno venisse a cercarmi."

Un singhiozzo solitario la interruppe. Booth non resistette e prese di nuovo ad accarezzarle i capelli, soffici e lunghi, con studiata lentezza. Voleva stringerla a sé, voleva sentirla accanto a lui, respirare, amare, vivere.

"Stasera mi sono sentita esattamente allo stesso modo. Lo so che è illogico e irrazionale, ma…"

"Non che non lo è, Bones, lo sai anche tu. Siamo esseri umani che faticano a crearsi una propria identità, a cui rimangono attaccate addosso le proprie cicatrici, che noi lo vogliamo o no. E anche se siamo forti abbastanza da dimenticarle o da lasciarcele alle spalle, loro non dimenticheranno noi. Non essere ingiusta con te stessa. Sei una donna forte, e l’hai già dimostrato abbastanza."

Lei non disse più nulla. Si immersero entrambi nel silenzio dei propri pensieri, muti al calare delle intensità delle proprie emozioni.

"Non lasciarmi sola, stasera, Booth. Ti prego."

"Non hai bisogno di pregarmi. Lo sai che io sono qui, e ci sarò sempre. Sempre, per te. Adesso andiamo dal dottore a farti medicare, poi ti porto a casa mia. Quello che ti occorre è una sana dormita di 12 ore, e non ho intenzione di discutere su questo punto."

"Ma devo lavorare…" cercò di protestare lei.

"Non domani mattina. Lavorerai al pomeriggio. Vedrai che non accadrà nulla di male, se per un giorno ti riposi."

"Come sei dispotico" scherzò lei, con un broncio da bambina a dare espressione al suo volto.

Booth non resistette e posò un bacio delicato sulla sua fronte. "Avanti, mia piccola bambina. Andiamo a metterci un cerotto su quella bua."

Lei rise, e continuò a ridere mentre lui la prendeva di nuovo in braccio e si dirigeva verso l’ufficio del dottore di turno, che in quel momento stava facendo loro cenno di entrare.

   
 
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