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Autore: Ehybastaldo_    07/09/2014    2 recensioni
"Amo la fotografia, ma non quanto te, e un giorno mi sono chiesta: perché non mischiarli, allora? E’ così ho fatto. Ho avuto paura di perderti, di farti stancare di me, di vederti allontanare e allora, nell’ansia di perderti, mi son detta: Ti scatterò una foto."
|| 3.725 parole.
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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TI SCATTERO' UNA FOTO.


 
Chiusi di colpo la porta alle mie spalle, con una tale forza che mancò davvero poco a buttarla giù. Spostai i miei piedi lungo il pavimento liscio della camera da letto e alla fine decisi di sedermi sul morbido materasso del letto matrimoniale. Il nostro letto matrimoniale.
Come aveva potuto, Luce, credere davvero che ci provassi con la cameriera? Per di più, davanti ai suoi occhi?
‘Continuavi a sorriderle incantato esattamente come  fai  quando vedi una nuova bandana che ti piace e che sai, che da lì a qualche momento, comprerai.’ aveva detto in tono sicuro, strisciando, poi, la sedia in modo rumoroso, afferrando la borsa dal pavimento e attirando l’attenzione di tutte le persone presenti al ristorante, su di noi. O almeno, su me, rimasto seduto e allibito al tavolo che avevamo prenotato per pranzare insieme, prima che lei potesse lasciarmi da solo, quel pomeriggio a casa nostra ,per svolgere il suo lavoro che ormai la impegnava da anni.
Amava la fotografia forse più di me, anche se lei si ostinava ad affermare sempre il contrario.
Litigavamo spesso, sì, ma la maggior parte delle volte era sempre a causa sua; anzi, della sua gelosia.  Una ragazza mi sorrideva? Era meglio di lei e io l’avrei lasciata a breve. Una vecchia amica che non vedevo da tempo  mi salutava calorosamente? Di sicuro era una modella dato il suo fragile corpo che, messo a confronto di Luce, era più  magro del suo, a  suo parere.
Ma non era vero! Luce era perfetta, con i suoi capelli sempre legati in un disordine che però aveva dietro tutta una storia, una vita passata in uno stupido liceo di lingue che poi non aveva avuto buon esito. Una vita all’insegna della fotografia, l’unica cosa che le importava veramente. Forse davvero più di me,  piantato davanti allo sguardo indagatore di tutta la clientela del nostro ristorante, dove la portai per il nostro primo appuntamento, tre anni prima.
Ancora aveva modo di essere gelosa di me? Sapeva che non si sarebbe liberata del sottoscritto tanto facilmente;  perché arrabbiarsi, poi, per una cosa che nemmeno esisteva?
Io non facevo altro che morire per quei suoi occhi piccoli e castani da cerbiatta, il minuto naso con la punta all’insù, quasi alla francese,  come le dicevo sempre. E poi le sue guance: bianche come la neve che diventavano leggermente rosee quando si accaldava, o a causa di qualche calorifero, o quando decidevo di metterla in imbarazzo.
Perché doveva trattarmi così?
Preso dalla rabbia mi gettai con la schiena sul letto, colpendo per errore qualcosa con il piede, sotto di me. Mi rimisi dritto con la schiena, spingendo ancora di più il piede sotto il letto, dove, evidentemente, qualcosa era stata nascosta. Mi alzai di scatto e mi piegai sulle ginocchia, alzando leggermente il piumone del letto e trovandoci sotto una scatola che mai avevo visto.
La presi accuratamente, non sapendo cosa contenesse e mi riaccomodai sul letto. La aprii curiosissimo e sorrisi al mio primo pensiero: Luce aveva il brutto vizio di chiamarmi ficcanaso e solo in quel momento i resi conto di quanta ragione avesse quella ragazza tutto pepe. Ma ero troppo arrabbiato, non potevo darle il privilegio di annebbiarmi i pensieri così facilmente e farmi sbollire la rabbia che, stavolta, aveva scatenato in me. Non si era mai comportata così nei miei confronti, e aveva anche esagerato in qualche modo, sia con alcune frasi acide indirette verso la cameriera che, ahimè, non ne poteva sapere nulla, sia con quel suo modo di lasciarmi in mezzo a tutta quella situazione. Avevo pagato il conto, infatti, ed ero subito uscito a cercarla. Ma di lei, in strada, nessuna traccia. Mancava perfino la mia auto nel parcheggio dove l’avevo lasciata poco prima, porgendole le chiavi per tenerle nella sua immensa ed infinita borsa che si portava sempre dietro.
Al rientro a casa avevo notato che mancavano le sue valigette da lavoro e mi ero arrabbiato ancor di più. Non vedevo l’ora che arrivasse quella notte solo per aver la soddisfazione di rispondere con indifferenza alle sue scuse che, di sicuro, sarebbero arrivate. Ovviamente, forse l’avrei perdonata giusto qualche secondo dopo.
Quella ragazza mi mandava solo in confusione!
Aprii il tappo della scatola e  notai strani album fotografici con diversi nomi: Io da piccola, Matrimonio zia Ally, Prime foto, Paesaggi…
Ma l’album che più mi colpì, fu quello che aveva il mio nome stampato sopra: Harry. Cosa voleva dire tutto quello?
Misi da parte la scatola con gli album che poco mi interessavano e cominciai a sfogliare le pagine di quella specie di diario fotografico.
La prima foto che notai ritraeva me che leccavo un gelato alla nocciola in modo ridicolo, mentre in qualche modo cercavo di non farlo gocciolare sui miei nuovi jeans, comprati la settimana prima. Ero seduto ad uno dei tanti  tavolini in legno del bar dietro l’angolo della mia vecchia casa insieme ai miei amici che, intanto, prendevano in giro me e il modo con cui mangiavo il mio gelato gocciolante. Ed è stato lì che Louis, amico d’infanzia e vicino di casa di sempre, mi fece notare che una strana ragazzina dai capelli scuri stava ridacchiando con la sua compagna mentre fissava l’obiettivo della sua fotocamera stretta tra le sue dita affusolate.
L’obiettivo era puntato nella mia direzione e prima che potessi dire qualcosa alla tipa, il gelato mi cadde addosso, rovinandomi anche la tela delle scarpe. Imprecai;  me lo ricordavo benissimo quel giorno, ma forse fu la cosa più intelligente mai detta. Infatti, dopo quell’affermazione piena di odio, notai un’ombra farsi sempre più vicina. I miei amici smisero di ridere all’istante del mio disastro e, come me, alzarono lo sguardo.
Forse hai bisogno di un fazzoletto.’ aveva detto, porgendomi un pacchetto di fazzoletti con la stampa dei cartoni animati. La ringraziai, appoggiando quello che ne restava del mio gelato sul tavolo. Che mi fregava? Il danno più grosso era stato già fatto.
Comunque, poi non gliela lasciai passare liscia, facendole capire che l’avevo vista mentre mi scattava una foto. La sua risposta fu imbarazzante: dietro di me c’era una bambina che stava giocando a fare le bolle di sapone e il suo obiettivo fotografico non ero io. Solo che poi le ero venuto di mezzo,  rovinandole la meraviglia che voleva nella sua collezione.
Adesso, a distanza di tre anni, avevo scoperto la verità: lei stava facendo la foto a me.
Sorrisi, spostando lo sguardo su un’altra foto che portava la didascalia ‘Forse così risulto un po’ carina.’ La foto stavolta non aveva protagonisti veri e propri, ma solo dei vestiti che io ben ricordavo: era il nostro primo appuntamento, strappato grazie a Niall quando, dopo tutte le mie paranoie del come poterla convincere ad uscire con me, visti gli infiniti messaggi che ci scambiavamo da quando mi aveva spiegato che era una fotografa in cerca di un possibile impiego e che aveva bisogno di esercitarsi in qualche modo per farsi notare e che io ne avevo approfittato per chiederle il numero, con la scusa che qualche tempo dopo mia sorella doveva laurearsi e che magari poteva interessarle una fotografa alle prime armi invece di fotografi professionisti che cercavano di spulciare i soldi in ogni modo, ancora oggi non saprei come. C’era riuscito, era questa la cosa importante.
Ricordavo il mio stato di agitazione come se fosse quel giorno stesso: la location, il vestito, l’auto di papà… Tutto doveva essere perfetto.
Ma il fato aveva altri piani per noi: diluviava, lampi e tuoni sgualcivano il cielo quasi in continuazione, lei portava i tacchi che la foto mi ricordavano essere neri; ci avevo fatto poco caso, in effetti, troppo distratto dai suoi occhi leggermente colorati da un po’ di matita verde che si abbinava perfettamente al vestitino lungo fino alle ginocchia. L’avevo portata al mio ristorante –col tempo, diventato nostro- e l’avevo fatta accomodare, spostandole dolcemente la sedia . Quasi cadde per terra e lì erano iniziate le risate, spezzando leggermente l’imbarazzo che si era creato quando era salita sull’auto e io avevo trovato difficile spiccicare qualche parola per descriverla: perfetta.  Era più che perfetta: aveva i capelli leggermente raccolti, ma la pioggia quasi glieli aveva rovinati mentre attraversava il giardino di casa sua, nascosta sotto la sua borsetta.
Avevamo ordinato e poi era stato tutto normale: ci stavamo conoscendo meglio, stavamo scoprendo cose che per telefono era meglio non dire e l’imbarazzo cominciava ad andare via, esattamente come faceva la gente arrivata una certa ora.
La dovetti riaccompagnare a casa e lei mi salutò semplicemente con un bacio sulla guancia, facendomi entrare in uno strano stato di trance che durò per non saprei quanto tempo. Poi mi risvegliai e decisi che era meglio andare a casa e dormire, pur sapendo che in quel momento la realtà era molto meglio di un sogno.
Voltai la pagina e sorrisi nel vedermi ritratto in un'altra foto: ero disteso su una panchina, un pantaloncino vergognosamente corto blu e una maglia bianca con lo scollo a ‘V’,  zuppa di sudore. Avevamo affittato due bici giusto per fare un giro del paese senza incombere nel traffico e nel caos di quell’ora. Ci inoltrammo in un parco solo quando notò il mio viso paonazzo e le mie forze mostrarsi sempre meno. Lei continuava a dire che era meno sportiva di me, ma dato il suo sorriso, che ricopriva metà foto accanto a quella dove io sembravo un morto, non si poteva dire.
Era bellissima con la sua semplice canotta color pastello e pantaloncino corto. Aveva quasi ucciso un cane, per sbaglio, voltatasi per un attimo a vedere quanto più indietro di lei mi trovassi. E ridemmo per quasi un pomeriggio intero, sotto quell’albero che ancora oggi porta i nostri nomi.
Scarico di energie, ma voglioso di far qualcosa, ricordai la mia mano che entrava nella tasca del pantaloncino e le chiavi che ne uscii subito dopo. Luce mi guardò confusa, mentre conficcavo la punta della chiave nella corteccia e iniziavo a scrivere il mio nome. Ricordai il suo fiato sul collo quando si alzò e si mise alle mie spalle, aspettando con ansia che finissi il mio capolavoro.
Profumava alla vaniglia e per qualche momento mi mancò il fiato. Poi la sentii sorridere e mi feci da parte, permettendole di ammirare il mio lavoretto imperfetto.
Harry & Luce, sembrano i nomi di due fidanzatini.’ aveva ridacchiato leggermente. Adesso eravamo al contrario: lei davanti a me che mi dava le spalle. Poi si girò: senza rendersene conto si morse il labbro inferiore e come un cretino, qual ero, mi lasciai sfuggire la cosa più imbarazzante di questo mondo: ‘Come vorrei morderti io, quel labbro.’ e lei avvampò.
Provai a trovare un modo per scusarmi, ma non ci fu il bisogno di fiatare perché, prendendo un po’ di coraggio, mi avvicinai a lei e feci alla lettera quello che le avevo appena detto.
Carpe Diem, diceva sempre Louis. E in fin dei conti non aveva tanto torto.
Per mia fortuna, il bacio fu ricambiato e quello fu il giorno più bello della mia vita. Non tanto quanto quello che mi ricordava la foto successiva: sorrisi nel vedermi con la faccia impiantata nel cuscino della mia vecchia casa, con un braccio sotto ad esso, mentre dormivo a pancia in giù. Quella sera l’avevo invitata a casa mia: i miei genitori erano fuori per lavoro e nessuno ci avrebbe disturbato.
Mentre guardavamo un film –è sempre un modo ironico per dire che ci stavamo baciando e stuzzicando come due adolescenti- la pioggia cominciò a picchiare in modo sempre più insistente sulle finestre. Diluviava. E più aspettavamo che smettesse, più acqua cadeva dal cielo.
Mamma mi aveva mandato un messaggio  spiegandomi che si sarebbero fermati in un Motel visto il disagio del tempo e di stare attento. Sapeva che ero con Luce e di sicuro intendeva di prestare attenzione durante il tragitto verso casa sua.
Potresti dormire qui, i miei non verranno stanotte.’ L’avevo detto in tono giocoso, ma la sua risposta mi sorprese molto. Aveva accettato di dormire con me, nonostante sentii le urla in disaccordo dei suoi genitori quando li chiamò per avvertirli dell’imminente problema.
Passammo dal divano al materasso del mio letto, continuando da dove eravamo rimasti. E un bacio tira l’altro, mi ritrovai tra le sue gambe, entrambi nudi, mentre i sospiri e i battiti dei nostri cuori erano l’unico rumore che accompagnavano il suono della pioggia battente.
Quello sì che fu il miglior giorno della mia vita.
Sorrisi guardando di nuovo quella foto. Pensavo si fosse addormentata subito dopo aver indossato la mia maglia in seguito alla doccia che avevamo condiviso senza vergogna. Ed invece…
Quante cose mi aveva nascosto quella terribile e deliziosa ragazza?
La mia ragazza.
Voltai altre pagine e ad ogni foto il mio sorriso si ingigantiva sempre di più. Di alcune foto ne ero al corrente; ma della stragrande maggioranza di fotografie presenti in quell’album, non ne sapevo nemmeno la provenienza. Certo che era una bravissima fotografa: neppure io, che passavo gran parte del tempo al suo fianco, mi ero mai accorto di quante ne avesse scattate, soprattutto a me.
Mi bloccai alla vista di un’altra foto interessante, con a seguito una didascalia che mi fece ridere di cuore: Missione: conoscere la famiglia Styles :S
La foto ritraeva sempre me –ironia della sorte!- e stavo cercando di fare un nodo alla cravatta che alla fine aveva vinto la sua battaglia. Luce mi era apparsa alle spalle, il suo solito sorriso candido che la rendeva raggiante e perfetta nonostante l’ansia che non l’aveva fatta dormire la notte precedente. Mi aveva aiutato col disastro che non ero riuscito a finire e poi ci aveva fatto specchiare entrambi.
Dici che andrà tutto bene?’ praticamente, si era già risposta da sola. E si era accorta dell’insulsa domanda quando mia madre, pur sapendo morte, vita e miracoli su Luce, ma che non la conosceva di persona, la strinse in un abbraccio e la fece accomodare in casa, come se fosse la sua.
La cena era andata più che una meraviglia e nel frattempo mi ero goduto le risatine di Luce, i suoi occhi leggermente strizzati quando qualcosa non le piaceva ma che, con garbo, rifiutava senza farsi notare, o quando aveva sussultato al mio tocco leggero in mezzo alle sue cosce, nel bel mezzo di un ridicolo aneddoto raccontato da mia sorella sul mio conto. Non mi interessava se qualcuno ci avesse visti, qualche ora dopo aveva potuto sgridarmi a dovere. Finendo a  letto, come sempre d’altronde.
Incrociai le gambe sul letto e continuai a guardare le altre foto con entusiasmo e pazienza: c’era quella in cui ci ritraeva mentre mangiavamo  zucchero filato, al che mi riportava la mente il giorno in cui non sapendo cosa fare, la portai alla casa dell’horror. Quasi pianse dalla gioia quando stavamo per uscire da quell’incubo: per lei che faceva paura, per me che quasi diventavo sordo a causa delle sue urla disperate. Poi c’erano quelle di quando andammo allo zoo e una stupida giraffa si era cibata con uno dei miei cappelli. Così ero passato alle bandane e anche di quelle c’erano un sacco di foto: al lago in costume,  in auto, sul divano a fare gli scemi, a casa sua nel giardino…
E poi ce n’era una che quasi dimenticavo: eravamo al parco giochi che avevano allestito per una festa del paese. Stavolta avevo preferito evitare case dell’horror e simili ed ero andato più leggero: niente montagne russe o giochi pericolosi, solo pistole e palline per vincere stupidi peluches o pesci rossi.
Ne vinsi due, quel giorno, e poi alla fine portai a casa uno stupido anellino finto con tanto di pietra brillante. Eravamo a piedi sulla strada del ritorno e, dopo pochi metri, ci ritrovammo davanti alla Chiesa del paese tutta illuminata. Le porte erano aperte e qualcuno stava pregando in silenzio al suo interno.
Luce si era fermata per un attimo e aveva già cominciato a frugare nella sua borsetta per recuperare la macchina fotografica per immortalare un pezzo della sua vita ancora una volta. Un flash illuminò tutt’intorno a noi.
E’ bellissimo qui. Credo che sarà proprio questa la Chiesa dove io mi sposerò.’
Non aveva usato un noi e quasi pateticamente mi lamentai in tono sonoro. Lei mi guardò sorpresa e sorrise: ‘Che c’è?’ mi chiese confusa. E feci quello che meno mi aspettassi da me stesso: infilai la mano nella tasca dei jeans e recuperai quello stupido anellino finto; piegai una delle mie ginocchia e afferrai la sua  mano sinistra.
La gente che passeggiava vicino noi esitò per qualche secondo prima di fermarsi a vedere cosa stesse per fare un cretino.
Luce Rudd, mi vuoi sposare?’ dissi.
Luce si guardò in giro confusa, poi abbassò lo sguardo sull’anellino finto che stringevo tra il pollice e l’indice. L’altra mano ancora intenta a stringere la sua.
Urlò leggermente di gioia e mi aiutò ad alzarmi dal marciapiede per gettarsi con le braccia al mio collo.
Sì, sì e ancora sì!’ urlò e la gente intorno a noi cominciò a battere le mani. Qualcuno fischiò, addirittura.
Quello era un altro giorno da aggiungere alla lista dei migliori. Decisamente.
Ovviamente, poi non ci eravamo sposati per davvero. Ma vedere la foto della sua mano che indossava quell’anello finto, seguito dalla didascalia A quando?, mi fece capire che stavo facendo l’errore più grosso del mondo. Io amavo quella ragazza, come potevo solamente pensare di affrontarla con indifferenza una volta superato il ciglio della porta?
Scattai come una molla dal letto, buttando a terra l’album con tutte le nostre foto. Lanciai una veloce occhiata all’orologio appeso alla parete del salotto prima di afferrare le chiavi dall’entrata: avevo poco tempo prima del rientro di Luce e ancora non sapevo nemmeno dove andare per trovare un anello perfetto.
 
 
Quasi un’ora dopo rientrai a casa con la testa che scoppiava. Niente, non avevo trovato un anellino decente alle uniche due gioiellerie del paese.
Aprendo la porta d’ingresso, notai le luci della cucina accese.
“Harry, sei tu?”
Sentire la sua voce era meglio del rientro a casa dopo una giornata stressante di lavoro.
“Sì.” Sentii i suoi passi affrettarsi nella mia direzione, mentre gettavo le chiavi nel cestino all’entrata e adagiavo la busta di carta sul pavimento vicino la porta.
Indossava ancora l’abito lungo nero che aveva deciso di indossare per andare a quel matrimonio per le foto, mentre ai piedi non aveva nulla, sembrando molto più bassa del solito.
“Ho visto tutto quel casino in camera da letto. Io… Mi dispiace.” soffiò abbassando lo sguardo sul pavimento.
Sapevo si sarebbe sentita in colpa; ma io non ero da meno. Allargai le braccia e la strinsi al mio petto, cominciandole a dire quanto l’amassi e quanto mi fosse mancata quel pomeriggio.
Mi baciò un paio di volte e lentamente mi trasportò verso il divano della cucina, dove ci buttammo entrambi di peso, io su di lei.
“Che ti succede? Pensavo fossi arrabbiato con me, sai… Per oggi, al ristorante.” disse. Abbassò il suo sguardo sul mio collo e cominciò a giocherellare col ciondolo della mia collana che pendeva tra di noi.
“Tranquilla. Mi è passato tutto.” mormorai tranquillo. Alzò lo sguardo.
“E poi ho visto tutti gli album buttati per terra e ho pensato…”
“Gli album!” mi alzai di colpo e mi accomodai al suo fianco, aiutandola a sedersi al mio fianco.
“Cosa?”
“Scusami. Ero arrabbiato,  però poi ho trovato le tue foto, ho cominciato a rovistare tra di esse e ho capito una cosa.” sorrisi a trentadue denti.
“Sembro ripetitiva se ti chiedo cosa. Quindi, dimmi.” sorrise anche lei.
“Che ti voglio sposare.” mi alzai dal divano e cominciai a camminare avanti e indietro per la stanza, nervoso. “Sono andato in gioielleria, ma la commessa mi ha talmente confuso le idee che non sono nemmeno riuscito a scegliere un anello decente per la donna che amo.” Sputai il rospo.
“Un anello? Uno vero? Io ancora conservo quello del parco giochi.” Il suo tono si fece più piccolo sulla seconda parte, portandomi a ridacchiare. Mi inginocchiai davanti a lei, ancora seduta sul divano.
“Ho visto la foto di quell’anello…”
“Oddio, che vergogna.” Si portò entrambe le mani sul viso, nascondendosi dietro di esse. Ma glieli tolsi immediatamente, mostrandomi col miglior sorriso di sempre.
“Perché non mi hai mai detto di quell’album? E’ una cosa meravigliosa!”
Sembrò cadere dalle nuvole e passarono numerosi secondi prima che parlasse di nuovo, stavolta meno imbarazzata e più decisa.
“Amo la fotografia, ma non quanto te, e un giorno mi sono chiesta: perché non mischiarli, allora? E’ così ho fatto. Ho avuto paura di perderti, di farti stancare di me, di vederti allontanare e allora, nell’ansia di perderti, mi son detta: Ti scatterò una foto. E’ così ho fatto, raccogliendo quello che sembra essere il nostro album fotografico di vita. La mia, la tua, la nostra insieme.”
Sorrisi e mi allungai a baciarle il naso, poi il mento, la fronte, le orecchie, gli occhi fino ad ubriacarmi del suono della sua risata che riempì, in pochissimi secondi, la nostra cucina.
“Sai…” mi bloccai per un istante, facendola incuriosire. “E’ vero, ho provato a comprarti un anello, ma non ne sono stato capace. Quello, magari, potremmo farlo insieme, se ti va.” sparlai, nervoso.
“Harry!” Luce mi afferrò il viso con le sue mani e mi ipnotizzò con i suoi occhi. Bellissimi: erano pieni di luce ed emozione. “Continua.” mi riportò alla realtà.
“Aspettami qui.” Mi alzai e andai a prendere la busta che poco prima avevo posato vicino la porta d’ingresso. Al mio rientro in cucina si era sistemata i capelli che le avevo leggermente arruffato giocando e stava salendo entrambi i piedi sul divano.
“Tieni, questo è per te. Non sarà all’altezza di un anello, vero, ma spero ti piaccia.”
Mi accomodai al suo fianco e la carta da regalo fu strappata in tanti pezzi, tanta era l’emozione.
“Tu sei pazzo!” Luce si buttò con le braccia al mio collo, quasi soffocandomi dalla felicità. Poi si ricompose, osservando meglio la sua nuova macchinetta fotografica.
“Spero che tu la userai, qualche volta.” le baciai una guancia. Sembrava una bambina alle prese con un regalo di Natale.
“Oh, puoi contarci. E credimi, questo regalo è migliore di qualunque altro, perfino di un anello. Vero.” stavolta, quella a riempirmi di baci su tutto il viso, fu lei, mentre io ridevo sommessamente e soprattutto felice.


 
  
 


EHILA'
Salve, era da tanto che non mettevo qualcosa
e poi, l'altro giorno, finalmente l'ispirazione (:
Non so che dire, se non che mi piacerebbe
sapere se questa... cosa vi sia piaciuta o meno lol

Vorrei ringraziare di cuore Margherita, sempre disponibile
per farmi i banner ( e sopportarmi, soprattutto ahah) e Simona
che mi ha gentilmente betato la storia e sopportato 
anche lei. Davvero, grazie :3


E beh... Alla prossima (:

 
   
 
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