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Autore: ross1993    08/09/2014    0 recensioni
Non avevo idea di cosa stavo facendo. Non avevo idea di dove stavo andando. Non avevo idea del perché stavo scappando. Sapevo solo che avevo urlato. Sapevo che stavo piangendo, sentivo le lacrime calde scendermi lungo le guance. Sapevo che avevo perso sangue, lo sentivo rapprendersi sulle mani, ma non avevo il coraggio di toglierle dal volante. Sentivo il motore surriscaldarsi, le ruote scivolare sull'asfalto bagnato. Ricordo di aver visto un camion, di averlo visto troppo tardi. Ricordo di aver spinto il volante verso destra con tutta la forza che avevo. [...] Ricordo di aver premuto l'acceleratore ancora di più. E poi non ricordo più niente.
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Avevo bisogno di sentire che per una volta non era colpa mia, non tutta almeno, che se un ragazzo che non avevo mai visto in vita mia aveva così bisogno del mio perdono, allora dandoglielo potevamo sentirci meglio tutti e due.
Mi guardava negli occhi e stava per piangere, o forse no, forse avevo bisogno che piangesse perché io stavo piangendo.
- ti perdono- sussurrai con la voce impastata dalle lacrime, e gli si illuminò il volto, come un bambino.
- mi chiamo Harry -
- io sono Nala -
- come nel re leone? -
- come nel re leone -
Genere: Drammatico, Erotico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Liam Payne, Louis Tomlinson, Zayn Malik
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non avevo idea di cosa stavo facendo. Non avevo idea di dove stavo andando. Non avevo idea del perché stavo scappando. Sapevo solo che avevo urlato. Avevo lanciato qualcosa. Sapevo che stavo piangendo, sentivo le lacrime calde scendermi lungo le guance. Sapevo che avevo perso sangue, lo sentivo rapprendersi sulle mani, ma non avevo il coraggio di toglierle dal volante. Sapevo che pioveva e io andavo troppo forte. Sapevo che stavo infrangendo almeno una ventina delle regole della strada. Il contachilometri continuava ad aumentare. Sentivo il motore surriscaldarsi, le ruote scivolare sull'asfalto bagnato. Ricordo di aver visto un camion, di averlo visto troppo tardi. Ricordo di aver spinto il volante verso destra con tutta la forza che avevo. Ricordo di averlo deviato, e poi ricordo una macchina nera che mi veniva addosso. Ricordo di aver pensato che era meglio così, che forse dio, se dio esisteva, si era finalmente reso conto che avevo sofferto abbastanza. Ricordo che mi ero sentita sollevata, quasi felice. Ricordo di aver pensato che così non avrei dovuto neanche sprecarmi per farlo da sola. Morire dico. Ricordo di aver premuto l'acceleratore ancora di più. E poi non ricordo più niente.

 

 


Era una giornata orribile. Non avrei dovuto assolutamente mettermi in macchina con un tempo del genere. Inoltre per dare un fottutissimo esame in facoltà. Il telefono continuava a vibrare, ero in ritardo e Louis aveva paura che non sarei venuto neanche quella volta, ci avrei giurato. Ma questa volta ero pronto, avevo dimenticato cosa fosse la luce del sole per due settimane per preparami a questo esame ed ero in un ritardo tragico e stavo correndo troppo.
E poi arrivò come un lampo, tempestiva ma al tempo stesso fugace, non feci neanche tempo ad inchiodare, ci scontrammo. La macchina bianca e rossa si levò in aria e atterrò con un tonfo sordo, fu tutto troppo veloce, troppo rumoroso, troppo spaventoso. L'impatto era stato incredibile, io andavo veloce ma lei sembrava proprio non avermi visto, aveva accelerato verso di me, come se non si fosse accorta della mia presenza. Ma forse non era vero, forse ero già morto e mi ero immaginato tutto anche che la persona che guidava era una ragazza.

L'ambulanza arrivò una ventina di minuti dopo lo scontro, probabilmente chiamata dal camionista che si era fermato di fianco a noi. Avevo sbattuto la testa contro il volante prima che si aprisse l'airbag. Avevo perso sangue, lo sentivo sulla faccia, e lo percepivo impregnato nei miei ricci. Il parabrezza era completamente infranto e sentivo la pioggia bagnarmi i vestiti. Avevo tenuto gli occhi chiusi per tutto il tempo e ancora non li avevo aperti, ma ero vivo. Non riuscii tuttavia ad esserne sollevato perché dal buco del parabrezza infranto, davanti a me, appena aprii gli occhi vidi la Fiat rovesciata sulla superstrada. Cercai di slacciarmi la cintura ma era incastrata.
- non si muova, i miei colleghi si stanno occupando della ragazza nell'altra macchina, adesso la faccio uscire e la porto sull'ambulanza – una donna alta, con la carnagione chiara mi parlava dal finestrino. Aveva una divisa da paramedico e uno sguardo gentile e controllato, ma il suo tono di voce tradiva una certa ansia, che davvero non avrei voluto percepire.
- la cintura... credo sia... non riesco a... - non mi ero accorto di questo rumore, sentivo solo quello e non riuscivo a parlare, il mio cuore battere a una velocità sovrumana, non riuscivo a sentire neanche le mie parole ma dubito davvero avessero senso.
- ci pensiamo noi, lei non si deve muovere, potrebbe avere emorragie interne, mantenga la calma -
avrei voluto chiederle come, come facevo a stare calmo, come potevo stare fermo. Non lo feci, non riuscivo neanche a parlare, figuriamoci a formulare una domanda di senso compiuto. Mi duede una leggera pacca sulla spalla e apii la portiera.
Mi sganciò la cintura e mi prese sottobraccio aiutata da un uomo che nel frattempo l'aveva raggiunta.
Mi caricarono su una barella e mi portarono sull'ambulanza. Poi tutto diventò bianco e ricordo di aver pensato che forse avevo gridato vittoria troppo presto. Stavo morendo e mi mancava solo un'esame per la laurea. Che cosa stupida da pensare prima di morire.

 


12 ore dopo

- come si sente? - un dottore sulla quarantina stava in piedi nella camera d'ospedale, aveva una cartella in mano e ci stava annotando qualcosa con una penna che aveva preso dalla tasca del suo camice bianco.
- per quanto tempo sono stato svenuto? - quasi mi sorpresi di riuscire di nuovo a parlare.
- hai dormito per 12 ore più o meno, fortunatamente non ci sono emorragie interne e gli organi sono tutti salvi, hai subito un leggero trauma cranico e hai perso una considerevole quantità di sangue, ti abbiamo fatto una trasfusione, sei uscito dalla sala operatoria quattro ore fa – mi guardò negli occhi solo dopo aver finito la frase, forse aspettando una risposta.
- ho bisogno dei tuoi dati, compila questo foglio e lascialo sul comodino, poi riposati, è stato un brutto incidente – disse poi in mancanza di una mia risposta.
- lei come sta? - chiesi prendendo il foglio che mi sta porgendo – la ragazza sull'altra macchina? -
- è in sala operatoria da sei ore, ha subito gravi lesione interne, ma la situazione non è ancora così drastica, è in ottime mani – mi rispose quasi come se se lo fosse imparato a memroria, come un copione d recitare per calmare il povero ragazzo apprensivo. Non sapevo se avere paura, non sapevo cosa dovevo provare ma mi sentivo triste, infinitamente triste, e in colpa per quello che era successo.
- la conosci, per caso ? - aveva ancora gli occhi fissi sulla cartella.
- no... io non so chi sia... non l'ho neanche vista bene in faccia... mi dispiace -
annuii velocemente e mi fece segno di sdraiarmi, consigliandomi di riposare.

 

 

Ero seduta sul terrazzo, il sole brillava e quando incontrava l'argento del miei bracciali mandava dei piccoli lampi di luce, il vento spostava leggermente le fronde della magnolia, e il lago risplendeva come uno specchio infinito, che si estende ad oltranza per tutta la superficie della terra, o almeno così mi sembrava. La sigaretta che giaceva senza vita nel posacenere non era stata spenta bene e mandava ancora un leggero filo di fumo, come uno sbuffo. I tulipani che avevo piantato l'anno precedente erano cresciuti e sembrava non dovessero appassire mai, ma come tutte le cose sarebbero morti pure loro, si sarebbero spenti come si spegne la vita di qualcuno, come forse si stava spegnendo la mia, o forse come aveva già fatto. Forse ero in paradiso. Era possibile, avevo sempre pensato a quella casa sul lago come il posto migliore sulla terra, il mio paradiso personale.
Niente angeli però, niente nuvole bianche o alti signori con la tunica e la barba lunga, solo il lago, il sole e il fumo della mia sigaretta.
Una lacrima scendeva sula mia guancia, seguiva un percorso che sembrava stato fissato molto tempo prima, mi sfiora la bocca ma non sento salato o bagnato, sto piangendo acqua dolce, l'acqua del lago, del mio lago, nel mio paradiso e mi sembra cosi reale.
Poi è come se tutta l'acqua del lago si riversasse nei miei occhi e nel mio corpo e mi sento viva, solo per un secondo mi sento viva.
E poi sento che sto affogando l'acqua mi arriva alla gola e nessuno vuole salvarmi, perché sono una stella, sono solo una stella che non merita di essere salvata perché ha smesso di brillare tanto tempo fa, sto morendo e nessuno mi vede, e nessuno mi salva.
Ma non mi importa, non mi importa di chi guarda, mi lascio cadere nell'acqua e mi lascio affondare perché è così che deve finire, se doveva finire doveva finire qua, in questo luogo magico.
E mi lascio cadere, l'acqua mi scivola addosso e poi vengo tirata fuori di peso con una forza che quasi mi manca il respiro, non voglio, non voglio essere salvata. E sono così egocentrica e testarda ma non voglio che mi tirino fuori dall'acqua ma ora sono asciutta e non c'è niente che io possa fare ora il lago sembra così lontano. E io mi sento morire, molto di più di quando stavo affogando.

 

 

L'effetto dell'anestesia era svanito, era svanito il lago, l'acqua, era svanito il paradiso, e adesso ero all'inferno.
La camera sapeva irrimediabilmente di disinfettante, i muri bianchi e verdi sembravano restringersi sempre di più. Mi svegliai intorpidita e dolorante, sentivo la pelle della pancia tirare, sentivo la cicatrice senza bisogno di vederla. Girai la testa per guardare fuori dalla finestra, il cuscino era sporco di sangue, mi portai una mano alla testa e sentii una stretta fasciatura che mi premeva le meningi, doveva essere piena di sangue.
Chiusi gli occhi e mi concentrai sul dolore che sentivo, la testa pompava sangue come se volesse finirlo tutto, e anche il sottile rumore delle gocce che cadevano nella flebo mi perforava le orecchie, e quando si aprii la porta dovetti chiudere gli occhi e cercare di isolare il rumore, mentre il più lentamente possibile rigiravo la testa dall'altra parte.
- ciao – il ragazzo che mi stava parlando era in piedi, aveva addosso una camicia da notte molto simile alla mia, come lo era la flebo che dal suo braccio andava verso una piccola asta che si trascinava dietro. Aveva gli occhi più belli che avessi mai visto, erano verdi, ma dentro c'erano tutti i colori del mondo.
 Mi guardava più o meno come si guarda un cagnolino abbandonato sulla strada e con una zampa rotta. Ma io di rotto avevo molto di più. Continuava a fissarmi, con una pietà negli occhi che a me sembrava solo un vago ricordo, era un sacco di tempo che qualcuno non provava pietà per me.
- scusa, se sei stanca passo più tardi – disse quasi accorgendosi solo allora del suo sguardo, ad ogni piccolo movimento della testa un riccio ribelle gli si posava sulla fronte, e lui lo rispediva indietro con un movimento goffo della mano sinistra.
Scossi brevemente la testa, e provai a sorridere, cosa che evidentemente mi riuscì molto male, visto che un sorriso divertito si posò sulle sue labbra rosso ciliegia. Ma il sorriso gli si spezzo quasi subito mentre con voce tremante, ma convinta mi diceva - avrei dovuto andare più piano, ti avrei vista, ti avrei evitata, mi dispiace, perdonami-  era il ragazzo sulla panda nera. Non che non  lo sospettassi già da quando era entrato ma fu come un pugno allo stomaco. Nessuno si era mai preso la colpa di qualcosa per me. Ero io quella che andava a duecento allora sulla superstrada e lui si stava prendendo la colpa. Ci avevo quasi uccisi, lo avevo quasi ucciso e lui era in piedi davanti a me a chiedere il mio perdono, ma la cosa che più mi sorprese era che sembrava averne bisogno. E avrei voluto dirgli che non era colpa sua, che non c'era niente da perdonare ma fui così egoista, così ingrata, e forse quel giorno mi comportai per la prima volta da vera opportunista, ma anche io ne avevo bisogno. Avevo bisogno di sentire che per una volta non era colpa mia, non tutta almeno, che se un ragazzo che non avevo mai visto in vita mia aveva così bisogno del mio perdono, allora dandoglielo potevamo sentirci meglio tutti e due.
Mi guardava negli occhi e stava per piangere, o forse no, forse avevo bisogno che piangesse perché io stavo piangendo.
- ti perdono- sussurrai con la voce impastata dalle lacrime, e gli si illuminò il volto, come un bambino.
- mi chiamo Harry -
- io sono Nala -
- come nel re leone? -
- come nel re leone -

   
 
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