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Autore: Nuel    08/09/2014    5 recensioni
Un sentimento indesiderato e segreto tormenta l’ambizioso Salazar Serpeverde; un amore per cui costruisce un’alcova che è anche una tomba perché per cedere a quell’amore dovrebbe rinunciare alla propria ambizione, ma un amore che soggiace al compromesso è destinato a finire.
♣ Questa fanfiction si è classificata prima al contest "Di Amortentia, schegge di vetro e veleni - I edizione" indetto da MaryScrivistorie sul forum di EFP
♣ Questa fanfiction si è classificata seconda al contest "Flash your slash!" indetto da Rondini sul forum di EFP.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Serpeverde
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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 Sed fieri sentio

 
 
Passi svelti e pesanti rimbombavano lungo il corridoio completamente vuoto. Il suono s’inerpicava lungo le severe pareti di pietra come un serpente che s’attorciglia fino alle torri più alte per sfidare il cielo.
    Quel cielo che, in quel pomeriggio inoltrato di fine maggio, era scuro e minaccioso di nubi gravide di pioggia; raffiche di vento sferzavano senza posa le torri, insinuandosi nelle finestre aperte, ululando sinistre e spazzando le stanze sgombre di mobilio. Entro sera sarebbe scoppiato un temporale, ma molto prima di sera, Salazar avrebbe avvelenato quello sciocco di Godric e rimesso le cose a posto.
    C’erano momenti in cui la pazienza opportunista di Serpeverde crollava sotto l’assalto della stupidità di Grifondoro e lo sapeva Merlino se Grifondoro non era un completo idiota! Aveva solo la spiccata tendenza a diventarlo, quando quelle due insulse femmine gli ronzavano attorno!
    Tutto si era complicato da quando Tosca Tassorosso e Priscilla Corvonero si erano unite a loro; certo bisognava ammettere che Priscilla li aveva aiutati a trovare il punto migliore in cui erigere il castello e Tosca aveva dato asilo a quegli utili quanto stupidi elfi domestici, ma a quel punto avrebbero fatto bene a ricordare di essere solo streghe e che, pertanto, avrebbero dovuto dedicarsi al ricamo e non a riempire la testa di quel sempliciotto di Godric di idee rivoluzionarie.
    Prima le femmine e, a ben guardare, non c’era ragione di negare un briciolo d’istruzione alle figlie dei maghi; ora i Babbani con qualche vago sentore di capacità magica. Andando avanti così, prima o poi, sarebbe arrivato qualcuno con la pretesa che si pagassero gli elfi domestici!
    Quando giunse alla porta della stanza di Godric, Salazar non perse tempo a bussare; la aprì con una spinta decisa e, prima ancora di aver posato gli occhi sull’altro, attaccò con voce profonda e gutturale: « Non questa volta, Godric! Non ti permetterò di appoggiare le idee insensate di due femmine senza... ». 
La stanza, però, era vuota e Salazar rinunciò al suono della propria voce, convenendo con se stesso che parlare senza un uditorio non fosse poi così appagante. 
    Si guardò attorno cercando l’altro mago come se si aspettasse di scoprirlo invisibile o trasfigurato in qualcosa, ma la stanza era vuota per davvero, così, cogliendo l’inattesa occasione, lasciò casualmente scivolare un passo in avanti, infilandosi nella camera, tanto semplice e frugale da risultare fastidiosa.
    Uno scuro di legno sbatacchiò, colpito dall’ennesima raffica di vento, l’aria odorava di pioggia e trasportava l’eco di voci lontane infastidendo Salazar, l’espressione vagamente disgustata, finché lo sguardo non si posò sulla spada d’argento poggiata accanto al letto. Squisita manifattura dei folletti ed una piccola fortuna in rubini ad impreziosire l’elsa, la spada pendeva, di solito, al fianco del mago, ma non questa volta e Salazar si prese il tempo di ammirarla come non avrebbe fatto alla presenza del suo proprietario.
    Un brivido gli percorse la schiena e senza ragione si portò una mano alla gola: un brutto presentimento lo colse guardando il freddo metallo che sembrava destinato a sfuggire al trascorrere del tempo. 
    Lo sbatacchiare dello scuro lo distolse dai propri pensieri riportando la sua attenzione alla finestra: da lì si vedevano la valle sottostante ed il lago e quasi trattenne il fiato nello scorgere, sulla riva, Godric giocare con la figlia di Priscilla.
Non poteva che essere lei: non c’erano altri mocciosi al castello. Ci sarebbero stati presto, certo, ma di sicuro non per giocare!
    Merlino, cosa passava per la testa di quell’uomo! 
    Una rabbia sorda si stava accumulando dentro di lui perché aveva pensato che Godric condividesse i suoi stessi disegni e, invece, lo stava scoprendo di indole flemmatica, al di là di quella sua appariscente spada. Strinse le dita nel pugno e lo picchio contro la pietra dello stipite, tanto non c’era nessuno, lì, che avrebbe potuto testimoniare la sua momentanea perdita di controllo. Sospirò a fondo e lasciò la stanza, ripercorrendo il corridoio e scendendo l’ampia scalinata che conduceva all’ingresso. 
    Un lampo lacerò il cielo, seguito quasi subito da un tuono che sembrava anticipare la fine del mondo; pareva, quasi, che la terra dovesse squarciarsi ed inghiottire il castello. La pioggia aveva cominciato a cadere, fitta e gelida, come a ricordare che l’inverno non se ne era mai veramente andato, ma si era solo spostato un po’ più a nord.
    Tra strilli eccitati e risate, lo scalpiccio di stivali bagnati sul pavimento di pietra precedette l’ingresso di Gofric e di Helena, fradici come pulcini ed infreddoliti, ma ancora col sorriso sulle labbra. 
    Salazar li osservò torvo, dalla sommità della prima rampa di scale, battendo rapidamente le mani per richiamare gli elfi domestici: « Presto! Due teli, prima che si ammalino! » la sua voce echeggiò come all’interno di una caverna e, ovunque fossero, gli elfi domestici dovettero averlo sentito perché, pochi istanti dopo, l’usuale “pop” della materializzazione accompagnò l’arrivo di due cosini piccoli e scheletrici, dalle grandi orecchie flosce, sommariamente vestiti con sacchi di juta, che tesero i teli ai due incauti perdigiorno. 
    Godric accettò con gratitudine, iniziando ad asciugarsi, mentre la bambina continuava a ridere e strillare tra le braccia dell’elfo che cercava di occuparsi di lei.
    Il sorriso aperto sul volto di Grifondoro provocò un travaso di bile in Serpeverde, che, senza perdere altro tempo, scese gli ultimi gradini, piazzandoglisi di fronte. 
« Ti stavo cercando, Godric. Seguimi: dobbiamo parlare » e si incamminò verso la grande sala che avevano adibito a refettorio. In principio sarebbe stata quasi vuota, ma, col passare degli anni, si sarebbe riempita delle nuove generazioni dei maghi d’Inghilterra.
    Grifondoro, strofinandosi i capelli, lo segui, con gli stivali che sembravano gracidare come rane ad ogni passo, lasciando dietro di sé impronte fangose e gocce sparpagliate.
« Di cosa dobbiamo parlare? » gli chiese con tono meno gioviale del solito, sollevando il volto a guardare il soffitto che si smarriva nel cielo, forse già presagendo il motivo del malumore dell’altro.
    Salazar sbuffo. « Gradirei mi guardassi, mentre ti parlo! » protestò piccato.
Attese che Godric lo accontentasse e riprese: « Credo sia giunto il momento che tu ed io poniamo un freno alle bizzarrie di quelle due streghe! »
    « A cosa ti riferisci? » chiese Godric, iniziando a strofinarsi gli abiti. Ai suoi piedi si stava formando una piccola pozza d’acqua.
    « Ai figli dei Babbani! Passi di istruire le streghe, ma i nati Babbani! È inconce... »
    « È stata un’idea mia » lo interruppe Grifondoro, sorridendogli.
    « … pibile » Salazar lo guardò con gli occhi neri come il cielo sulle loro teste e percorsi da altrettanti lampi d’ira. « Stai mentendo! » abbaiò contro il compagno.
    « No » replicò Grifondoro, smettendo di asciugarsi e facendo un paio di passi verso Serpeverde, per potergli poggiare una mano umida e fredda sulla spalla. « Insegneremo ai figli dei Babbani. La magia è un dono, Salazar, non possiamo permettere che la sprechino ».
    Grifondoro era più alto di lui di una buona spanna, con la faccia larga e la mascella squadrata, le labbra piene esprimevano determinazione, gli occhi limpidi e determinati, tanto che Serpeverde arretrò di un passo, sottraendosi al suo tocco, preda di uno strano disagio, mentre accarezzava nuovamente l’idea di avvelenarlo. 
« Non era questo che avevamo deciso! » sbottò sentendosi tradito. 
    « Non è quello che tu avevi deciso! » precisò Grifondoro. « Siamo solo dei frammenti, in questo castello di vetro, Salazar! » levò la mano ad indicare il soffitto magicamente invisibile, come un cristallo purissimo attraverso cui osservare la volta celeste. « Non siamo più di sabbia in riva al mare, ma abbiamo la possibilità di costruire qualcosa di grande, di mettere le basi per qualcosa che durerà nel tempo, che unirà tutti i maghi d’Inghilterra! Senza più lotte, senza più disuguaglianze! »
    « Ti illudi! Ammettere i figli dei Babbani non farà che indebolirci! Annacquerà il nostro sangue! »
    « O lo renderà più forte! »
    « Vaneggi! »
    Grifondoro sospirò. « Sono stanco di combattere le guerre dei Babbani, Salazar. Voglio dedicarmi alla magia e questa è la strada giusta: la magia porrà fine alle lotte e, comunque, Tosca e Priscilla sono d’accordo con me ».
    « Ah! » sbottò Serpeverde. « Volevo ben dire che quelle due... »
    « Basta così, Salazar! » sbottò Grifondoro, facendo strabuzzare gli occhi a Serpeverde.
    « Come osi rivolgerti a me in questo modo?! » sibilò Serpeverde, non più solo ferito dal tradimento, ma anche offeso dall’umiliazione che Grifondoro gli stava infliggendo.
    Forse, Grifondoro lo capì perché scrollò il capo scurito dalla pioggia e gli porse la mano, il palmo vuoto rivolto verso l’alto, in un gesto di pace.
« Proviamo, Salazar! Cos’abbiamo da perdere? »
    Serpeverde contenne il proprio disgusto nel guardare la mano tesa. Avrebbe voluto rispondergli che avevano tutto da perdere: la loro identità, la loro magia, che i Babbani erano troppo rozzi e primitivi e prima o poi avrebbero bramato il potere e, non potendolo avere, avrebbero cacciato e sterminato coloro che lo possedevano.
    Vedeva lontano, Serpeverde e raramente si era sbagliato: conosceva l’indole degli uomini, i loro più bassi istinti, perché anche lui ne era preda. Amava il potere e sapeva di doversi guardare da chi non lo possedeva, dagli invidiosi e dagli adulatori e lentamente accolse nella propria la mano di Godric perché, a ben guardare, Godric era un mago potente e lui desiderava il suo potere ed era uno sciocco che confondeva l’adulazione con l’affetto.
    « Osserverò questo vostro strampalato esperimento, Godric, ma non prenderò nati Babbani tra i miei allievi » gli rispose con voce placata e Grifondoro sorrise di rimando.
    « Per ora mi dico soddisfatto, Salazar ».
    La soddisfazione di Grifondoro era destinata ad aumentare perché, tanto più in alto si sale, tanto più ci si fa male, quando si cade e Salazar lo sapeva, mentre lo osservava lasciare il refettorio e lo rammentò a se stesso ogni giorno, per molti anni a seguire.
    Le stagioni si susseguirono e gli allievi aumentarono e Salazar si compiacque per ogni successo conseguito da Godric nel tirare fuori vetro dalla sabbia, mentre lui lucidava i suoi diamanti, maghi figli di maghi, figli di altri maghi... nell’attesa che quei vetri Babbani si mostrassero per quello che erano: privi di valore. 
    Dapprima gli era facile dimenticare la loro presenza: erano pochi ed insignificanti e non perdeva tempo a memorizzare i loro nomi. Provava, però, un discreto piacere nel vedere la soddisfazione di Grifondoro ogni volta che un ragazzino privo di talento riusciva ad eseguire un banale incanto. Forse era quel senso d’orgoglio frammisto ad affetto tipico dei maestri o forse era una sorta di rispetto per Grifondoro e per la sua tenacia. Lui stesso non avrebbe saputo dire quando fosse nato, ma lo sentiva crescere dentro di sé.
    Ogni qual volta il sentimento veniva a galla, però, Serpeverde si recava al lago, immaginando di annegarci la piccola Helena impressa nei suoi ricordi: fradicia di pioggia e schiamazzante, capricciosa, infida femmina degna della propria madre saccente e fastidiosa. Il ricordo di Godric che giocava con la bambina, sulla riva del lago riusciva a strangolare il virgulto di quel sentimento inopportuno, permettendogli di concentrarsi su altre faccende, ben più importanti.
    La vista del lago lo aiutava a riflettere, ora che non poteva più confrontarsi con Grifondoro: Godric non capiva, reso ottuso dal buonismo che agiva sulla sua mente come una Pastoia; il lago, invece, era un buco nero capace di assorbire i suoi pensieri e rendergli la luce e Salazar sapeva che qualunque sciocco poteva levare gli occhi al cielo e trovarvi ciò che voleva, ma ben pochi comprendevano le profondità degli abissi. 
    C’era quiete, sul fondo del lago, per questo aveva scelto, per il dormitorio dei propri allievi, quella vista che induceva alla meditazione, alla concentrazione sui propri obiettivi, senza smaniare in fantasticherie.
Porsi un obiettivo e pianificare per raggiungerlo era la via per impadronirsi del potere e questo lui insegnava, assieme alla magia: ad ambire al potere; quindi Salazar si imponeva di tenere gli occhi sul lago, senza osservare il cielo, conscio, anno dopo anno, di quello che stava costruendo, lontano dagli sguardi degli altri fondatori, prima nella sua mente e poi nelle viscere di Hogwarts: una camera segreta.
    Si era fatta strada, in lui, una debolezza in maschera.
In realtà, Serpeverde aveva compreso di cosa si trattava, ma lo negava anche a se stesso mentre costruiva la stanza segreta, il simulacro di quello che sentiva crescere dentro di sé, uno scrigno per il proprio cuore.
Chiunque vi fosse entrato avrebbe compreso il vero potere della magia e si sarebbe sentito piccolo e muto, ma nessuno sarebbe entrato, a parte lui stesso e quel luogo segreto sarebbe rimasto sepolto come le cose mai nate, Hogwarts come avrebbe potuto essere. 
Perché la verità, ormai lo sapeva, era che non c’era posto per lui al castello e non c’era posto, in lui, per quello che sentiva per Godric: annullarsi per qualcun altro non faceva per lui.
    Così sorrideva verso la superficie scura del lago che nascondeva il suo segreto: ci sarebbe sempre stato qualcosa di suo, a Hogwarts, profondo come le sue fondamenta. Qualcosa che nessuno avrebbe potuto sradicare, qualcosa che solo il suo vero erede avrebbe potuto scoprire.
    Salazar si imponeva di tenere gli occhi sul lago, senza osservare il cielo, ma la superficie del lago quel cielo lo rifletteva ed un giorno di maggio, riflesse la figura di Grifondoro, accanto a lui.
« Vado via » gli disse, allora, senza che la sua voce tradisse alcun ché.
    « Dove? » chiese Godric colto di sorpresa.
    Serpeverde sospirò. « Non lo so ancora ».
    « Quanto starai via? » chiese l’altro, senza capire e, per qualche momento, Serpeverde non rispose, sorpreso dal tono dell’altro. Poi le sue labbra si distesero in un sorriso raro che quasi mai era sincero.
    « Non credo che tornerò, Godric. Qui non c’è niente per me, quindi me ne vado, prima di cedere al desiderio di avvelenarti o che tu ceda a quello di infilzarmi con la tua spada ».
    Grifondoro arrossì, spostando lo sguardo da lui al lago.
« Non l’ho mai pensato! » protestò, facendo ridere Serpeverde, per una volta, di cuore.
    « Forse no, ma è così che finirebbe ».
    « Abbiamo la scuola che abbiamo tanto desiderato. Perché te ne vuoi andare? ».
    Serpeverde guardò il lago e gli parve di poter vedere oltre la sua superficie scura, sin dentro la sua camera segreta e fu certo di aver preso la decisione giusta.
    « Questa è la scuola che tu hai voluto. Non quella che volevo io ».
    « Ma... » tentò l’altro, ma Salazar alzò una mano, facendogli cenno di tacere.
    « I compromessi deludono sempre. Almeno uno di noi, così, è soddisfatto. Ho osservato a lungo il tuo castello di vetro, sufficientemente per desiderare vederlo in frantumi » guardò il profilo di Godric, la mascella serrata con forza, i begli occhi rivolti al terreno. « Sono deluso. Tutto ciò che ho sognato è ora, per me, fonte di vergogna e questo, principalmente, a causa tua. Disconosco te e questo castello, poiché vi siete allontanati da quelli che erano i nostri ideali ». Attese, respirando profondamente e poi si voltò, iniziando ad allontanarsi.
    « Tu mi odi, vero? » domandò Godric con la voce pastosa di chi ha la gola chiusa.
    Salazar si fermò un istante, riflettendo sulla risposta; avrebbe potuto dirgli che, se l’avesse odiato, non sarebbe rimasto per tanti anni al suo fianco, pur non condividendo le sue idee.
Avrebbe potuto dirgli che tutte le delusioni e le amarezze che gli aveva inconsciamente inferto avevano aperto una ferita profonda nel suo cuore e, chissà come, ci si era infilato dentro.
Avrebbe potuto dirgli che doveva andare per non perdere se stesso, perché smarrendosi avrebbe smesso di sentire quel sentimento fastidioso che gli si era annidato nel petto, stando con lui.
Avrebbe potuto dirgli che, se avesse rinunciato ai propri desideri, un giorno si sarebbe sentito indegno di stargli accanto.
Scelse, però, di non dirgli nulla: erano discorsi troppo complicati per un ottuso sempliciotto come Godric Grifondoro. 
Alla fine, aveva deciso di avvelenarlo col silenzio. 
… et excrucior.

 
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Note al testo:
  1-   Questa ff si è classificata prima al contest Di Amortentia, schegge di vetro e veleni - I edizione di MaryScrivistorie, indetto sul forum di EFP e corrisponde al pacchetto "Pietra", che comprende l'obbligo: "La storia dev'essere ambientata all'epoca della fondazione di Hogwarts" e la citazione: "Siamo solo dei frammenti in questo castello di vetro" (Linkin Park).
2-     I dettagli relativi al contributo a Priscilla Corvonero e Tosca Tassorosso sono tratti da: http://it.wikipedia.org/wiki/Fondatori_di_Hogwarts
3-    Ho cercato di mantenere i personaggi IC, per questo mi sa che la storia non è molto romantica. Spero di essere comunque rimasta entro i parametri del contest
.

4-Questa fanfiction si è classificata seconda al contest "Flash your slash!" indetto da Rondini sul forum di EFP
   
 
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