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Autore: Feynman    08/09/2014    1 recensioni
Voleur – de beauté. Letteralmente “io ballo da sola” ed è quello che ho sempre fatto. Le mie quadriglie sono solitarie, così come i miei lenti e i valzer che la nonna ha voluto insegnarmi – perché una ragazza come si deve, sa ballare.
Voleur – de beauté significa anche “per volere della bellezza”. È per colpa sua se ballo sempre da sola.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Voleur – de beauté

 
 
Sia benedetta Ludovica e i suoi prompt. 



Mezzanotte.

È da qui in poi che iniziano le confessioni. Le risate sono state messe da parte; sono adatte alla cena, non alla mezzanotte. Il gelato è finito. Le nostre bocche sono libere di parlare. Io so già tutto quello che diranno.

I loro occhi parlano, quando nessuno li guarda.

Le loro espressioni urlano, quando nessuno le sta a sentire.

Io. Io sono Nessuno. Ulisse protesse se stesso quando disse al Ciclope di essere il signor Nessuno; io proteggo me stessa facendoglielo credere.

Il nostro gruppo di amici non è mai stato il massimo: il  fattone, la secchiona, il simpatico, l’ochetta viziata e poi io – nessuno, appunto. Risulterò ipocrita dicendo che le etichette non mi sono mai piaciute; non sono una barattolo di marmellata o di miele che ha bisogno di un’etichetta adesiva, ma far parte di un gruppo e non sapere cosa sei… è leggermente frustrante. Allo stesso tempo, però, sono come devo essere. Io sono quella che non ama ballare ma conosce i passi, quella che non è un genio a scuola ma sa un sacco di cose, quella che non fuma abitualmente ma qualche tiro se lo fa comunque, quella che spara qualche battuta ma finisce lì.

Mi hanno detto di essere tante cose. Troppe cose.

Nessuno riesce a catalogarmi, a darmi un’etichetta che mi possa stare bene perché, alla fine dei giochi, io cambio sempre. L’unica costante è proprio quella: io so.

So cosa passa nelle loro teste. So cosa gridano i loro gesti, so cosa piangono i loro occhi. So cosa c’è che non va ancor prima che lo dicano – o prima che lo sappiano, alcune volte.

Per me la mezzanotte è inutile. L’ora delle chiacchiere è una sequenza di confessioni – a metà – che tutti sentono di dover fare. Sono cose che la Secchiona non dice al prete, cose che il Fattone non racconta ai pusher o il Simpatico alla mamma. Sono le cose del gruppo, che rimangono fra noi nei secoli dei secoli amen.

Le parole che nessuno dice, aleggiano fra noi.

Sono discorsi che pesano. Confessioni di ferro che nessuno vuole sostenere per primo. Sono i pesi che, a ogni maledetto incontro, rovinano l’intesa costruita a forza.

L’estate ci ha sempre rovinati. Quei tre mesi che passiamo l’uno lontano dagli altri, hanno sempre provveduto a sfibrare una tela con già troppi buchi. Siamo un arazzo dai colori sgargianti che una ragazza ha lasciato a metà.

A nulla valgono le risate, le pizze mangiate insieme, le sigarette condivise o le canne girate mentre si chiacchiera. L’estate – sia maledetta – lascia sempre un nuovo foro nella trama della tela, sbiadisce i colori e ci impedisce di tornare quelli di prima.

Il posto era sempre quello; l’Irish pub con i suoi infissi di legno, le panche che odorano di resina e sudore, il barista che serve birra come se ne dipendesse la sua stessa vita. Massimo era sopra al palco – come l’ultima volta – insieme ai Nova Scotia che cantava un pezzo degli Irish Rovers. Ilaria e Caterina erano già sulla pista con la loro quadriglia di fine estate. Io, Marco e Francesco eravamo seduti a chiacchierare e bere le nostre birre scure, che odorano di tradizione, mentre mangiavamo panini e patatine fritte cosparse di salsa al formaggio e cipolla. Il rituale di fine estate. Il nostro addio alla lontananza forzata.

«Per una volta potevi anche accontentarle»

«Sai che non mi piace ballare, Fra»

«Come so che sai ballare una quadriglia meglio di loro, Einstein»

Mi limito sempre a sorridere, in questi casi. Non so mai come rispondergli o quale tono usare. Ho sempre creduto che quando si è a proprio agio, tutte queste sovrastrutture non avessero motivo di esistere. Quando sei nessuno, però, sono quasi inevitabili… come le chiacchiere a mezzanotte.

«Sarà per la prossima volta» rispondevo bevendo l’ultimo sorso della birra scura, pulivo la schiuma con il dorso della mano e ne chiedevo un’altra. Faceva tutto parte della tradizione: un rifiuto al ballo, una nuova pinta di birra, un paio di morsi al panino e le chiacchiere – sempre quelle – di fine estate con Marco e Francesco. Si erano fidanzati entrambi e ne parlavano con me. Ilaria e Caterina non facevano parte di quel rituale e a loro andava bene… a Caterina, soprattutto.

Usciti dal locale aspettavo la solita richiesta delle due ragazze. Avevamo un tacito accordo, noi sei: il Gelato di Inizio Estate e quello di Fine Estate. Eravamo noi ad aprire e chiudere la stagione. I gusti, a inizio settembre, sembrano più buoni, più freddi; è come se – per un’intera estate  - fossero rimasti lì ad attendere noi e a caricarsi di sapori nuovi.

«Il solito, Einstein?»

Nocciola e pistacchio con una bella dose di panna sopra. Mangerei il gelato solo per la panna.

Non so ancora oggi come sia diventata “Einstein”. Quella non era esattamente la mia etichetta, la carta d’identità nel gruppo. Era parso, ad un certo punto, normale a tutti chiamarmi così. Non ho mai compreso fino alla fine le logiche sociali che stanno dietro un gruppo d’amici: il bisogno d’avere un ruolo, un capo-branco, un vice capo-branco, un esecutore degli ordini imposti dal capo-branco…

«Dovremmo farlo più spesso»

Anche questo da manuale. Succede ogni volta che Marco finisce il suo cono limone – e-  fragola per girarsi una sigaretta. Queste nostre uscite assomigliano, sempre più, alle feste di fine anno quando, anche troppo ubriachi per pensare a qualcosa di coerente, ci disponevano in cerchio e deliravamo sui buoni propositi – erano sempre gli stessi, inevitabilmente. Tutti ricordavano quelli dell’anno prima. Tutti sapevamo che non sarebbe cambiato nulla. Mentivamo a noi stessi e l’alcool non era una scusante – non totalmente, almeno. Quei propositi erano come i fioretti che facevamo, da piccoli, durante la Quaresima: promettevamo cose che non potevamo mantenere ma, infondo, sapevamo tutti che non ci sarebbe accaduto nulla di male.

«La prossima volta, però, andiamo in discoteca»

Ilaria ha sempre voglia di ballare.

È una ragazza solare, viziata e piena di soldi. Ha un corpo da favola e un carattere di merda ma, da lei, non ci si aspetta mica che sia anche simpatica e gentile, dopotutto. Si ferma alle apparenze, lei, e sembra bastarle – se non avanzarle, addirittura.

«Vuoi vedere Einstein ballare o sei a corto di cazzi?»

«Non essere così sboccato, Fra… e poi ho sempre il tuo, quando mi annoio»

Sento Marco, alla mia sinistra, abbandonarsi a una risata. Ha la voce graffiante e già roca – nonostante abbia solo diciannove anni – dall’abuso di sigarette e affini.

In silenzio, mi porto alla bocca l’ultima cucchiaiata di gelato e assaporo, lentamente, il misto di nocciola e pistacchio. Alzo gli occhi verso il cielo buio e pieno di stelle. Sento ancora la musica allegra che esce dal locale. Un’altra melodia irlandese, stavolta più vicina, arriva alle mie orecchie.  Il suono del whistle è allegro e potente, si aggiunge, poco dopo, il suono graffiante del fiddle che accompagna il banjo trasformandola in una musica da saloon e non da pub irlandese. Dopo un paio di secondi, capisco che è la suoneria del mio cellulare.

Massimo.

«Pronto?»

«C’è un ballo che ti aspetta»

«Si può sapere perché mi chiami al telefono? Sono qui fuori…»

«Avresti preferito che te lo chiedessi davanti a tutti?»

«Non capisco nemmeno perché tu l’abbia fatto, in effetti»

Francesco mi chiede, con la mano, chi sia al telefono. Gli mimo di star tranquillo – non è niente, non è nessuno – perché la cosa è già patetica di per sé. Un ballo che mi aspetta… Massimo è uscito fuori di testa e io con lui. Giro l’angolo a lascio gli altri che, comunque, continuano a chiacchierare. Ricordate, no? Io sono Nessuno e il mondo – il gruppo – va avanti anche senza di me.

Massimo è davanti all’entrata dell’Irish. In una mano tiene il suo fiddle – il violino degli irlandesi – e l’archetto, nell’altra il cellulare ancora all’orecchio. Mi vede arrivare e sorride. Deve essere proprio uscito fuori di testa; non m’aveva mai sorriso così. Credevo non sapesse nemmeno della mia esistenza. Ero sempre con Marco e Francesco quando arrivava lui e, come se niente fosse, parlava con loro. Io stavo sempre in disparte. Ilaria si metteva in mostra, lui la ignorava, Caterina si faceva gli affari suoi e io tentavo di farmi di miei.

«Che succede?»

«Vittoria, vuoi ballare?»

Voleur – de beauté. Letteralmente “io ballo da sola” ed è quello che ho sempre fatto. Le mie quadriglie sono solitarie, così come i miei lenti e i valzer che la nonna ha voluto insegnarmi – perché una ragazza come si deve, sa ballare.

Voleur – de beauté significa anche “per volere della bellezza”. È per colpa sua se ballo sempre da sola.

Nessuno mi ha mai chiesto di ballare. 
Nessuno oltre a me, ovviamente. Una piccola me, davanti allo specchio, dopo aver fatto partire la musica, fa un leggero inchino e si chiede - con voce pateticamente impostata -  se la donzella avesse il piacere di concedere quel ballo…

Massimo, però, non è Nessuno.

Ballavo da sola e per volere della Bellezza.

Mai però, come adesso, penso che la Bellezza sia una cretina di proporzioni bibliche. 










**Angolo Autrice**

Ehi ehi ehi! Sono tornata a infestare questa sezione per il (dis) piacere di tutti voi! 
Mi stavate aspettando? Spero di sì, miei cari. 
Questa "cosa" è il risultato dell'ennesima uscita con i miei amici che non la finiscono di parlare e parlare di cose senza senso - e l'alcool non è una scusa, sul serio. 
Ringrazio chiunque sia arrivato fin quaggiù - ti piacciono le note, vero?- chiunque recensirà e tutti quelli che sono ancora in bagno a vomitare dopo averla letta.
Alla prossima, 
Feynman
   
 
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