“So lately, been wondering “Di recente, mi sono chiesto
Who will be there to take my place chi prenderà il mio
posto
When I'm gone you'll need love quando
me ne sarò andato avrai bisogno
di amore
to light the shadows on your face per scacciare
le ombre dal tuo viso
If a great wave shall fall and fall upon us all se una
grande onda si infrangesse e si infrangesse su noi tutti
Then between the sand and stone, allora tra la sabbia
e la pietra,
could you make it on your own” potresti farlo
da sola”
Non so perché, ultimamente ho
cominciato a pensare che dodici sia il numero che ha condizionato la mia vita.
Tengo il pensiero per me, perché
non sarebbe consono a me stessa fare di queste osservazioni, dato che sono
stata io stessa a dire che non credo ai numeri, se non si tratta di calcoli.
Beh, dodici è stato il primo
numero che ho imparato. Era stampato sulla gomma del portachiavi
dell’ambulatorio dentistico dei miei genitori. Ci giocavo, me lo portavo dietro
alla scuola materna. Almeno, me lo portavo dietro finché ci sono andata. Quando
ho cominciato a farlo volare sulla testa degli altri bambini con un semplice
sguardo, sono dovuta rimanere a casa.
Lo pronuncio in modo antipatico. Twelve. Con la v tirata, stretta, lenta.
Eravamo in dodici alla prima
scuola privata, anche l’ultima, che ho frequentato per breve tempo, subito dopo
aver scoperto di avere qualcosa di strano.
Dodici erano i gufi fuori da casa
mia, prima che mio padre, terrorizzato, si decidesse finalmente ad aprire le
finestre e capire che cosa volevano. Più di dodici gli abbracci ai miei genitori
quando ho scoperto di essere una strega e di poter frequentare Hogwarts.
Dodici è più o meno la quantità di
libri che riesco a leggere in due mesi.
E, strano a dirsi, dodici è anche
il numero civico della vecchia casa di Harry a Privet Drive. Strano ancora di più come tutto si ricollega.
A dodici anni ho capito che tra te
e me qualcosa non andava. Dopo dodici mesi che ti conoscevo. Tu l’hai
capito molto più tardi, quando di anni ne avevi quasi diciassette.
Ne avevo appena compiuti diciotto
e stavo per iscrivermi al corso per diventare Medimago
quando è scoppiata la guerra, ufficialmente, anche se per noi era iniziata
quando eravamo ancora dei bambini.
Dovetti aspettare almeno tre anni
prima di poter riproporre la mia iscrizione a quel corso. Mi ricordo che il
giorno in cui seppi che non potevo frequentare perché era troppo pericoloso
uscire, e che le lezioni erano state sospese dappertutto ed in tutta l’Inghilturra, piansi per tutto il pomeriggio e arrivai
addirittura ad addormentarmi. A Grimmauld Place, che dopo la morte di Sirius
avevamo continuato ad usare, coperta da incantesimi che solo Silente poteva
sbrogliare. Dev’essere stata l’unica volta in cui mi
sono addormentata di pomeriggio. Non mi piace perdere tempo, nemmeno se ho
sonno. Da un lato non mi è mai piaciuto dormire. D’altra parte, quando la
guerra è finita, mi sembra di non aver fatto altro. Sempre rinchiusa nel tuo
torpore, mi ha detto Ginny l’altro giorno, dovresti
cercare di tirarti su.
Non mi ero mai accorta che fosse
tanto più coraggiosa di me. Più che altro abbiamo due tipi di coraggio molto
diversi: io so affrontare la guerra, lei sa affrontare la vita. Non hai idea di
quante volte tu me l’abbia detto, probabilmente infinite. Lo ammetto, anche se
ancora mi da fastidio, tu hai affrontato la vita molto meglio di me. Beh, in
effetti usare la copertina di un libro come scudo non è il massimo del
coraggio, ma ognuno prova a fare del suo meglio, aveva riso Silente una
sera, quando era venuto ad una riunione dell’Ordine. Una gran bella persona, un
signore. E’ stato lui ad indirizzarmi verso il corso di studi migliore per
entrare al S. Mungo.
Della guerra mi sono rimasti meno
ricordi rispetto ai tempi della scuola. O meglio, ho raccolto tutti i ricordi
che voglio tenere, e gli altri li ho semplicemente accantonati
nell’ordinatissimo archivio della mia mente, che ultimamente ha messo su un bel
po’ di polvere. Ecco, anche solo a ripensarci adesso, l’archivio si apre senza
che io voglia.
Torna il ricordo di quella mattina
al S. Mungo, quando fuori c’era il sole. Odioso il modo in cui tutto sembra
andarti contro: la pioggia quando sei felice, il sole quando sei dannatamente
triste, arrabbiato, deluso. Avrò modo di spiegarlo meglio.
Quella mattina, credevo che il
dolore avrebbe potuto uccidermi. Credo di non avere mai provato prima una
sensazione simile, che ormai mi accompagna da due anni, sei mesi, dieci giorni,
otto ore. Devo averci fatto l’abitudine, a quel corrodersi che ho dentro di me.
Se stai male, almeno significa che l’anima è rimasta. Non a tutti rimane
dopo tutto questo, tienitela stretta. Non ricordo nemmeno il Medimago che me l’aveva detto, se era un uomo od una donna.
A forza di archiviare mi sono veramente dimenticata. Subito dopo, lui o lei, mi
ha chiesto se volevo cancellare i ricordi. Terapia d’urto, anche se la chiamano
Terapia dell’Anima. Ho avuto modo di saperne molto di più, e la considero una
pratica ignobile. Molti miei pazienti, ovviamente di quelli che soffrono
psicologicamente, credono che la soluzione stia tutta lì. Cancelli i
brutti ricordi. E stop. Ma ho visto le persone sottoposte alla Terapia dell’Anima:
le più felici, senza dubbio, ma anche le più false. Non credo sia veramente
possibile cancellare un ricordo. Sì, nel mio caso avrei voluto cancellarne uno
solo: è vero, ne sono stata tentata. Ma non l’ho fatto. Sarebbe stato stupido. Credo che in un modo o nell’altro, sarebbe rimasto
comunque. E poi, si impara dagli errori. Frase crudele quanto veritiera.
Dispenso parole simili per Ginny, che nonostante
tutto, grazie al cielo, è rimasta una testa calda. Non me lo sarei mai
perdonato se fosse diventata diversa per essersi fatta trascinare dagli eventi.
C’è una cosa che penso tutte le
sere, e che ancora non si adatta al tipo di persona che sono sempre stata.
Parte sempre con la tipica trafila
di domande da persone passive. Cosa sarebbe successo se.
-
Cosa
sarebbe successo se fossi stata un po’ più matura? –
-
Lo
stesso. –
-
Se fossi
stata più attenta… -
-
Lo
stesso. –
-
Se fossi
stata più protettiva… -
-
Sarebbe
andata diversamente. Ma in quel caso, non saresti stata tu. –
Harry viene spesso a bere un caffè. O viene a casa mia, oppure
andiamo in un bar. Le prime volte parlavamo, conversazioni così simili a quel cosa
sarebbe successo se. Adesso non abbiamo più molto da dirci, ma direi che il
nostro rapporto è rimasto immutato ed il legame è quello di tanti anni fa. Anche
lui ha cominciato a dispensare frasi fatte, parole semplici, crudeli e
veritiere. Vorrei poter dire che è rimasto com’era l’ultima volta, ma
probabilmente mentirei, dato che nemmeno io sono rimasta la stessa. Lui è molto
più serio, molto più responsabile di come avrei pensato che sarebbe diventato.
Dopo le domande, inevitabilmente
finisco per ricordarmi la giornata. Sarà perché non ho ancora smesso di bere
camomilla per addormentarmi. Credo che non riuscirò più a dormire senza, forse
perché l’ho fatto quella sera.
In realtà, se sul momento mi
ricordo le cose più tristi, poi torno un po’ più indietro e mi ricordo anche le
cose molto più felici, i ricordi che avevo paura di cancellassero.
La tenda che mi avevano dato per
accamparci vicino a dove pensavamo ci sarebbe stato un attacco, era piuttosto
grande. Dentro, come al solito, c’erano almeno tre stanze, la cucina, un
piccolo bagno e la camera da letto, che di solito fungeva principalmente come
luogo di studio. In quel periodo, non dormivo mai. Gli occhi rimanevano aperti,
ero sempre tesa. Anche adesso sono tesa, ma ovviamente in modo diverso.
Era sera, non ricordo che giorno
fosse, ma era luglio. Faceva un caldo assurdo e mi sembra di aver pensato che
in quel momento, gli anni prima, ero sempre al mare con i miei genitori.
Per terra mi stavo studiando una
cartina del territorio in cui ci trovavamo. In quel periodo tenevo sempre la
bacchetta addosso: o in mano, o in una tasca del mantello dei membri del nostro
esercito, o nei jeans, che portavo raramente ma mi tornavano spesso utili.
Tu e Harry
siete entrati nella tenda senza neanche bussare, come si conviene a due ragazzi
di diciotto anni che hanno appena imparato a non parlare a sproposito (beh,
almeno così vi consideravo allora, ma sapevo perfettamente che eravate cento
volte migliori di certi altri nostri compagni che ci hanno fatto dannare).
Devo avervi lanciato uno sguardo
un po’ astioso, perché tu hai alzato gli occhi al cielo e ti sei buttato sul
mio divano letto assieme a Harry, in segno di resa. Eravate entrambi
stanchissimi.
-
Che ci
fai ancora sveglia? – ha chiesto Harry, neanche fosse
stata la sua tenda.
Io ho chiuso il libro e mi sono
seduta vicino a voi. O meglio, ho accuratamente evitato di mettermi vicino a
te. Per qualche motivo, era dal settimo anno che se ti stavo così vicino,
finivamo per litigare per un motivo qualsiasi e tu ti allontanavi.
-
Guardavo
la cartina. Finita la ronda? –
-
Sì…
niente di nuovo all’orizzonte. –
-
Sicuri?
–
-
Oh,
avanti, Hermione, pensi veramente che se cinquanta Mangiamorte fossero arrivati non ce ne saremmo accorti? –
Ti ho guardato male, questa volta
molto volontariamente. Anche Harry ti ha lanciato
un’occhiata ammonitrice, ma credo fossi troppo impegnato a goderti il fatto che
eri riuscito ad irritarmi. All’epoca, ero convinta, convintissima, che ti
divertissi un mondo a farmi arrabbiare, come se ce l’avessi sempre avuta con
me, ma col senno di poi, credo che tu non te rendessi nemmeno conto, che ti
venisse spontaneo, naturale, e che fossi io quella che non riusciva ad esserlo
quanto te.
-
Beh, con
la tua vista da animale selvatico immagino non dovrei stupirmi se riuscissi a
vedere anche al buio… - ho detto, ironicamente.
-
Il che
mi ricorda che un certo animalaccio non è più tra noi da giorni… dove l’hai
messo? –
Ovviamente, ti riferivi a Grattastinchi. Non avresti potuto toccare tasto peggiore.
-
L’ho
mandato dai miei – ho borbottato. – qui non avrebbe avuto senso… -
-
Senza quell’affare tra i piedi, sento già l’odore della vittoria…
-
Vi siete messi a ridere, ed io mi
sono imbronciata. A volte è un po’ difficile avere amici maschi.
Lupin si è affacciato.
-
Ragazzi,
cercate di fare meno rumore. E’ tardi, dovreste essere a dormire, stanotte
partiamo alle quattro. E voi due, non eravate di ronda? Come fate e reggervi in
piedi? –
Avete sbuffato e scherzato
sottovoce tra di voi, e vi siete incamminati. Vi ho seguiti. Mi serviva
dell’acqua, e nella mia tenda era finita. Avevo una
gran sete.
-
E tu
dove staresti andando? – ha chiesto Lupin,
severamente. Ci trattava come se fossimo ancora suoi alunni, e la cosa non ci
dispiaceva.
-
A
prendere dell’acqua. – ho detto, innocentemente. Ed io mi sentivo ancora una
sua alunna.
-
Devi
proprio? Lo sai che è pericoloso andare in giro, è buio e la fontana non è qui
vicina. –
-
Le
assicuro che farò in un attimo… terrò la bacchetta accesa. –
Non riuscivo a pensare di passare
l’intera notte senza bere.
Lupin mi ha guardato scetticamente, poi ha guardato voi.
Il suo sguardo si è posato un
attimo su Harry, ma si è spostato subito su di te. In
quel periodo, tutti cercavano di evitare ad Harry
anche il più piccolo sforzo in più, l’ora in meno di sonno, perché era
importante. Tutti erano concentrati su di lui, quasi bramosamente concentrati.
Non avevo mai capito che la cosa ti desse fastidio.
-
Accompagnala
tu, Ron. Fate presto – ha aggiunto.
Mi sono sentita un po’ colpevole.
Forse sapevo che Lupin non mi avrebbe lasciato andare
da sola al buio, nonostante fossi perfettamente preparata a qualsiasi brutto
incontro, e lui aveva chiesto a te di accompagnarmi. E tu eri così stanco in
quei giorni, così assonnato che era una vera crudeltà cercare di farti fare un
passo in più. D’altra parte, non saremmo mai diventati amici di Harry, non saremmo mai diventati membri dell’Ordine così
giovani, se non fossimo stati pronti a crollare dal sonno, a fare fatica, ad
essere almeno un po’ coraggiosi.
Tuttavia, non ti sei lamentato,
non hai detto una parola. Abbiamo acceso le bacchette e ci siamo incamminati,
in silenzio. Nulla da dire, se eravamo solo io e te, senza Harry?
No, non è vero. Più che altro, la situazione era completamente diversa. Se con Harry ero una persona, con te ero un’altra, mai tutte due
insieme, sempre e comunque io.
Ho preso uno dei secchi vicino
alla fontana e l’ho riempito d’acqua. Cercavo di fare meno magia possibile,
perché era come se se l’avessi usata, ci fosse stato il pericolo di essere
notati dai nemici.
-
Domani
notte ci sei tu di ronda? – hai chiesto all’improvviso, più per rompere il
silenzio che per altro.
Ho tirato fuori il secchio.
L’acqua gocciolava un po’ sul terreno.
-
Sì. Con Smith. –
Odio dirlo, ma forse perché ero
una ragazza, tra l’altro molto giovane, a fare la ronda notturna mi mettevano
sempre assieme a soldati uomini, e perlopiù uomini sui trenta, quarant’anni. Non mi avevano mai messo assieme a te,
ritenevano che fossimo troppo deboli e troppo giovani. Ancora devo capire
questa mentalità: se sei giovane sei debole, se sei grande sei forte? E’ davvero così? Ho
appurato che non succede sempre così. No.
Hai mugugnato qualcosa e poi mi
hai riaccompagnata alla mia tenda. Mi hai salutato con uno sbadiglio e te ne
sei andato. Non è successo niente quella sera. Ma questo fatto andava
raccontato, perché non ultimamente mi accorgo che in ogni piccola cosa che
abbiamo fatto insieme, tu hai fatto un piccolo sacrificio per me. Stare sveglio
fino a tardi, arrabbiarti, offenderti, ogni tanto perfino chiedermi scusa anche
se qualche volta ero io ad avere torto. Ero così impegnata a pensare che non ne
valevo la pena, che non potevo credere che fossero sforzi che facevi per me.
Ogni volta che ci penso, mi sento immatura. Non sono mai stata una bambina,
nemmeno quando lo ero davvero, ma credo di non essere nemmeno cresciuta mai.
Tre giorni dopo, abbiamo
cominciato a combattere. Nessuno poteva dormire neanche se voleva. Le tende
erano state distrutte. I Mangiamorte erano arrivati
come avevamo previsto, ma erano molti di più di quanto avevamo pensato. In quella
battaglia, fummo sconfitti. Altre morti. Io e te sempre e
comunque eravamo gli occhi, la mente, la forza di Harry.
Eravamo imbattibili, tutti e tre insieme.
Quando i superstiti tornarono
indietro, i comandanti ci diedero l’ordine di tornare a casa. A quanto pareva,
in quel momento i Mangiamorte avevano deciso di
spostarsi in Germania, e per qualche giorno non si sarebbe avuto bisogno di
noi. Non pensavo che stessero dicendo seriamente. Eppure, dallo sguardo del
nostro comandante di quel periodo, capii che non scherzava. Sul rivedere le
nostre famiglie nessuno scherzava più.
Abbiamo deciso di separarci e
ritrovarci in un luogo che non ricordo, con gli altri. Ci siamo guardati. Ho
abbracciato Harry e ti ho stretto la mano, come al
solito. Ci siamo Smaterializzati.
La
mia casa era vuota. Quando riuscii a mettere a fuoco ciò che era rimasto
davanti a me, non vidi il comodino in cui avevo iniziato a mettere i libri
perché nella mia stanza non avevo più posto. Andai in salotto. Non vidi il vaso
di fiori sopra al tavolo, perché il tavolo non c’era più. Le scale. Scricchiolavano. La camera da letto dei miei
genitori. Non vidi
il copriletto che il papà aveva regalato alla mamma. La mia stanza. La stanza
in cui erano racchiusi tanti di quei ricordi che nemmeno un album di fotografie
sarebbe riuscito a contenere. Le lacrime. I sorrisi. Le lettere. Le scritte. I libri. Le pagine. Le risate. Gli scherzi. Gli
sguardi. Una diciassettesima estate. In cui c’eravate
stati voi. A camminare. Ad esaminare. Ad ascoltare. E di nuovo gli sguardi.
E di nuovo distogliere gli occhi.
“E da qui esce la musica?”
“Si chiama…”
“No, non me lo dire. Stereofono?”
“Stereo…”
“Più o meno.”
Non vidi il piumone che avevo
lasciato quando me ne ero andata, più di un anno prima. Avevo vissuto con voi,
strenuamente, sempre con voi.
Tornai di sotto. Lo vidi, il vaso.
Senza fiori. Mi specchiai in un coccio.
E Grattastinchi
che entrava da una finestra dai vetri rotti, e miagolava. Tanta fame. Tanti giorni senza
mangiare. Nessuno
gli aveva preparato niente.
Non ho mai saputo che cosa fosse
successo, chi avesse portato via i mobili, chi fosse entrato, da quanto tempo
era sparito tutto. Non sapevo come avessero fatto a scoprire che io vivevo lì.
Cercai in tutti gli ospedali di
Londra. Cercai al S. Mungo.
“Elizabeth e Alexander Granger?”
“No, non mi risulta. Mi
dispiace.”
“Elizabeth e Alexander Granger?”
“No.”
Mi dispiace.
Mi dispiace.
Io posso capire che possa sembrare
banale. Posso capire che possa sembrare scontato. Posso capire che possa
sembrare ipocrita, o forse un ultimo tentativo di salvarmi ai tuoi occhi. Ma è vero.
Io non dico bugie. Non ne ho mai dette a voi, almeno. Non sarei stata
abbastanza brava a mentire.
Davvero.
Il primo posto dove volevo andare,
quando ho trovato la casa vuota, è stata casa tua. Un po’ per dispetto verso me
stessa, un po’ perché avevo la solita
paura di disturbare, e sì, anche di non essere gradita, ho aspettato tutto il
giorno e tutta la notte prima di decidere. In nessuno di quegli ospedali ho
trovato neanche il ricordo di Elizabeth e Alexander Granger. Durante la notte, sono stata seduta nella sala d’aspetto
di un reparto per gravidanze, in un ospedale vicino ad Hyde
Park. Ho visto uomini che se ne stavano lì, alcuni si mettevano le mani nei
capelli, altri sudavano innaturalmente. Qualcuno fumava, anche se era vietato.
Un uomo fumò due sigari. Me lo ricordo bene perché erano i sigari che fumava
papà. E le lacrime che avevo trattenuto senza accorgermene mi sono venute giù
in modo così naturale che mi sembrava inutile tentare di nuovo di rinchiuderle.
Molte infermiere mi hanno chiesto se mi sentivo male. A loro ho
detto sempre bugie. No, sto bene. Un’infermiera si è avvicinata ad uno dei tanti uomini che
ho visto torturarsi in silenzio in un’attesa che non sembrava mai finire. Lui
si è tutto illuminato e si è alzato. Dopo una ventina di minuti, l’ho visto
uscire accanto ad una barella in cui era distesa una donna, con i capelli
raccolti, sudata. Gli sorrideva e rideva a qualcosa che lui le aveva detto. Lei
si teneva ancora una mano sul ventre, ma l’ingrossamento non c’era più.
Nonostante le lacrime, nonostante
soffrissi così tanto in quel momento, arrivai a pensare che un giorno mi
sarebbe piaciuto sorridere così, ridere così, tenere la mano sul ventre in quel
modo.
Mi alzai da lì che erano le otto
del mattino. Mi sono Smaterializzata di nascosto.
Non mi ero accorta di quanto
piovesse forte, fuori. Pioveva anche nel sentiero davanti a casa tua, nei
campi. Il cielo era così scuro. Alzai la testa, e l’acqua non mi dava fastidio.
Rimasi per non so quanto tempo lì, a guardare le nuvole che sembravano
immobili. Provai diversi brividi di freddo, ma non mi importava. Di nuovo mi
venne in mente che in quello stesso periodo gli anni prima ero al mare con i
miei genitori.
Non so come abbia fatto Molly a vedermi. Ero su un lato di casa tua. Forse mi aveva
vista da una finestra della cucina. Forse era uscita per raccogliere i panni
stesi. Poi mi ricordai che lei non aveva bisogno di mettere i vestiti al sole,
poteva asciugarli con la magia. Mi sentii una totale estranea a quel pensiero.
Il mio stato di mezzosangue mi pesò da solo per la prima volta in vita mia.
Provai anche un po’ di rancore. Bene o male, voi maghi non saprete mai cosa può
provare qualcuno che vede un solo pezzetto della luce che vedete voi.
-
Hermione, vieni dentro. Che è successo? Dai, copriti con questo. –
Molly
mi aveva guidata nell’ingresso. Parlava a
bassa voce. La casa era immersa nel silenzio. Probabilmente dormivate tutti. Mi
aveva coperta con una specie di copriletto con dei coniglietti stampati sopra.
Si era bagnato anche quello, per colpa dei miei vestiti fradici.
Non mi chiese più che cos’era
successo. Sapeva che prima o poi glielo avrei detto. Mi fece sedere al tavolo
della cucina ed io da vera maleducata bagnai tutto il pavimento con le gocce
d’acqua. Rimasi con le mani in grembo, senza muovermi. Chissà che aspetto
avevo. Non dovevo essere nella migliore delle forme. I capelli tutti bagnati,
la divisa da Auror pure, il copriletto sulle spalle.
Le gocce d’acqua scendevano ad intervalli regolari dal mio mento. Avevo gli
occhi gonfi, ma non riuscivo più a piangere.
Molly mi ha preparato una cioccolata calda. Non me l’aveva mai
fatta. Credo avesse sempre pensato che preferissi il tè. Forse voleva tirarmi
su con un po’ di zucchero, un po’ di felicità in polvere. Mi ricordò tanto la
mamma e la sua cioccolata calda. Molly me la
ricordava sempre molto, per questo non sentivo mai troppo la mancanza dei miei
genitori. Lei e Arthur mi hanno sempre trattata come
se fossi anche loro figlia, e questo mi ha aiutato a fare molte cose, più di
quanto immagini.
Mentre bevevo la cioccolata, Molly è sparita. C’era un lume acceso, ma per il resto la
cucina era tutta in penombra, anche se era mattina, perché il cielo era troppo
coperto. La
pioggia colpiva forte sui vetri delle
finestre. C’era un vaso sul tavolo.
C’erano dei fiori.
Ci fu un tuono. Io finii la cioccolata.
-
Hermione… -
Mi
risvegliai improvvisamente.
Mi voltai, ma non mi alzai dalla sedia, troppo
agitata anche solo per comportarmi come se lo fossi. Sulla soglia c’eri tu. Eri
ancora in pigiama, quella grande maglietta gialla dei Chudley
Channons ed i pantaloncini corti. Tutti i capelli
arruffati, l’aria ancora più assonnata dei giorni in cui ti avevo visto.
La tua voce era impastata dal
sonno. Non avevi niente che potesse farmi pensare che ti fossi preso qualche
accorgimento per apparirmi in modo… più elegante, più attraente. La cosa non mi
preoccupò. Avevi un cerotto sulla guancia destra. Un graffio che ti aveva
inflitto un Mangiamorte. Un solo, unico graffio. Mi
sembravi così imbattibile.
Sapevo che era stata Molly a chiamarti, e non avrei voluto tirarti così giù dal
letto. Però, mentirei se dicessi che non volevo che tu fossi sveglio in quel
momento.
Ti sei avvicinato, ed hai
trattenuto uno sbadiglio. Hai preso una sedia e ti sei seduto di fronte a me. Col vaso
di fiori che ci separava.
-
Che è successo? –
-
Non
trovo più i miei genitori. –
I tuoi occhi si sono svegliati.
Hai capito dal mio tono di voce che stavo parlando molto seriamente,
tragicamente seriamente. Ti ho spiegato quello che avevo visto quando ero
tornata a casa e ad ogni mia parola ti svegliavi sempre di più. Hai cominciato
ad ascoltarmi veramente, ed ogni tanto mi accorgevo che il tuo sguardo si
posava sui miei capelli, sul copriletto che avevo sulle spalle, su dettagli
bagnati che ti confondevano.
Speravo non mi chiedessi quando
era successo tutto questo, ma l’hai fatto. Tipico da parte tua fare il
contrario di quello che penso.
-
Cosa? E
sei andata da Harry, ieri? –
Ho scosso la testa.
Tu mi hai guardato senza capire.
-
Allora,
dove sei stata tutto questo tempo? –
Ti ho detto che ero stata in un
ospedale, e l’avevo setacciato per cercare i miei genitori. Non ti ho detto che
al contrario non avevo fatto altro che vedere gente che entrava ed usciva da un
corridoio, e che avevo pianto tutto il tempo.
Mi hai fissato incredulo senza
dire niente. Ti avevo un po’ ferito. Perché non ero venuta subito da te?
-
Perché
non sei venuta subito qui? –
Perché non ti avevo almeno
avvertito?
-
Perché
non hai provato a chiamare me, o Harry? –
Ho fatto spallucce.
E per la prima volta, l’ho detto.
Ho detto non lo so.
- Non lo so. –
A quel punto, non sapevamo più
cosa dire.
Ti sei alzato, e per un attimo ho
pensato, ho sperato, che venissi lì e mi abbracciassi. Al diavolo il fatto che
eravamo sempre stati amici, al diavolo il fatto che io fossi terrorizzata
dall’idea che potessero esserci fraintendimenti con te.
Anche se, sinceramente, credo che
in realtà avessimo capito benissimo. Solo, tu ci avevi messo più tempo.
Sei andato nell’altra stanza e sei
tornato con un asciugamano e dei vestiti, probabilmente di Ginny.
-
Sai dov’è
il bagno. Asciugati bene, e mettiti questi. Non sono il massimo ma sono asciutti. Io devo fare un paio
di chiamate con la Metropolvere. –
Ho cercato di sorriderti, ma non
hai aspettato che lo facessi. Mi hai messo in mano tutte quelle cose calde e
asciutte, io ti ho guardato di nuovo e me ne sono andata.
Non so chi tu abbia chiamato
mentre ero in bagno e mi asciugavo i capelli con la bacchetta, e mi cambiavo,
ed arrotolavo la divisa perché non avevo voglia di asciugarla con la magia.
Quando sono uscita, si erano
svegliati tutti. Facevano colazione, e c’erano due lumi accesi. Mi sentivo
improvvisamente adeguata, con la maglietta azzurra e la gonna a pieghe blu mare
che avevo visto indosso a Ginny non molto tempo
prima. Tu stavi parlando fitto fitto con tuo padre,
che quel giorno mi sembrò così gentile che mi venne di nuovo da piangere.
Mi hanno salutato tutti,
allegramente, coccolandomi nell’illusione che non sapessero niente, che non
volessero sapere perché ero lì. Anch’io mi coccolai pensando che era meglio
così. Ad un certo punto mi hai preso da parte.
-
Allora,
non voglio dire che sia una certezza, ma ho appena saputo che alcuni babbani sono stati portati via in massa da Londra verso
Parigi. Non c’è ancora una lista di nomi, perché è stata un’evacuazione molto
veloce, pensavano che i Mangiamorte avrebbero
attaccato in pieno centro. Sono tutti in un istituto, non vengono trattati nel
migliore dei modi, ma a quanto pare stanno tutti bene. –
Mentre parlavi a volte mi guardavi
negli occhi, altri guardavi altrove, e poi tornavi a guardarmi. Mettevi spesso
una mano tra i capelli, e cercavi di capire che cosa stessi pensando.
Io mi sono morsa le labbra, e mio
malgrado mi è tornata una grande, sferzante speranza.
-
Ora –
hai continuato tu, distogliendo di nuovo lo sguardo. Crescendo, credo che i
tuoi occhi diventassero sempre più azzurri. Non so se è scientificamente
possibile, ma a me sembrava così. – noi siamo bloccati qui, sai che non
possiamo andare a Parigi. Ma a quanto pare qualche amico di Harry
può chiedere e passarci delle informazioni. Presto verranno stilate le liste
dei nomi dei babbani, e controlleremo subito. Perciò, non pensare già male. Va bene? –
Era la prima volta che mi parlavi
in modo così rassicurante. Forse ti avevo spaventato, presentandomi da te
bagnata dalla pioggia e con gli occhi gonfi.
-
Va bene.
– questa volta ho sorriso. Anche tu mi hai sorriso ed involontariamente, almeno
credo, mi hai un po’ arruffato i capelli.
Da quel momento, anche se non te
l’avevo chiesto, mi ospitasti in casa tua. Stare con te e con gli altri mi
faceva dimenticare la tensione, l’attesa e la paura. I giorni seguenti non ci
fu mai cielo sereno, ma aveva smesso di piovere.
Molly si diede un gran daffare per preparare qualcosa che mi
piacesse da mangiare, Ginny fece in modo di farmi
avere il borsone con i miei vestiti, e rimasi paralizzata dallo stupore quando
vidi anche Grattastinchi che miagolava rumorosamente.
-
Oh, no,
oh, no! – hai urlato, mentre lo prendevo in braccio e lo squadravo senza
riuscire a crederci. – non è possibile! Ginny, l’hai
portato tu? Vero, vero? Non provare a negarlo! –
Ginny non riusciva a reggersi in piedi dal ridere, mentre tu
sbraitavi.
-
E tu,
smettila di sogghignare! – mi hai detto, furente. – io quel botolo non lo
voglio in casa mia! No, per niente al mondo, mai! –
Presto Grattastinchi
ebbe anche una lettiera.
Tu gli stavi lontano neanche
avesse la peste, ed io ridevo del fatto di quanto poco ti piacesse, o di come non
ti piaceva. Forse può sembrare strano, ma avere anche Grattastinchi
con me fu un incoraggiamento in più a tornare ad essere allegra. A poco a poco,
parlavo sempre di più, ed a poco a poco l’intesa che quel primo giorno si era
creata fra noi si volatilizzò come se fosse stata portata via da una gran
ventata. Riprendemmo a litigare per ogni cosa, ed ogni volta intorno a noi si
creava un piccolo pubblico, a volte erano Fred e George, che partecipavano attivamente, altre Ginny, che si limitava a mangiucchiare guardandoci
interessata (lei era proprio l’unica che capiva tutti e due), a volte Molly tentava inutilmente di placarci, mentre Arthur rideva e basta.
Ancora non ci chiamavano
dall’esercito. Non sapevamo perché, ma decidemmo comunque di non parlarne. Stavo
così bene lì da voi che egoisticamente pensavo che mi sarebbe piaciuto stare a
casa come Molly, essere sempre protetta, e non dover
combattere.
Il dodici luglio.
Il motivo fondamentale per cui
continuo a pensare che il dodici sembra cercarmi e trovarmi sempre.
“If I could, then I would,
“Se
potessi, allora vorrei
I'll go wherever you will go andare ovunque tu andrai
Way up high or down low, sopra la strada veloce o sotto quella lenta,
I'll go wherever you will go” andrò ovunque
tu andrai”
Non so, era tutto così silenzioso
da sembrare calcolato. Ginny che era andata a fare
una passeggiata, scortata da Fred e George, che la seguivano sulle scope. Molly
che aveva accompagnato Arthur al Ministero, dove
sarebbe rimasta a firmare chissà quali pratiche.
La Tana era effettivamente troppo
silenziosa per essere un caso. Ma non credo che tu sapessi il piano dei tuoi
fratelli (come non credo che i tuoi genitori l’avessero fatto apposta a
lasciarci soli).
Fatto sta che tu sei sceso dalle
scale, ed era di nuovo mattina, ed anche stavolta con sollievo ti vedevo senza
la divisa da Auror che cominciavo ad odiare. Hai
visto solo me, che avevo interrotto la lettura di un libro e stavo coccolando Grattastinchi, addormentato beatamente sulle mie ginocchia.
Pensavo che anche lui stava diventando vecchio.
-
Lo vizi
troppo quell’animalaccio. – hai mormorato,
appoggiandoti al lavello e bevendo l’acqua da una tazza.
-
Smettila
di chiamarlo animalaccio. E’ un gatto. Comprendi? Non riesco a capire perché devi fare tante
storie. –
Tu hai inarcato le sopracciglia
indignato e come a volermi dare una prova ti sei avvicinato di qualche passo. Grattastinchi si è svegliato subito e non si è mosso,
prendendo solo a fissarti.
-
Lo vedi?
Lo vedi che mi odia? –
Ho trattenuto una risata.
-
E’
perché pensa che tu lo odi – ho ribattuto, annuendo come se ne fossi fermamente
convinta.
-
Beh, è
vero! –
-
Ecco,
lui ti odia perché tu lo odi. E’ un suo diritto… -
Mi hai guardata ed hai aperto e
chiuso la bocca a intermittenza. Ti avevo messo in buca, di nuovo, e la cosa ti
irritava da morire. Ti sei voltato ed hai borbottato qualcosa. Grattastinchi si è riaddormentato, tranquillizzato.
-
Dovreste
cambiare i fiori di questo vaso. – ho mormorato, più per rompere il silenzio
che per altro.
Hai lanciato un’occhiata al centro
del tavolo ed hai scrollato le spalle.
-
Dovremmo
– hai detto, con un sorrisetto. – ma non sarò certo io a farlo. –
-
Perché
no? –
-
Perché è
roba da donne. –
-
Quando
finirà la tua abitudine di affibbiare la tal cosa alle donne e la tal cosa agli
uomini? –
-
Beh,
guarda che non ho mai creduto che le donne fossero forti quanto agli uomini –
hai fatto un cenno verso il vaso. – sono adatte a fare questo, più che altro… a
cambiare i fiori quando appassiscono. –
Ho roteato gli occhi. Ero molto,
molto irritata. Sapevi esattamente che era meglio non affrontare il discorso
delle pari opportunità con me, eppure lo facevi lo stesso, e ti divertivi un
mondo a farmi arrabbiare. Si vedeva, perché nonostante anche tu ti infuriassi e
le orecchie ti diventassero tutte rosse, io la vedevo, l’ombra di un sorriso,
quando pensavi non guardassi. Come credo che anche tu vedessi chiaramente il
modo in cui sbuffavo quando flirtavi con le altre ragazze, una delle poche cose
che ti ho nascosto, mentre pensavo non mi guardassi.
-
La tua
solita logica dell’’usa e getta’ – ho detto,
ironicamente. – riesci a trovare solo una cosa utile per ogni oggetto o
persona? Non hai mai provato ad esercitarti con le associazioni di parole? -
-
Ma smettila. Non parlo di ‘usa
e getta’. Dico solo
che fisicamente donne e uomini sono lontani anni luce. Una donna non può fare i
lavori pesanti, l’uomo sì. E non ti pare che questa sia una chiara differenza?
–
-
Non sto
dicendo che uomini e donne sono identici in tutto e per tutto – ho ribattuto,
infervorata. Grattastinchi ha mosso un orecchio. – ma
ormai le donne possono fare praticamente gli stessi lavori degli uomini. Ad
esempio, hai visto quante donne ci sono nell’esercito? Cioè, ci sono pure io! –
Avrei voluto aggiungere una provocazione
in più. Giusto per vedere che reazione avevi, se mi sapevi dare una risposta. Avrei voluto
aggiungere. Una provocazione. Capisco
che tu non mi consideri neanche come una ragazza, ma…
Tu mi hai guardato in modo strano.
Sembrava che improvvisamente non avessi più voglia di litigare. Era troppo
assurdo che ti arrendessi così presto, la discussione era appena cominciata.
-
Tu sei
un caso diverso… -
Ho cominciato ad arrabbiarmi sul
serio. Ho preso il senso della tua frase nel modo peggiore.
-
Guarda,
al contrario di quello che pensi tu, io rimango una donna, o una ragazza, come
ti pare, fatto sta che lo sono! –
Tu hai roteato gli occhi.
-
Possibile
che tu debba capire tutto come vuoi tu? Non intendevo questo. –
-
Ah, no? Beh,
allora impara ad esprimerti meglio, perché proprio non riesco a capirti! –
Ti sei irrigidito.
-
Insomma,
il fatto che tu abbia deciso di entrare nell’esercito non esclude che qualcuno
non fosse d’accordo. – hai borbottato.
Io ti ho fissato, senza capire. Ho
cominciato a passare in rassegna tutte le persone che potevano non volermi
nell’esercito. Qualche soldato a cui stavo antipatica, qualche comandante che
non mi prendeva sul serio.
-
Te lo
stai inventando! – ho farfugliato, alla fine. – chi te lo avrebbe detto? –
Dovevi essere scandalizzato che
non avessi capito di nuovo. Ti sei voltato dalla parte opposta. Ero talmente
infastidita che non mi accorsi nemmeno delle tue orecchie rosse.
-
Cazzo, Hermione, se permetti, stavo parlando di me. – hai
detto, apparentemente tranquillo, semplicemente arrabbiato.
Ti ho lanciato un’occhiata
inquisitoria.
-
Mi stai
dicendo che tu non eri d’accordo che entrassi nell’esercito? – ho cominciato a
trarre le mi conclusioni. Ho alzato un po’ la voce. – ah, ma certo. Non mi
volevi tra i piedi. Pensavi che dopo la scuola ti saresti liberato di me? Beh,
lo so che non sono all’altezza di Harry, ma io… -
-
Ma che
cosa diavolo stai dicendo? – hai urlato. Grattastinchi
si è svegliato, senza capire cosa fosse tutto quel baccano. Avevi sbattuto una
mano sul tavolo.
Non ti avevo mai visto così
arrabbiato. Mi avevi zittita. Guardavo la tua mano che tornava lungo i tuoi
fianchi. Poi, ho alzato lo sguardo.
Mi osservavi come se fossi
arrabbiato, come se fossi offeso, come se fossi triste, come se fossi in
imbarazzo.
Non riuscivo a capire che cosa
avessi detto di così sbagliato. Per me, tranne ogni tanto, sei sempre e
comunque stato un mistero, non lo ero solo io per te.
-
Perché,
vorresti negare che sia così? – mi sono alzata e Grattastinchi
è salito sulla tavola, miagolando furioso.
-
Ti ostini
a non capire, eh? – hai detto, con un sorriso arrabbiato. – ho detto che non
avrei voluto che entrassi nell’esercito, ma non ti ho detto perché! E di
certo non puoi deciderlo tu. –
Ho inarcato le sopracciglia ed
incrociato le braccia.
-
Ma
davvero? Beh, allora dimmelo perché non vuoi che stia con voi nell’esercito.
Dimmelo, perché evidentemente sono troppo stupida per arrivarci, giusto? –
Hai sospirato pesantemente e mi
hai guardata dritta negli occhi.
Sono stata io ad abbassare lo
sguardo. Poi, l’ho sollevato di nuovo, ma ho fatto molta fatica per riuscire a
puntarlo su di te.
-
Ma mi
sembra evidente! Insomma, ne parlavamo prima che tu avessi una crisi isterica:
non penso che le donne debbano fare le stesse cose degli uomini! -
-
Beh, ma
senti… -
-
Se Harry – hai alzato la voce, interrompendomi. – se Harry rimanesse ferito, anche gravemente, o peggio ancora…
comunque sia, se dovesse stare male fisicamente per un combattimento, penserei
comunque che se la caverebbe, perché lo conosco bene, è forte e tutto il resto,
molto più di me… -
-
Ed io
invece no? –
-
Lasciami finire – hai sbottato.
Le orecchie ancora più rosse. – insomma, un
conto è se lui rimane ferito, un conto… è se sei tu che rimani ferita. Cioè, a
parte il fatto che tu sei più a rischio di me perché sei per metà babbana… hai idea di che cosa si provi a dover stare tra
due persone che sono così in pericolo? –
In quel momento, mi hai colpita.
Mi hai colpita veramente. Ho sentito proprio una specie di scossa elettrica,
qualcosa di così intenso da farmi paura.
Non avevo parole. Ero rimasta
semplicemente senza parole. Non avevo idea che ti sentissi così, ed in effetti
non avevo mai pensato che tra noi tre solo io ed Harry
eravamo presi di mira direttamente dai Mangiamorte.
Tu eri un purosangue e bene o male non avevi fatto proprio niente che potesse
scatenare l’ira dei nemici, a meno che non li provocassi.
-
Insomma…
e non prenderla di nuovo come un’offesa perché se no mi incazzo
davvero… - ti sei passato una mano tra i capelli con espressione corrucciata,
come a voler trovare le parole giuste. – tu mi sembri… mi sembri più fragile di
Harry. E mi faresti preoccupare come un idiota se ti
succedesse chissà cosa. Sinceramente, avrei preferito che rimanessi a casa, o
che andassi a Parigi, con gli altri babbani. –
Io lo fissavo, e nonostante i suoi
balbettii riuscivo a capire esattamente quello che intendeva, e non mi sentivo
affatto offesa. Mio malgrado, mi sentivo incredibilmente, dannatamente
impressionata.
Ancora non sapevo cosa dire, ma
sapevo almeno che non dovevo più arrabbiarmi con te.
-
Sì… va
bene, ho capito… comunque, questo non mi farà cambiare idea, sai… - ho
borbottato, con le sopracciglia aggrottate.
Sei sembrato sollevato che non mi
mettessi di nuovo ad urlarti contro ed hai scrollato le spalle.
Rimasi immobile.
Avrei dovuto andarmene, ma rimasi
immobile.
In quel momento, anche se la
situazione in sé forse non lo richiedeva, io volevo che tu facessi qualcosa. Ti
mandavo messaggi telepatici per fartelo capire, ma tu continuavi a fissarmi, ed
io non capivo se stessi valutando i pro ed i contro della cosa o stessi
semplicemente pensando a come farmi togliere da lì.
Probabilmente, non avevi pensato
nessuna delle due cose. Ripeto, per me sei sempre stato un vero mistero.
Come in una vecchia pellicola muta
ed a scatti, ti sei avvicinato un po’ verso di me, ti sei chinato e mi hai
baciata.
Sul momento, ti sei ritirato quasi
subito. Forse avevi un po’ paura della mia reazione, mentre io ero
completamente istupidita e non capivo proprio più niente. Un po’ mi vergogno a
dire che quello era stato veramente il mio primo bacio, alla veneranda età di
diciotto anni, anche se come diceva sempre la mamma, l’età non conta mai con i
baci. A te non ho mai detto che quello era il mio primo bacio: volevo che ci
fossero delle parti di me che ti rimanessero misteriose, ma specialmente non
volevo che pensassi che non avessi aspettato altri che te. Il mio orgoglio è
rimasto immutato nel tempo.
Ci siamo guardati, più in
imbarazzo di quanto non fossimo mai stati, e Grattastinchi
ci fissava con odio puro, rivolto ad entrambi come un fidanzato geloso.
Io continuavo a guardarti, e fu
proprio in quel momento che cominciai a non aspettare altri che te. Volevo che
mi baciassi ancora, ma volevo che lo facessi tu. Però, volevo anche che mi
spiegassi perché l’avevi fatto, per zittirmi, per farmi arrabbiare, per
prendermi in giro, o perché ti piacevo.
Beh, io speravo decisamente per
l’ultima opzione, anche se temevo più di tutte la penultima.
Mi piacevi tanto. Non ho mai avuto
il coraggio di dirtelo così espressamente, ma veramente mi piacevi da morire,
anche se non saprei dirti da quanto tempo. Da prima del bacio, ma non so da
quale anno di scuola.
Vedendo che non mi spostavo, devi
aver pensato che forse potevi azzardare di nuovo e mi hai baciato di nuovo
sulle labbra, come prima. Io ho appoggiato la mano sulla tua guancia, e credo
che contemporaneamente tutti e due abbiamo pensato di fare il secondo passo. Ho
dischiuso le labbra ed abbiamo approfondito il bacio. Hai messo una mano sulla
mia nuca, ignorando completamente tutti i miei odiosi riccioli, mentre con
l’altra mano mi tenevi ben stretta per la vita. Ecco, nella confusione dei miei
pensieri, nell’agitazione del mio cuore, nell’agitazione, in effetti, di tutti
e due, nei movimenti vagamente impacciati ma così naturali, mi resi
improvvisamente conto che poco prima avevamo pensato la stessa cosa, ma
l’avevamo detta in modi diversi. Avevo pensato che mi sarebbe piaciuto essere
protetta per una volta, e senza che neanche te lo dicessi tu me l’avevi già
consigliato.
La verità, però, era che non mi
sentivo al sicuro da nessuna parte, se non stavo con la persona che ho visto
più spesso nella mia vita.
Non so neanche come ci siamo
arrivati nella tua camera, o in quale momento ti sei staccato da me per chiudere
la porta con un incantesimo. So solo che ad un certo punto ho lasciato che mi
togliessi la maglietta, ho permesso alle mie mani di togliere i bottoni della
tua camicia dalle asole, ho avvertito il modo in cui mi baciavi il collo, e la
tua pelle così improvvisamente bollente e nuda sotto le mie dita.
Nella tua camera c’erano i poster
dei Chudley Channons appesi
ai muri, ed un gran disordine. C’erano le tue scarpe buttate per terra, i tuoi
libri aperti e c’era l’odore dell’estate. Avevi lasciato la finestra aperta, e
di lì entrava un po’ di vento caldo.
Lo sentii quando crollai vicino a
te, in preda ad un sonno improvviso, ne sentii chiaramente il profumo, che da
allora in poi avrei sempre associato a te. Prima di addormentarmi, ti guardai.
Eri voltato verso di me, ed avevi sonno quanto me, ma mi sorrisi. Io mi
allungai un po’ verso di te e ti baciai, anche per avvicinarmi di più a te.
Dormii profondamente, un sonno
tranquillo e sereno come non ne facevo da tempo.
Forse risulterebbe più struggente
se dicessi che al mio risveglio non ti trovai, che ti eri svegliato prima di me
e te ne eri andato chissà dove, a rimuginare sull’errore che avevamo fatto. Ma
preferisco riportare la verità, che agli altri potrebbe sembrare troppo
normale, ma che a me piace più di qualsiasi romanticheria tormentata. Quando mi
svegliai, tu dormivi ancora. Tenevi un braccio su di me, e sembrava che fino a
poco prima mi avessi abbracciato. Notai che ti eri rivestito con il pigiama che
ti avevo visto addosso qualche giorno prima, quando ero arrivata a casa tua.
Forse ti eri svegliato e ti eri vergognato di farti vedere da me così,
integralmente. Mi piace pensare che dopo esserti rivestito tu non abbia
resistito a rimetterti vicino a me a dormire, ma non posso saperlo con
certezza. Ma il fatto che mi stessi abbracciando, quasi inconsciamente, mi fece
provare la felicità più pazzesca, quella che la gente cerca dappertutto e che
solo in pochi trovano. Pura e semplice, perfetta e imperfetta, una felicità che
era tutto ed era niente, che era semplicemente inspiegabile.
Ero in un sonnacchioso e pigro
dormiveglia quando qualcuno tentò di entrare dalla porta. Ma era chiusa con un
incantesimo, quindi subito dopo bussarono.
-
Ron? Ron, sei sveglio? – disse la voce di Ginny.
Guardai l’orologio a pendolo
appeso alla parete scrostata della tua stanza. Era mezzogiorno e non me ne ero
nemmeno resa conto. Erano passate quasi quattro ore.
Sul momento, fui assalita da una
sorta di paura. Ginny doveva sapere che io ero lì con
lui? Non sapevo darmi risposta. Tu continuavi a dormire. Hai sempre avuto il
sonno pesante. Dopo un po’ che ti scrollavo non troppo gentilmente, ti sei
svegliato.
-
Rooon! –
Tu dopo un attimo si smarrimento
mi hai guardato e subito ti sei alzato, inciampando su una delle tue stessa
scarpe. Hai tolto l’incantesimo alla porta, ma l’hai aperta soltanto di due,
tre centimetri scarsi. Non volevi che gli occhi di Ginny
arrivassero troppo all’interno della stanza.
-
Che c’è?
– hai detto, piuttosto bruscamente, tenendo la mano ben salta sulla porta.
-
Dov’è
andata Hermione? Volevo farle vedere un paio di libri
che mi hanno passato due amici del San Mungo… -
Ti sei irrigidito. Non le sapevi
dire bene le bugie.
-
E’
uscita a fare una passeggiata. –
-
Quando?
–
-
Poco fa.
–
-
Come mai? –
-
Perché…
oh, insomma, che cazzo di domande fai, Ginny? E’ uscita, e basta! –
Lei è rimasta un attimo in
silenzio.
Tu ti sei spostato un po’.
-
Che cosa
stai facendo? – hai chiesto, sulla difensiva.
-
Perché
non mi apri? –
-
Perché in questa
stanza c’è un gran casino. E perché la mia stanza. –
-
Ah,
capito… -
In quel momento, dal tono di Ginny, avevo già capito che non gli aveva creduto, e che
c’erano molte probabilità che appena fossi tornata dalla mia ‘passeggiata’, sarei stata tartassata di domande. A Ginny era sempre piaciuto pensare a noi insieme, ci vedeva
come una sfida da vincere, un libro da finire, un nodo da sciogliere.
Non ho mai visto mio fratello
con nessun’altra tranne te, mi aveva scritto in una lettera, durante la guerra. Ce l’ho
ancora, nella pila di buste che mi spedivano in quel periodo. E confesso di
avervi un po’ invidiato. Insomma, non credo che io raggiungerò mai la vostra
felicità, siete lontani anni luce da noi comuni mortali, che ci prendiamo e ci
lasciamo. Non conosco uomo che sarebbe disposto ad essere innamorato della
stessa donna per così tanto tempo, con la stessa intensità, ed io stessa
probabilmente non ne sarei capace. Un caso come il vostro è più unico che raro.
Mi piace pensare che sia così.
Quando hai richiuso la porta non
troppo gentilmente, l’hai di nuovo incantata. Come me, non credevi che Fred e George avrebbero avuto la
stessa gentilezza di non usare un alohomora, nel caso
avessero trovato la porta chiusa. Ti sei steso vicino a me, che nel frattempo
mi ero messa qualcosa addosso, se non altro la canotta e le mutandine, anche
perché non riuscivo a trovare i miei jeans e la maglietta da nessuna parte. Me
li avevi tolti tu, ed io non avevo saputo pensare ad altro.
Eri un po’ teso. Avevi le orecchie
tutte rosse. Non riuscivo a capire cosa stessi pensando. Se ti sentissi in
imbarazzo, se ti vergognassi, se avessi paura. Io ero tutte e tre le cose
insieme, ma riuscivo comunque ad essere maledettamente felice. Ti ho
abbracciato e ti devo aver sorpreso, perché hai impiegato qualche attimo per
capire il motivo del mio gesto. Poi, ti sei abbassato a baciarmi la fronte, poi
la punta del naso, poi il labbro superiore. Dopo qualche minuto, eravamo di
nuovo daccapo di quel qualcosa così naturalmente nuovo. E a ogni bacio, ad ogni
sguardo, ad ogni carezza, sentivo che stavo così bene da impazzire. Vedevo solo
le tue labbra, i tuoi occhi e le tue mani.
Quel momento si spensieratezza
così intensa fu punito. Quella sera stessa, dopo mille sguardi di nascosto,
mille sfioramenti casuali, siamo stati richiamati dall’esercito. Io non avevo
ancora saputo niente dei miei genitori, le liste dei babbani
protetti in Francia non erano ancora state stilate.
Ci siamo Materializzati insieme,
quel giorno, alla base. C’era anche Harry. Abbiamo
avuto l’occasione di dirgli che era successo qualcosa tra noi cento volte, ma
niente. Nessuno dei due aveva il coraggio di parlare ad alta voce. C’è da dire
che ancora non ne avevamo parlato tra di noi. Alla sola idea di prenderti per
mano tremavo. Vederti al di fuori della tua stanza, dove eravamo solo noi due,
era diverso. Non riuscivo a smettere di essere la solita ragazzina petulante e
precisina, là fuori.
C’era stato un attacco a Londra, e
noi non ce ne eravamo nemmeno accorti. Per trasportare i babbani
al sicuro, il comandante aveva chiamato me e O’Connel,
un altro veterano del mestiere. Tu ed Harry eravate
andati in missione segreta. Non credo saprò mai dove foste andati.
E’ stato il periodo più lungo in
cui non ti ho visto. Mi impegnavo nel portare negli istituti i babbani e i mezzi babbani e più
sapevo che non ti avrei rivisto presto, più lavoravo. Incontravo ogni sorta di
persona. Donne che piangevano e chiedevano spiegazioni, bambini che singhiozzavano,
padri che non ritrovavano i figli, mogli che non trovavano i propri mariti. La
cosa più triste della guerra erano quelle persone. Che non avevano nemmeno la
consolazione di avere qualcuno vicino a cui volere bene, e dimenticare tutto. Neanch’io l’avevo, ma dovevo essere più forte degli altri.
Fredda ed intransigente, sembrava che non mi importasse niente di essere stata
separata dai miei migliori amici.
Ma la notte per me era il momento
in cui tornavo ad essere l’Hermione che piangeva in
quella sala d’aspetto. Non sapevo nemmeno dove foste finiti tu ed Harry. Non lo sapevo, e non me lo volevano dire. E non
potevo contattarvi, mi era proibito.
Un giorno, è arrivata una lettera.
Non veniva da te, né da Harry. Era scritta in
francese, ma non ho impiegato molto a tradurla. Mi dicevano che avevano trovato
Elizabeth Granger tra i babbani
a Parigi, ma che di Alexander non c’era traccia.
Dicevano che se volevo potevo andare a prendere mia madre, ma ritenevano fosse
più sicuro scriverle e basta, che una volta il pericolo fosse cessato avrei
potuto farle visita. Quella lettera l’ho buttata. Non è nella pila che ho nel
cassetto. Credo di aver fatto una mossa giusta, allora. Adesso, non potrei
sopportare di vedere tutte quelle lacrime asciutte sulla pergamena. Perché ho
pianto, è vero, ho pianto di nuovo. Piangevo perché non potevo vedere la mamma,
piangevo perché non avrei più rivisto papà.
Passò un mese e mezzo, forse due,
ma ricordo di aver sofferto come se fosse passato un anno. Non avevo potuto
parlarti nemmeno per lettera di ciò che era successo, né della mamma, né del
papà, né del fatto che avevo trovato un appartamento in affitto nella Londra
magica. Era piccolo, scadente, freddo. Non avevo molti soldi, in quel periodo,
ed era stato il massimo che fossi riuscita a trovare. Credo sia stato il più
brutto appartamento che abbia mai avuto, e che adesso quel condominio sia stato
abbattuto perché cadeva a pezzi. Ci stanno costruendo dei negozi, in quello
spazio. Al piano terra presto sorgerà un negozio di fiori. Decisamente inutile:
ho sempre considerato quel genere di commercializzazione troppo superficiale. Sono
ancora cinica su queste cose, mi dispiace.
Stavo segnando i nomi delle
persone che quel giorno ero riuscita a portare in istituto e fatto accettare
senza problemi. Erano state una ventina, ma ce n’era almeno un centinaio. Anche
il giorno dopo, avrei lavorato fino a tardi.
Era autunno, e cominciava a farsi
freddo. Freddolosa com’ero, avevo già acceso il fuoco in quel piccolo e
malandato camino. Ricordo che fuori c’era un gran vento, che il vetro della
finestra tentennava, e tremava, ed era l’unico rumore oltre allo scoppiettio
del fuoco ed al raro sfogliare dei documenti che stavo leggendo ed ordinando.
Ho sentito bussare alla porta. Erano
le undici di sera. Mi sono chiesta chi poteva essere a quell’ora.
Ho preso la bacchetta e la tenevo davanti a me, prima di tirare giù la maniglia
ed aprire.
Non ti vedevo da due mesi, era
vero, ma non mi sarei mai aspettata che mi saresti capitato a casa da un giorno
all’altro. Non avevo mai sperato di essere così fortunata, ero troppo
disincantata per crederlo.
Ti erano cresciuti i capelli ed
avevi gli occhi di nuovo stanchi. Quella sera non avevi un graffio soltanto.
Avevi un lungo taglio lungo la guancia, piuttosto profondo, dei tagli sul collo
e dei lividi. Avevi ancora indosso la divisa da Auror,
che era sporca ed un po’ strappata.
Non eri passato dall’ospedale. Non
avevo nemmeno finito di concludere questo pensiero, che hai tentennato un po’ e
mi sei caduto addosso per un attimo, prima di riprenderti almeno un poco. Non
riuscivo a capire, perché io ero felice, ma forse non dovevo esserlo, viste le
tue condizioni. Ho chiuso la porta e ti ho sorretto fino al divano, dove tu sei
crollato. Mi ricordo che ti sei addormentato subito, neanche una parola detta,
neanche un sorriso, solo quello sguardo vittorioso che mi avevi lanciato quando
ti avevo aperto la porta.
Mentre dormivi, io ho controllato
le tue ferite. Con la magia, ero riuscita a curarti una caviglia slogata ed a
far rimarginare uno o due dei tagli più profondi. Per gli altri, avevo messo
dei cerotti qua e là, che avevo comprato in una farmacia babbana.
Non avevo niente di meglio, ma avevo preferito sentirmi soddisfatta così.
Sono rimasta seduta sul pavimento
per tutta al notte, e mi sono addormentata. Ricordo di aver fatto un brutto
sonno, pieno di incubi, pieno di ospedali, pieno di ferite non rimarginate. Mi
sono svegliata il pomeriggio dopo, dopo molte ore di torpore. Sul divano c’ero
io, ed avevo una coperta addosso. Mi avevi lasciato un biglietto, dicendo che
saresti tornato quella sera, che andavi a farti visitare al San Mungo assieme
ad Harry, e che lui mi salutava, ma non poteva
chiamarmi né passare a vedermi perché sarebbe partito quella notte per una
missione.
Ho passato tutta la giornata ad
attendere la sera, e sono stata più gentile e più cerimoniosa del solito con i
miei colleghi, anche con quelli che non sopportavo. Saresti venuto da me,
quella sera. Ti avrei visto, quella sera. Non mi importava altro.
Ripensandoci, in quel periodo le
cose tra noi erano cambiate tantissimo. Eravamo passati dallo stato abituale e
quasi eterno di pseudo amici, che si dicevano di
tutto ma mai niente di fondamentale, ad amici normali, per poi aver fatto
l’amore due volte, non averne più parlato e non esserci più nemmeno sfiorati,
fino ad essere completamente separati. Mi fa sorridere, adesso, il modo in cui
ogni giorno speravo non litigassimo, ma alla fine lo facevamo lo stesso.
Quella sera stessa, credo di
essere stata un po’ insopportabile, soprattutto tenendo conto del fatto che non
ci eravamo ancora visti. Avrei dovuto metterti le braccia al collo, piangere
come una bambina, baciarti e fare l’amore con te di nuovo, ma non potevo avere
una reazione così spontanea. Non ne avevo il coraggio, c’era qualcosa che mi
bloccava. Tanto più che non sono mai stata spontanea, ed ormai credo sia troppo
tardi per diventarlo.
-
Dove
siete andati, tu ed Harry? –
L’odore dell’arrosto che
finalmente ero riuscita a cucinare. Piatti che
sbattevano. Silenzio. E di nuovo le finestre che si muovevano. E l’odore stantio
di quel condominio. E Grattastinchi che rientrava dal
balcone. E Londra, là fuori.
Tu mi hai guardata un attimo, poi
hai abbassato di nuovo lo sguardo sul piatto. Non c’erano vasi o fiori a
separarci. Non avevo abbastanza denaro per comprare un vaso, od abbastanza
sfacciataggine da sperare che tu mi avresti portato fiori per riempirlo.
-
Non te
lo posso dire. –
-
Perché
no? Ti ricordo che sono un Auror anch’io. –
Avevo deciso di impuntarmi. Avevo
deciso di prendermela con te per le insicurezze che avevo provato in quel
periodo, per la sofferenza che avevo provato, per gli ostacoli che avevo
incontrato.
E tu eri lì che le prendevi
addosso, quelle parole antipatiche e quelle frasi provocatorie, come schiaffi
che non meritavi.
- Mi è stato ordinato di non dirlo
a nessuno. –
-
Che cosa avete fatto? –
- Non te lo posso dire. –
-
Dimmelo. –
- No. –
Mi hai guardata con molta
freddezza. Mi hai allontanato con molta freddezza. In quel momento, ho
pensato che tu fossi un ingrato. Che eri venuto da me per fare i tuoi comodi,
perché dalla tua famiglia non volevi andare, per poter dormire, per poter
mangiare. Adesso capisco che invece eri venuto con me per parlare, per stare
insieme, per sapere come me la stavo cavando, per raccontarmi come te la stavi
cavando tu. Ringrazio solo che all’epoca io non abbia avuto la presunzione di
pensare che fossi venuto solo per fare sesso con me. A quel punto, l’ingrata
sarei stata io, e non me lo sarei mai perdonato.
Siamo rimasti in silenzio per
tutta la sera. Io ho lavorato fino a tardi. Tu mi sei passato vicino, ma non mi
hai toccata. Quella notte, abbiamo dormito in stanze diverse.
Il mattino dopo, mi sono resa
conto che stavo letteralmente impazzendo. Non ti avevo trovato in casa, e
questa volta non avevi lasciato un biglietto. Avevo paura. Avevo capito che
l’altra sera ero stata insistente, ero stata fastidiosa. Ero stata l’ultima
persona da cui un uomo che era stato male sarebbe voluto tornare. E quel divano
vuoto, come se tu non fossi mai arrivato, come se fosse stato tutto un sogno,
mi faceva andare fuori di testa. Sono andata al lavoro lo stesso, quel giorno,
ma ho fatto diversi errori.
E stavo male. Stavo male,
malissimo, ma non piangevo perché avevo pianto troppo. E non era da me
piangere, e non potevo diventare una ragazza che piangeva spesso.
Ti ho aspettato fino a tardi,
quella sera, ma non venivi. Non arrivavi mai. In preda alla più tipica delle
disperazioni, neanche fossi stata una sposina novella che aspettava il marito,
mi sono infilata sotto la doccia ed ho girato la manopola. L’acqua era
diventata bollente, e mi sono scottata. Ma sono rimasta lì sotto, con gli occhi
chiusi, e non capivo se stavo di nuovo piangendo, e non capivo se ti avevo
perso, e non capivo se eri arrabbiato, e non capivo se avevo perso la persona
che ormai più di tutte poteva salvarmi dal diventare una ragazza che piangeva
spesso. E non capivo da quando io pensavo così tanto a te da diventare
un’ossessione.
Quasi come se mi volessi
volontariamente ammalare, come una stupida, uscita dalla doccia che la mia
pelle era ancora bollente per via dell’acqua calda, ho indossato una vecchia
maglietta troppo grande per me, sdrucita. I capelli ancora bagnati sulle
spalle, ancora annodati tra loro. Volevo andare a dormire, e non mi importava
se ero ancora grondante d’acqua. In un momento di vero e proprio
scoraggiamento, ho pensato addirittura di non presentarmi al lavoro e sperato
di prendermi l’influenza. Un’influenza terribile, con la febbre alta. E speravo
che tu venissi a sapere quanto stavo male, e corressi da me. E mi chiedessi scusa
per qualcosa che non avevi fatto.
Ma sul divano dove volevo
stendermi, anche se avrei potuto dormire sul mio letto, c’eri già tu. Seduto,
con le mani in mano, la testa bassa. Il mio cuore ha preso a battere
all’impazzata nel particolare modo in cui ultimamente riuscivi ad agitarmi. Sul
momento, non sono riuscita nemmeno a metabolizzare bene che tu eri fisicamente
di fronte a me, dopo aver immaginato che fossi veramente in casa. Mi sono
fermata lì, ad un metro da te, e basta. Come a voler capire se eri davvero tu.
Hai alzato lo sguardo. Non eri più
stanco. Ho capito subito che durante quella giornata dovevi essere stato a casa
tua. Forse avevi dormito tutto il pomeriggio. Forse ti eri svegliato da poco.
Mi chiesi soltanto perché avessi deciso di Materializzarti proprio a casa mia,
a notte fonda. Avevo paura che
avessi compassione di me, in effetti.
-
Ciao. –
mi hai detto, soltanto.
Io sono rimasta lì a guardarti. Forse
era uno sguardo severo. Tu hai abbassato di nuovo la testa.
-
Sei
arrabbiata? – hai chiesto, senza guardarmi negli occhi.
Non ero arrabbiata. Avevo paura
che avessi compassione di me, punto.
-
Non lo
so. – non riuscivo ad essere coerente con quello che pensavo.
-
Ho
capito. Volevo solo avvertirti che l’esercito ha rilasciato i soldati. Harry ha arrestato Lucius Malfoy e siamo riusciti a fargli confessare delle cose.
Abbiamo scovato molti Mangiamorte. In Irlanda.
Quindi, nel frattempo noi ci occuperemo soltanto di riportare i babbani a casa. E mi dispiace per tuo padre. –
Ti sei alzato. Ed io dentro di me
ho gridato e sono arrossita. Ti ho gridato di non andartene. Rimani.
Ho fatto un passo.
Tu ti sei voltato.
-
Non sono
arrabbiata. – ho detto.
Mi
hai fissata. Ogni giorno gli occhi più azzurri.
-
Scusa. –
ho aggiunto, ancora. – non volevo essere insistente. Mi dispiace. –
Per qualche motivo, tu hai
sorriso, e dopo un po’ sei scoppiato addirittura a ridere. Io sono rimasta a
guardarti e mi sono chiesta se era un buon segno. Ti sei avvicinato. Era un
buon segno.
-
Ti scusi
con me? – hai riso. – da quanto tu chiedi scusa? –
Sono arrossita.
-
Non ti
ci abituare. – ho borbottato. Un po’ troppo immatura in queste cose, lo ero
davvero.
Ti eri avvicinato ancora. Pensavo
mi volessi baciare. Invece avevi preso un asciugamano dalla spalliera di una
sedia e me lo avevi messo in testa. Mi hai scrollato i capelli per
asciugarmeli.
-
Vorrai
darmi la colpa anche quando ti prenderai un raffreddore? – hai scherzato. Avevi
capito che me l’ero presa con te senza motivo. Forse non ero mai stata tutto
questo mistero per te, come pensavo di essere.
Ti ho guardato.
-
Come mai
sei venuto? –
Tu ti sei fermato. Le tue orecchie
si sono arrossate.
-
Volevo
dirti una cosa. – hai borbottato.
Bum. Ero diventata una di quelle ragazze che hanno il
batticuore per un nonnulla. Non avevo nessuna garanzia che mi dicessi quello
che pensavo, ma volevo fare l’ingenua e crederci lo stesso.
-
Che
cosa? – ho chiesto, a bassa voce, per non farti capire che il mio tono tremava
un po’.
Sei stato zitto per un po’. Hai
fatto anche un lieve passo indietro, per non aver più nessun contatto fisico
con me.
In quel momento, ho capito che
volevi parlarne. Non ne ero molto felice. Temevo ancora quella cosa del è
stato un errore. Era una Molliccio che non potevo scacciare, perché non mi
veniva in mente nessun Riddiculus.
-
Beh… hai
presente… no? L’altra volta – hai incespicato, ed io ti ho guardato cercando di
incoraggiarti e di mettere fine a quel supplizio.
-
Sì… - ho
mormorato, arrossendo un po’.
Continuavi a non guardarmi negli
occhi.
-
Ecco… lo
so che ormai è evidente, comunque… - hai chiuso gli occhi. Hai preso il
respiro. Ogni tuo gesto per me aveva un doppio senso. E tendevo sempre a
pensare che fosse quello negativo. – comunque, credo di doverti dire che non
l’ho fatto a caso… è stato perché mi piaci. –
L’hai detto tutto d’un fiato,
tanto che ci ho messo qualche attimo per capire.
Io ti ho fissato. Forse, se mai
fossi stata brava nel volo con la scopa, in quel momento avrei potuto volare
anche da sola.
-
Davvero?
– ho mormorato, e la voce mi si è spezzata per un attimo, come una cretina,
ho pensato.
Tu hai agitato una mano,
imbarazzato ed hai alzato un attimo lo sguardo.
-
Davvero…
beh, mi sei sempre piaciuta. –
A quel punto, ero talmente felice
che sono scoppiata a ridere.
Mi hai fissata, confuso. Non mi
rendevo conto che per te era quel gesto strano ad avere un doppio senso.
-
Che ridi? – hai chiesto, leggermente spaventato.
-
No, è
che, Ron… insomma, avevi quella faccia seria… - ho
detto, tra i singulti, mordendomi le labbra. – e poi, questa è grossa… io non
ti sono sempre piaciuta, non credo proprio… -
Non so da dove venisse tutta
quella insolenza, ma ero contenta di essere riuscita a tirarla fuori dopo tanto
tempo.
Tu mi hai guardata, sbalordito.
-
Che cosa
stai dicendo? Insinui che te l’abbia detto così per dire? –
-
Ma
scusa, come faccio a credere che io ti sia sempre piaciuta? Non hai mai fatto
altro che insultarmi! -
-
Eh,
insultarti, che esagerata! Anche tu, sai, non è che sia sempre stata tutta ‘sta
dolcezza, anzi! –
-
Non
cercare di rigirare la frittata, guarda che mi ricordo benissimo che per il
Ballo del Ceppo… -
-
Oh, quel
benedetto Ballo del Ceppo… è storia passata! Quanti anni avevamo? Tredici? Beh,
comunque è inutile tirarlo continuamente fuori! –
-
Sto solo
cercando di far fare al tuo cervellino un buon ragionamento induttivo, che non
ti fa male… fatto sta che i giorni prima ricordo chiaramente che tu ed Harry cercavate disperatamente una dama ed eravate a corto,
perché vi avevano tutte detto di no… -
-
Erano
tutte impegnate! –
-
Sì, come
no… comunque, quel giorno tu ti sei messo a sbandierare che uno di voi due
poteva anche venirci con me, perché avevi avuto la lampante folgorazione che
sì, io sono una ragazza! –
Hai aperto e chiuso la bocca ad
intermittenza.
-
Non ho
mai detto niente del genere! – hai esclamato, con una gran sicurezza. Beh, io
invece me lo ricordavo benissimo.
-
L’hai
detto, e subito dopo hai detto anche una cosa peggiore – ho ironizzato. – hai
detto che al Ballo ci saresti andato con una qualunque ragazza, bastava che
fosse carina, ed anche se non aveva cervello ci saresti andato lo stesso, se
era bella! –
Hai deglutito.
-
No, non
ho detto proprio niente di simile… - hai mormorato, ma non sembravi più tanto
convinto.
-
Tutto
questo, per dimostrarti che non ti sono sempre piaciuta… solo questo,
ammettilo. –
Non mi ricordo nemmeno perché
avessi tutto questo bisogno che tu dicessi che avevi cominciato ad amarmi solo
dopo un po’.
Sei rimasto zitto.
-
Beh, ma
ti ricordo che in quel periodo tu non eri tutta ‘sta simpatia! – hai
borbottato, cercando di averla vinta.
Poi, hai avuto l’illuminazione.
-
Ah, e sei
tanto concentrata a farmi la ramanzina, ma non mi hai ancora risposto! Fai
tanto la furba, ma non sono così idiota da lasciare che tu eluda il discorso! –
Presa in contropiede, sono rimasta
in silenzio. Avevo ancora un paio di argomenti a mio favore, ma con la tua
domanda diretta erano sfumati. Cosa dovevo risponderti? Non volevo risponderti.
Volevo che ti fosse chiaro senza bisogno che te lo dicessi.
-
Mi
sembra evidente – ho risposto alla fine, con gli occhi altrove, nel tentativo
di sembrare distaccata.
Hai sbuffato.
-
A me
sembra evidente che tu stai facendo di tutto per farmi incazzare!
–
-
Ah!
Diamo il benvenuto al signor non-chiamatemi-idiota-anche-se-uso-un-linguaggio-scurrile!
–
-
Fai la
spiritosa, eh? Stai facendo la spiritosa, per caso? No, perché stranamente non
mi viene da ridere… -
Forse non ti veniva da ridere per
la mia battuta, però sorridevi. La litigata stava lentamente svanendo come
svanivano tutti i bisticci.
Io volevo solo che mi baciassi.
Avrei potuto anche litigare con te e fare pace di nuovo, ma in quel momento
volevo solo che mi baciassi. Ma io… non potevo essere io a farlo. Non potevo
perché nonostante quello che era successo tra noi, ero terrorizzata all’idea
che ti potessi ritrarre.
Ti guardavo, e volevo una cosa ben
precisa da te, ma non sapevo come comunicartelo.
Vedendo che ti guardavo, hai
ricambiato il mio sguardo e ti sei avvicinato. E finalmente, ti sei chinato
verso di me. Forse avevi capito che c’era qualcosa che non andava, ed avevi
pensato di fare la prima cosa che ti veniva in mente. Quella giusta.
-
Sappi
che è probabile – mi hai detto – che non mi ricorderò gli appuntamenti
importanti, arriverò sempre in ritardo e mi dimenticherò quello che mi hai
detto. E, dato che ti diverti tanto a dirtelo, sarò insensibile, è vero. –
La cosa non mi preoccupava
affatto.
-
Allora,
ti comprerò una Ricordella. -
Ho sentito il rumore
dell’asciugamano che cadeva a terra. Ho sentito una goccia che mi scendeva
lungo una spalla. Ho sentito la tua mano che si bagnava d’acqua mentre mi
sfiorava la schiena. Ho sentito i graffi sulla tua schiena, quando ti sei tolto
la camicia. Ho sentito i tuoi lievi gemiti di dolore, quando ti carezzavo sul
petto e sulle scapole, e per sbaglio toccavo fugacemente i tuoi lividi. Ho
sentito il tuo respiro, quello che non sentivo da tanto tempo. Ho sentito le
tue labbra sulle mie, sul mio collo, sul mio ventre. Ho visto i tuoi occhi che
ogni tanto si aprivano. Ho visto i tuoi capelli che mi offuscavano la vista. Ho
visto le nostre mani intrecciate. Ho visto il soffitto scrostato diverso
dall’ultima volta in cui avevo visto e sentito tutto questo. In quel
momento, ho pensato che non avrei mai voluto che finisse tutto. Ma ero felice. Ero
felice perché mi avevi detto quello che volevo che mi dicessi da tanto, ero
felice perché mi piacevi da morire, ero felice perché sapevo che le cose non si
sarebbero fermate lì, che sarebbe andata così per sempre. In quel momento, non
mi rendevo conto che mi stavo affezionando a te più di quanto non avessi mai
fatto, e che questo portava sì la felicità più incondizionata, ma comportava
anche uno scotto da pagare. Perché se ero così affezionata a te, se ti volevo
così bene, se ti amavo così tanto, e ti perdevo, per me sarebbe stata davvero
finita. Ma il pensiero non mi passava nemmeno per la testa, perché per me tutto
cominciava lì e non finiva mai.
Quando mi sono svegliata, era
mattina presto. Tu dormivi ancora, voltato verso di me. Solo in quel momento mi
sono accorta che ti eri tagliato i capelli, rispetto alla sera precedente. Ho
guardato l’orologio e mi sono resa conto che mi sarei dovuta alzare per andare
al lavoro. Con molta malavoglia, mi sono messa il lenzuolo addosso (ribadisco,
eravamo tanto audaci quando ci facevamo prendere dalla situazione, ma nessuno
dei due era ancora in grado di farsi vedere nudo dall’altro) e mi sono
trascinata in bagno. Quando sono uscita, la divisa da Auror
addosso, continuavi a dormire. Io mi sentivo un’idiota ad aver pensato che
fossi diventato un po’ diverso dal solito bambinone, ed invece eri lì, che
dormivi innocentemente, come se fossi nel lettone dei tuoi genitori, e non
nell’appartamento della tua migliore amica con cui avevi affrontato qualcosa
che di amicizia non sapeva proprio.
Col senno di poi, mi fa sorridere
il modo in cui entrambi eravamo fermamente convinti di avere svoltato, e di
essere sfociati in un serio ed adulto rapporto, una relazione, intricata e
passionale. Ma eravamo lo stesso un po’ ingenui, e non bastavano i baci
proibiti che ci scambiavamo per stabilire la nostra maturità. Eravamo molto teneri.
Se ti vedessi adesso com’eri allora, proverei una gran tenerezza, davvero.
Non sapevo se quel giorno dovevi
andare a lavorare od eri in riposo, ma avevo deciso di svegliarti comunque,
perché non mi piacevano i dormiglioni, anche se sapevo perfettamente che lo eri
e lo saresti sempre stato.
-
Ron! Sono le sette. Ti svegli? –
Hai mugugnato qualcosa e ti sei
voltato dall’altra parte. Io, irritata che
non mi ascoltassi, ti ho costretto a voltarmi.
-
Ron, in questa casa
non si dorme oltre le nove, sia ben chiaro! Sono sicura che tu abbia dormito
tutto ieri, perciò datti una mossa e vestiti! –
-
Alle
otto e cinquantanove mi sarò alzato… - hai mormorato, con la voce ancora
impastata dal sonno.
Avevo deciso di non dartela vinta,
quindi ho trattenuto una risata.
-
Sì, ma
io non sarò qui, perciò ti devi alzare adesso! Sei in ferie? –
Hai sospirato.
-
No… -
-
Cosa? E allora, poche storie e alzati! –
-
Sei una
dittatrice… -
-
Sarò più
dittatrice se ti licenzieranno dal lavoro e verrai a fare da parassita a casa
mia! –
Hai aperto gli occhi.
Mi hai squadrata, un po’ deluso.
-
Ah… ma
tu ti sei già vestita? A che ora ti sei alzata? –
-
Alle sei
e un quarto. –
Hai spalancato gli occhi.
-
Mi
chiedo come fai… -
-
Non
chiedertelo e fai così anche tu! Muoviti, vorwärts! –
Mi hai fissato disgustato e ti sei
voltato di nuovo dall’altra parte.
-
Stavo
per alzarmi ma se tu ti metti a parlare in tedesco credo che mi accontenterò di
fare il parassita… -
-
Se al
mio tre non sei filato in bagno a vestirti, mi metto a parlare in latino! –
Hai fatto una faccia terrorizzata
e prima ancora che cominciassi a contare ti sei fiondato
in bagno, e mi sono accorta che bene o male ti eri rivestito di nuovo durante
la notte. Solo quando hai chiuso la porta mi sono permessa di scoppiare a
ridere.
Le cose si erano fatte molto più
tranquille. Quel periodo è stato il più tranquillo, in effetti, della guerra.
Io e te per una volta lavoravamo insieme ed ogni tanto ci incrociavamo mentre
spiegavamo ai babbani come dovevano utilizzare le Passaporte, ed uno ad uno gli cancellavamo la memoria di
tutto quello che era successo, ed a seconda del caso aggiungevamo qualche
ricordo falso. Ecco, è stato proprio in quel periodo che ho sentito parlare per
la prima volta della Terapia della Memoria, perché doveva essere applicata ai babbani ed ai maghi che avevano visto cose particolarmente
orribili. Già allora non riuscivo ad approvarla, se non per i babbani, perché in quel caso c’era una legge del Ministero
che diceva che loro non dovevano sapere niente del mondo magico. Ma non mi ero
mai soffermata sull’argomento, a soppesarne l’importanza, perché non credevo
che l’avrei mai incontrata lungo la mia vita, od avrei avuto l’occasione di
farne uso.
Presto, sono riuscita a trovare un
appartamento decente. Un giorno te l’ho detto, e tu mi hai guardata come se
fossi impazzita. Non so perché, ma a te il mio scadente bilocale piaceva. Comunque,
quando ti ho portato a vedere quello nuovo, come i ragazzini ti sei
completamente scordato di quello vecchio. Al momento di versare la caparra per
il primo mese d’affitto, mi ritrovavo indietro di un bel po’ di galeoni. E,
cosa che non mi sarei mai aspettata, tu me li hai prestati. Credo che per aver
catturato molti Mangiamorte il Ministero di avesse
aumentato lo stipendio, o dato una promozione, fatto sta che tu in quel periodo
economicamente non te la passavi affatto male. Ma credo che versando quella
parte di affitto tu mi avessi fatto una tacita proposta, che io avevo
considerato accettata già molto tempo prima. Insomma, ormai avevamo compiuto
entrambi diciannove anni, e tu non ti facevi più tanti scrupoli a
Materializzarti a casa mia senza chiedere, così anche nell’appartamento vecchio
dormivi quasi ogni notte con me (ma è meglio non fraintendere la cosa: il fatto
che dormissimo insieme non significa che facessimo anche altro. Praticamente,
tornavamo tardi ogni sera, tutti e due, e crollavamo dalla stanchezza prima
ancora di riuscire a dirci qualcosa). Quindi, non mi aspettavo di certo che tu
mi chiedessi esplicitamente di andare a vivere insieme, perché per me io e te
convivevamo già.
Mi sono trasferita
nell’appartamento nuovo un giorno di gennaio, e faceva un freddo tremendo. Tu
eri tutto emozionato nel vedere che l’appartamento era più grande e più bello
dell’altro, e fra una cosa e l’altra a malapena ti ricordavi di darmi una mano
ad arredare velocemente, a dare almeno un colpo di bacchetta ai comodini
impolverati. Poco più tardi, a casa abbiamo ricevuto una piccola scatolina da
un gufo, e non avevamo idea di cosa sia. Era Harry
che la mandava. Quando l’abbiamo aperto, abbiamo scoperto che si trattava di un
bel letto a due piazze, rimpicciolito con la magia e che presto arrivò a
grandezza naturale, che probabilmente in due non saremmo riusciti a comprare.
Uno scherzo di Harry, od un buon augurio che ci aveva
messo maledettamente in imbarazzo, ma non potevamo nemmeno vederlo per
dirgliene quattro. Infatti, quell’inverno viaggiava
molto, e non lo vedevamo quasi mai, ma via lettera tu ed io gli avevamo detto
come si erano evolute le cose tra noi. La cosa non gli aveva dato fastidio, si
era anzi detto molto sollevato, e che anche Ginny ci
faceva le congratulazioni. Al che ricordo che avevi cominciato a dar di matto,
a chiedere quando diavolo Ginny ed Harry si erano visti, eccetera eccetera.
Mi sentivo un po’ in colpa, perché nel frattempo io avevo ricevuto una lettera
da tua sorella, che mi diceva che lei era in viaggio con Harry,
perché aveva appena superato a pieni voti l’esame per diventare Auror, e in un modo o nell’altro si erano messi insieme. Tu
non lo sapevi, ma Ginny mi aveva garantito che presto
te lo avrebbe detto: infatti, dopo una lunga chiamata con la Metropolvere, un giorno ti ho sentito sbraitare qualcosa e
sei venuto a sfogarti con me, ed io facevo finta di non sapere niente. Alla
fine, non so come era tornato fuori il discorso di Viktor
Krum, forse avevo appena ricevuto una lettera anche
da lui, ed avevamo finito per litigare su quell’argomento
per la centesima volta.
Credo sia stato proprio quel
giorno che, in preda all’irritazione, ho detto quello che per mesi avrei dovuto
dirti, ma non ne avevo mai avuto il coraggio.
“Che cazzo
vuole Krum, ancora, da te? Perché non sparisce?”
“Ron,
smettila di fare il deficiente! Siamo in contatto come al solito, non è
cambiato niente!”
“Ah, beh, forse non è cambiato
niente per te, ma è cambiato per me!”
“Ti ho detto milioni di volte
che non ho alcuna relazione segreta con lui!”
“E allora perché non mi dai
quella lettera?”
“Oddio, Ron,
perché è violazione della privacy! Tu non mi hai mai fatto leggere i tuoi
stupidi bigliettini a quelle stupide delle tue ragazze, al settimo anno!”
“Era diverso!”
“Sì, perché tu con loro ci
andavi davvero, altro che rapporto epistolare!”
“Almeno lo sapevi, ma tu stai
tentando di nascondermelo! E poi allora noi non stavamo mica insieme! Io adesso
non manderei mai e poi mai bigliettini alle ragazze…”
“E meno male, se no mi
sembrerebbe di vivere in un asilo! Ron, senti, non
puoi farmi una scenata ogni volta…”
“Ah, no? Perché no? E’ un mio diritto! Finché tu non…”
“Ron,
apri bene le tue stupide orecchie, e riferisci al tuo cervello, quando si
sveglia, quello che sto per dirti: io non ho, né ho mai avuto, né avrò mai, una
relazione con Viktor Krum,
per il semplice fatto che al momento sono
innamorata da morire dell’idiota che ho davanti!”
Va bene, non è stato il modo più
dolce che avrei potuto usare per dirtelo, ma è la rabbia che mi scatena
l’arditezza. Tu mi hai guardato ed hai sbuffato, ma non hai ribattuto più
niente. Te ne sei andato nell’altra stanza e dopo cinque minuti sei tornato, mi
hai abbracciata e mi hai baciata. Anche quel giorno, sulla tavola accanto,
c’era un vaso pieno di fiori.
Dev’essere stato il periodo più bello della mia vita.
Litigavamo come ragazzini, facevamo pace. Se non ci vedevamo al lavoro, ci
vedevamo a casa, e quando avevamo qualche giorno di ferie uscivamo insieme o
con gli altri, e la sera facevamo l’amore. La passione che avevo per te non
aveva data di scadenza, era sempre la stessa ogni giorno che passava, ogni
giorno.
Sarebbe bello, per me, raccontare
di altri episodi felici di quei sedici mesi di convivenza, dei nostri
diciannove e vent’anni passati non come amici, ma
come ragazzo e ragazza. Delle gite al parco con Harry
e Ginny, delle risate, dei baci, degli sguardi e
delle dita che si sfioravano. Del tuo spazzolino nel bagno di casa nostra, del
modo in cui riuscivamo a pagare sempre l’affitto alla fine del mese, del modo
in cui tu hai aiutato mia madre a trovare una bella casa e sei andata a
visitarla durante il periodo di convalescenza da una polmonite quando io dovevo
lavorare. Di quando ero io ad andare dai tuoi genitori, di quando ti ho
insegnato ad usare la televisione. Sarebbe bello, ma troppo doloroso, sono
ricordi che voglio tenere per me e preferisco non scrivere.
Dicono che mettere nero su bianco
le esperienze più brutte ed esprimersi sull’argomento possa essere terapeutico.
Se può essere una sostituzione più leggera della Terapia della Memoria, posso
anche farlo, ma non garantisco di arrivare fino in fondo.
Era febbraio dell’anno successivo.
Il sedicesimo mese. San Valentino era già passato, ma a parte il fatto che a me
ricorrenze del genere facevano semplicemente ribrezzo, anche se avessimo voluto
festeggiarlo, l’avevamo saltato a piè pari a causa del lavoro. Infatti, circa
tre o quattro mesi prima alcuni Mangiamorte erano
evasi dal carcere (che non era più Azkaban, dato che
i Dissennatori erano passati dalla parte di Voldemort) ed avevano portato con loro anche un gran
terrore tra tutti. Mia madre aveva ripreso a fare degli strani incubi, Harry andava al San Mungo ogni giorno perché la cicatrice
gli faceva così male da sembrargli di morire, io non riuscivo più a dormire
bene, tu lavoravi ininterrottamente e non riuscivi più nemmeno a ridere come al
solito. I babbani in pericolo di vendette erano stati
riportati negli istituti di protezione d’identità, così anche il nostro
precedente lavoro di cancellazione della memoria era andato completamente in
fumo.
Un giorno, tu ed Harry avete ricevuto una lettera dall’esercito. Il
comandante vi aveva riconvocati alle armi. Ricordo di aver aspettato quella
lettera per tutto il tempo, ma non arrivava mai. Così, preoccupata che fosse
andata dispersa, avevo deciso di chiamare il comandante con la Metropolvere. Il quale, senza neanche farmi aprire bocca,
mi aveva spiegato che quella lettera di convocazione non era andata affatto
persa. Questa volta lei è fuori, Granger, ha
detto, quella sera, non possiamo fare altrimenti. La missione è troppo
pericolosa, e non ne posso parlare qui. Oltretutto, con tutto il rispetto, lei
è pur sempre una mezzosangue, e se i Mangiamorte lo
scoprissero i soldati dovrebbero proteggerla, e lei diventerebbe
automaticamente un peso. Lei è uno dei nostri soldati migliori, ma le donne,
questa volta, anche se fossero le migliori strateghe sul pianeta, verranno
lasciate fuori. Là fuori c’è molta più violenza e crudeltà di quanto si
immagini: ha solo vent’anni, e non merita di vederla,
non ancora. Rimanga a casa, e lo faccia per tutti noi che cerchiamo di fare il
nostro meglio.
Alla fine, la tua mentalità
sessista, in un certo senso, aveva avuto la meglio anche sui comandanti. Non
avevo scelta: dovevo rimanere a casa. Tuttavia, ero riuscita ad informarmi
sulle coordinate della partenza. Pareva che l’esercito sarebbe partito dalla
base segreta di Londra quella notte stessa, alle quattro.
Come a voler confermare il mio
terrore, tu sei tornato molto presto, verso sera, che il sole era appena
calato. Sembrava fosse tutto normale, tranne l’orario del tuo ritorno, ma c’era
un silenzio innaturale. Hai alimentato il fuoco che io avevo acceso e poi ti
sei voltato verso di me, che me ne stavo seduta nervosamente al tavolo, con Grattastinchi che giocava accanto al vaso senza fiori con
la tua Ricordella. Non mi hai
sorriso.
-
Stanotte
parto. – hai detto, semplicemente.
Il mio cuore ha mancato un
battito, anche se lo sapevo già.
-
Sì – ho
mormorato. – me l’hanno detto. –
-
Non ti
hanno dato il permesso di venire, vero? –
Sul momento, mi sembrava l’avessi
chiesto per prendermi un po’ in giro. Ho realizzato solo dopo che ti stavi
accertando che fossi al sicuro.
-
No… hai
vinto tu – ho scherzato, ma tu hai sorriso solo un po’.
Siamo rimasti un po’ in silenzio a
fissare il fuoco, senza sapere bene cos’altro dire. Anche se mancavano otto ore
alla tua partenza, mi sembrava che fosse tutto così imminente. E non sapevo
perché, ma non mi sentivo affatto bene. Mi chiedevo perché non avessero
accettato le donne in quella missione. Mi chiedevo se davvero era così
pericolosa. La cosa più terribile, era che ero certa che lo fosse, che fosse
fin troppo rischiosa. Non tanto perché non avevano accettato che partecipassi,
quanto per la tua espressione. Eri così serio, così imperscrutabile, quella
sera. Sapevo che era inutile chiederti informazioni, non me le avresti date. Ma
sentivo una strana sensazione all’altezza dello stomaco, una sensazione
orribile.
-
Beh…
vado a dormire un po’. Altrimenti non mi sveglierò in tempo. – hai detto. Ma al
contrario delle altre sere, quando con la tua tipica insensibilità mi lanciavi
solo uno sguardo come a chiedermi di seguirti, oppure eri troppo stanco, quella
volta sei venuto verso di me, ti sei chinato, e mi hai baciata sulle labbra.
Appena, appena. Ho circondato il tuo collo con le braccia, mentre quella brutta
sensazione si alimentava ancora di più, ed abbiamo approfondito il bacio. Mi
abbracciavi, tenevi le mani sulla mia schiena, ma non eri impetuoso come al
solito. I tuoi gesti erano molto più lenti, e mi tenevi stretta stretta. Questo mi spaventava ogni secondo di più, perché
sembrava che stessi assaporando qualcosa che non avresti più avuto.
Ad un certo punto, devo aver
emesso una specie di gemito, o di singhiozzo, perché ti sei separato da me e mi
hai guardato confuso.
-
Cosa
c’è? – mi hai chiesto, a voce bassa, più gentile.
Mai, mai nella mia vita avrei voluto
che tu fossi meno gentile. Avrei voluto che non fossi tornato indietro a darmi
un bacio, avrei voluto che fossi stato molto più sbrigativo, avrei voluto che
fossi stato più brusco, se questo poteva liberarmi dall’oppressione al cuore
che andava aumentando.
Avevo il respiro affannoso. Io
sapevo, ma non volevo crederci. Non volevo… non volevo crederci.
Così, ho fatto un ultimo
tentativo.
-
Non
andarci – ho singhiozzato. Un attimo dopo, sono scoppiata a piangere. – per
favore. –
Non so che espressione facessi
mentre avevo gli occhi offuscati dalle lacrime. Ti ho sentito prendere un gran
respiro, e mi hai abbracciata.
-
Non
piangere. –
Ho singhiozzato più forte,
circondandoti la schiena con le braccia. Non mi aveva detto di no. Ci sarebbe andato, per quante lacrime potevo versare.
Mi hai stretta più forte.
-
Non
piangere, per favore. –
Mi hai baciata, ed ho sentito il
sapore delle mie stesse lacrime. Tenevi una mano dietro la mia nuca, come la
prima volta che mi avevi baciato. A pensarci bene, erano passati quasi due anni
da allora.
Mi hai portato in quel letto in
cui avevamo dormito tanto volte insieme, ti sei steso accanto a me e mi hai
abbracciata come se fossi stata una bambina che aveva appena fatto un brutto
incubo. Io continuavo a piangere e non riuscivo più a fermarmi, e tu rimanevi
in silenzio, ed ogni tanto mi baciavi sulla fronte o sulle labbra. E tenevi una
mano sul mio ventre, ed ogni tanto sulla schiena, e mi accarezzavi molto
innocentemente, più di quanto avessimo fatto altre volte.
Alla fine, mi sono addormentata,
che ancora piangevo.
Forse, sembrerebbe più triste se
dicessi che al mio risveglio abbiamo litigato, che te ne sei andato sbattendo
la porta ed io ero lì dentro che ti portavo rancore e tu là fuori che non
tornavi più. Invece, è stata l’unica volta che posso dire con sicurezza che non
abbiamo litigato. Mi sono svegliata, di nuovo, prima di te. E la mia
intenzione, seriamente, era quella di non farti alzare per le quattro. Di
svegliarti quella mattina alle undici, a mezzogiorno, se volevi. Bastava che
rimanessi. Ma tu ti sei svegliato lo stesso poco dopo.
Hai indossato la divisa da Auror, mentre io mettevo la vestaglia, e ci davamo le
spalle, perché dopo più di un anno di conseguenza eravamo ancora capaci di
sentirci in imbarazzo a vederci così. Hai preso la borsa, ci hai ficcato dentro
qualche altro cambio, delle scarpe e ti sei alzato. C’era solo qualche lume
alla parete, fuori era ancora buio, ed ancora freddo. Mi ero dimenticata di
cambiare i fiori nel vaso.
Tenevo le braccia incrociate per
il freddo. Tu mi hai baciato sulle labbra, ma ti sei staccato quasi subito.
Sapevi che se fossi stato un attimo di più lì con me, non ti avrei mai permesso
di andartene, a costo di battermi a duello con te.
Chissà perché avevo quella brutta
sensazione proprio riguardo a te. Ero sì preoccupata per Harry,
ma non ero lo stesso. In qualche modo, sapevo che lui se la sarebbe cavata. Ma
tu… tu per me eri imbattibile, ma fuori? Chi eri fuori, per non farti fare del
male? Ed io non potevo nemmeno essere lì, e sperare di aiutarti.
Non dimenticherò mai lo sguardo
che mi hai lanciato quando hai aperto la porta. Improvvisamente, non so perché,
mi hai fatto quel gran sorriso, come se stessi andando ad un esame sicuro di
passarlo.
-
Ciao, Hermione. – hai detto.
Stavi per chiudere la porta.
Ho trattenuto un singhiozzo.
-
Ron. –
Ti sei fermato.
-
Cosa? –
Ho
preso il fiato.
-
Ti amo,
sai. – ho borbottato.
So che sembrerà incredibile, ma
veramente in tutto quel tempo non ero ancora riuscito a dirti qualcosa di più
del semplice ‘mi piaci’, anche se effettivamente
provavo qualcosa di decisamente più intenso.
Tu mi hai guardato, un po’
stupito. Sei tornato indietro, ancora la borsa in spalla e mi hai baciata di
nuovo.
-
Ti amo,
sai. – hai scherzato, ridendo un po’.
Ed è così che è andata. Quelle
sono state le ultime parole che ti ho sentito dire. Sei uscito dalla porta, e
veramente non sei più tornato.
Neanche due settimane dopo, da
quella stessa porta, hanno bussato due Auror inglesi
che tenevano in mano quel borsone ed un taccuino. E le loro parole mi
rimbombavano nelle orecchie, e faticavo così tanto a comprenderle che sembrava
parlassero un’altra lingua. Ci hanno
detto che Ronald Weasley viveva qui. Sì. Perché
‘viveva’? Lei è sua moglie? No, sono la sua convinvente. Ma perchè avete detto
‘viveva’? Ci
dispiace, signorina. Ronald Weasley
è caduto durante una battaglia ai confini, da una Maledizione Senza Perdono
lanciatagli da un Mangiamorte.
Mi hanno dato la borsa ed hanno
detto qualche altro mi dispiace. Ed hanno mormorato altre parole che non
ho più ascoltato, hanno parlato di patria, di coraggio, di eroismo e di quanto
tu sia stato forte ed abbia reso onore alla tua famiglia ed all’Inghilterra.
Quando sono rimasta sola, io non
riuscivo a piangere. Con una freddezza esasperante anche per me stessa, ho
aperto la borsa. Dentro c’erano i tuoi vestiti, intatti, esattamente come li
avevo visti che li mettevi lì dentro due settimane prima. C’era quel paio di
scarpe tutto infangato. C’era la tua bacchetta, graffiata, ma inalterata. Non
vedevo altro. Era rimasta solo, sul fondo, la Ricordella.
Non sapevo nemmeno l’avessi portata con te.
L’ho presa tra le dita. Era vuota,
sembrava quasi che non funzionasse.
Dopo qualche attimo che l’ho
tenuta in mano, si è formato un denso fumo rosso.
Ho alzato lo sguardo verso la
tavola.
Era vero. Mi ero dimenticata di
cambiare i fiori del vaso da due settimane.
E sono scoppiata a piangere.
“And
maybe, I'll find out “E forse, troverò
A way to make it back someday un modo
per farlo tornare un giorno
To watch you, to guide you, per vederti, per guidarti,
through the darkest of your days attraverso il buio dei
tuoi giorni
If a great wave shall fall and fall upon us all se un enorme onda si infrangesse
su tutti noi
Then I hope there's someone out there allora
spero che ci sia qualcuno
là
Who can bring me back to you” che mi possa riportare
da te”
E tutto quello che è successo
dopo, mi risulta molto più confuso nella mente. Ricordo che un’ora dopo la
notizia, Harry è arrivato a casa mia e mi ha trovata
che piangevo ancora lì vicino al borsone, e mi ha abbracciata, e mi ha detto
che mi avrebbe raccontato tutto, che tutto sarebbe andato a posto. Ho saputo
che c’era anche lui durante quel combattimento, che aveva visto il volto di chi
ti aveva ucciso, e che sarebbe partito subito dopo per tornare nell’esercito e
cercarlo, ma che voleva sapere come stavo. Beh, stavo male. Mi ha anche
raccontato che tu avevi pianto la sera in cui eri arrivato nell’esercito, due
settimane prima, e gli avevi detto che non sapevi come fare, che avresti voluto
rimanere con me, ma non potevi, perché dovevi combattere.
Harry è dovuto andarsene che ancora piangevo. Poco dopo deve
aver chiamato mia madre, perché è arrivata tutta affannata, si è buttata a
terra e mi ha abbracciata come quando ero piccola. Anche lei mi ha detto che
sarebbe andato tutto a posto, che presto sarebbe passata, che sarei stata bene.
Sono andata a casa sua ed ho dormito nel lettone con lei, e continuavo a
singhiozzare, ma non avevo più lacrime.
Il resto, è tutto un angosciante
susseguirsi di cose che preferisco non descrivere. Come la mia visita a casa
tua, dove tutti piangevano, e le parole che non riuscivamo a dirci, e le cose
che non riuscivamo a spiegarci. Il funerale, la cosa più triste e più dolorosa
di tutte, con la bandiera inglese, e tutti gli Auror
spiegati, ed il silenzio, e le lacrime, e i gemiti, e le strette di mano. E le
frasi di circostanza, e gli abbracci, e le pacche sulle spalle.
Ma nessun abbraccio riusciva a
scaldarmi più, e nessuna frase mi entrava più in testa.
Pochi giorni più tardi, tutti
dovevano tornare alla propria vita abituale, ma io non ricordavo nemmeno come
fosse. Proprio in quel periodo, Harry finalmente era
riuscito ad uccidere Voldemort ed i Mangiamorte erano stati arrestati, anche se alcuni erano
andati semplicemente dispersi. La guerra era finita, ma per me sorridere e
congratularmi non aveva più alcun senso.
Dovevo trascinarmi in giornate che
per me erano al limite dell’assurdo, che non sopportavo, alzarmi la mattina
senza volerlo veramente, andare a dormire e sperare di rimanere lì. Ma come
dicevano quelle frasi di circostanza, presto passarono le settimane, poi i
mesi, poi gli anni, ed ogni sera una lacrima in meno. Tutto passa,
bambina mia. La
mamma aveva ragione solo in parte. Perché è vero che al compimento dei miei
ventuno anni avevo ormai smesso di piangere ogni sera, ma il pensiero torna,
come ho detto all’inizio, torna sempre.
A ventitré anni, ho trovato una
tasca nel tuo borsone, una tasca che non avevo mai visto, che conteneva un
foglio scarabocchiato. Non è proprio una lettera, ma alcune frasi che hai scritto
durante la guerra, e di cui per tre anni sono stata all’oscuro. Questa
lettera l’ho incantata perché si possa vedere a tre anni dopo la mia morte. Se
qualcuno la sta leggendo, significa che veramente non ci sono più, quindi non
perdete tempo a cercarmi. Sono Ron Weasley, ed a chiunque trovi questa lettera voglio chiedere
un favore. Andate dalla mia famiglia e dategliela. Ho qualcosa da dire ad
ognuno di loro, e anche se non varrà più molto preferisco che non ne rimangano
all’oscuro.
Alla mamma ed al papà chiedo
scusa. Perché se sono morto in guerra significa che non sono potuto diventare
un Auror, e che quindi alla fine non vi ho potuto
ripagare tutti i libri di scuola e le strillettere
che mi avete mandato, e la mia pigrizia. Avrei voluto diventare Auror al Ministero, ma evidentemente non era destino: spero
almeno di avervi dato un po’ soddisfazione diventando un soldato.
Ai miei fratelli. A Bill chiedo di stare di più a casa in mia assenza, a Charlie dico lo stesso, ma gli chiedo anche di impegnarsi molto
nel suo lavoro, anche per me. A Percy, se mai si
degnerà di leggere questa lettera, chiedo di diventare buono. Gli chiedo di
credere alla sua famiglia e non al lavoro, e di trattare meglio la mamma,
altrimenti gli tirerò i piedi mentre dorme. A Fred e George dico di guadagnare un sacco di soldi con i loro
scherzi, perché altrimenti la loro è un’esistenza inutile ed io ho investito le
mie sudate paghette a caso, e quindi di farmi andare fiero di loro. A Ginny chiedo solo di non piangere troppo, perché la sua
faccia diventa strana quando piange. E di non andare a mettersi con qualche
ragazzo strano, ma si rimanere ferma e solida con Harry,
che è l’unico di cui mi fidi, in un certo senso. A Harry,
chiedo di essere gentile con Ginny e di continuare a
fare il deficiente come al solito, ma specialmente di vincere la guerra. Di non
fare l’eroe e di ricordare che con lui c’ero anch’io, almeno a reggergli il
moccolo.
A Hermione. A Hermione dico di smetterla di
piangere. Perché
anche se si ostina a dire che non è tipo da piangere, ultimamente lei ha pianto
spesso. E so che piangerà quando scoprirà che cosa mi è successo, e che se
leggerà queste righe piangerà anche stavolta. Ma dopo questa, basta, per
favore. Dopo aver letto tutto questo, per me non si piange più, va bene, Hermione? Lo sai che non lo sopporto e non fare la furba,
perché di tengo d’occhio. Muoviti e diventa un Medimago,
che non riesco a pretendere di meno da te. E rimani insopportabile e precisina come sempre, altrimenti non potrò ridere di te
senza che tu non te ne accorgi. Va bene?
Va bene.
E ricordati di cambiare i fiori
nel vaso, che è un lavoro da donne e tu ti dimentichi sempre.
E’ stato da quando ho trovato
quella lettera che ho cominciato a scrivere questa, che è indirizzata a te,
anche se ho raccontato cose che sapevi benissimo. Fra poche righe raggiungerà i
dodici fogli, ed allora io smetterò di scrivere. Solo dodici fogli, eppure
sette anni per scriverli. Perché ho raccontato fatti troppo dolorosi per
riportarli di getto.
Luna ha letto la prima parte. E’
diventata direttrice del Cavillo, e mi ha chiesto se voglio che sia pubblicata
come testimonianza della seconda guerra magica più grande e distruttiva del
mondo. Le ho detto che ci avrei pensato, ma avevo già deciso di no. Preferisco non far sapere a tutti cosa sia successo.
Adesso ho trent’anni,
e la mia vita scorre normalmente. Sono un Medimago, e
sono ancora insopportabile e precisina, ma molto meno
ingenua e illusa, o ambiziosa. A ventisei anni Viktor
mi ha chiamata e siamo usciti insieme. Mi ha chiesto di uscire ancora, ma ho
rifiutato. Non mi piaceva, come ho sempre detto, ma specialmente non piaceva a
te, e questo te lo dovevo. Ma non potrà andare così per sempre. Non ti scriverò
più lunghe lettere sapendo che non puoi rispondermi. Dovrò andare avanti, così
come tutti, bene o male, sono andati avanti, e non ti garantisco che nel mio
futuro non ci sarà una o più relazioni sentimentali.
Ma quello di cui sono sicura è che
mai, mai raggiungerò la felicità incondizionata che ho raggiunto dieci anni fa,
che mai, mai amerò qualcuno come ho amato te, e non litigherò ma, mai con
qualcuno come ho litigato con te.
Ogni tanto, vengo a trovarti.
Ed ecco dove finisce la parte del
dodici nella mia vita.
Ti porto, ogni volta, dodici
fiori.
Dodici fiori in un vaso, gli
stessi fiori che c’erano sulla tavola di casa tua quando avevo diciotto anni e
mi hai baciata per la prima volta.
Spero ti piacciano.
”Run away with my heart “Scappo
col mio cuore
Run away with my hope scappo con la mia speranza
Run away with my love scappo col mio amore
I know now, just quite how, adesso so, almeno un po’,
My life and love may still go on la mia vita ed il mio amore potrebbero
andare ancora avanti
In your heart, in your mind, nel tuo cuore, nella
tua mente
I'll stay with you for all of time starò con te
per tutto il tempo.
If I could, then I would, Se potessi,
allora vorrei
I'll go wherever you will go andare ovunque tu andrai
Way up high or down low… sopra la strada veloce o sotto quella lenta…
I'll go wherever you will go.”
andrò ovunque tu andrai.”
**
Ecco, alla fine anch’io mi sono
cimentata in una one-shot triste. Mi sono depressa da
sola scrivendola… d’altra parte, l’ho scritta un po’ anche per esorcismo,
perché spero che Ron non muoia mai ._. Credo che il
testo della canzone sia molto adatto, e dire che gliel’ho associato quasi per
caso.
Fatemi sapere cosa ne pensare, per
favore ^_^
A presto!
Miwako__