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Autore: hp_in_my_heart    09/09/2014    5 recensioni
Salve a tutti! Stavolta sono approdata nel mondo delle originali, con una storia ambientata all'epoca della seconda guerra mondiale e in particolare nella notte del D-Day. Cosa succede se un paracadutista canadese viene catturato da un gruppo di soldati italiani? Scopritelo!
[Questa storia partecipa al "This is war" contest indetto da ManuFury sul forum di EFP.]
Genere: Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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Buosalve a tutti! Nuova storia, stavolta un'originale. Che dire, spero vi piacca!

Il capitano guardò il proprio orologio da polso, nervoso. Erano solo le dieci e un quarto. Sarebbe stata la notte più lunga della sua vita, senza dubbio. Doveva solo cercare di fare in modo che non fosse l'ultima.
Si alzò di nuovo e camminò per la stanza, agitato, sebbene si fosse seduto sulla branda meno di cinque minuti prima. Niente riusciva a calmarlo, nemmeno il fatto che tutti gli altri intorno a lui erano nelle sue stesse condizioni: ansiosi, nervosi, qualcuno addirittura aveva paura. Bè, riuscì a consolarsi per un momento, questo non è il mio caso.
Era una piccola bugia, in verità. Un po' di paura l'aveva anche lui, e anche un cieco avrebbe visto che aveva i nervi a fior di pelle: non tanto per quel suo modo caotico e privo di continuità che aveva di girare in tondo e sedersi, no, piuttosto dal fatto che toccava il taschino della divisa ogni due secondi. E non per il taschino in sé, naturalmente, ma per quello che ci teneva quasi nascosto dentro.
Non era niente di speciale, in verità. Ma lui avrebbe minimo tagliato una mano a chiunque avesse toccato quegli occhiali da sole neri, senza marca, che era sparita a furia di essere toccata dalle sue dita impazienti. Eccolo lì, il suo antistress bello e pronto: quegli occhiali da sole che gli aveva regalato la sua ragazza un anno e mezzo prima, in occasione del suo ultimo permesso. Sentire la forma e la consistenza degli occhiali sotto la stoffa della divisa era incredibilmente rassicurante.
Il rumore improvviso di qualcosa che cade a terra frusciando lo riscosse dai suoi pensieri. Un paio di commilitoni, seduti in un letto vicino, stavano giocando a carte e ne avevano fatta cadere qualcuna. Non li rimproverò perchè stavano giocando in servizio, poiché normalmente avrebbe fatto anche lui una cosa simile, o magari si sarebbe fatto un doccia per calmarsi, come talvolta faceva prima di una missione.
Ma non quella sera. Lui non aveva tempo né per le docce, né per giocare a carte. Avrebbe lasciato che i suoi uomini si distraessero, purché restassero nei limiti, ma lui doveva stare attento al segnale. Era un capitano canadese di una squadra di sabotatori la notte del D-Day, vale a dire, una vittima designata.
Non sapeva se fossero passati cinque minuti oppure un'ora (era riuscito a non guardare più l'orologio), ma improvvisamente l'aria della stanza fu squarciata da una luce rossa a singhiozzi e un suono acuto che andava e veniva. Ecco il segnale! Quasi all'unisono si diressero fuori dalla porta, chi imprecando, chi in completo silenzio, e raggiunsero l'aereo che era stato assegnato alla squadra.
In pochi minuti si ritrovarono tutti pigiati su quell'aereo, ciascuno col suo bel paracadute bianco sulla schiena. Per un attimo cercò di dimenticare dove fossero diretti, cercò di convincersi che quella fosse una missione normale, ma non vi riuscì; solo allora la paura dilagò nel suo stomaco come liquido acido, bruciandogli le viscere. I suoi compagni non erano in condizioni migliori: chi pregava, chi si guardava intorno, stordito, chi imprecava e chi si accasciava sulle ginocchia, non svenuto, ma sopraffatto improvvisamente dalla paura.
Presto, troppo presto, l'aereo partì e prese quota, continuando a fare un rumore assordante via via che aumentava la velocità. Diversi soldati impallidirono, evidentemente poco amanti dell'altezza o della velocità elevate, o forse solo dalla paura. Il capitano cercò di apparire normale, per non fare brutta figura, e toccò per la millesima volta gli occhiali nel taschino. Si rasserenò appena, ma non servì a molto. Era consapevole che entro pochi minuti avrebbero dovuto lanciarsi nel vuoto, senza nessuna certezza sul luogo in cui sarebbero atterrati.
Infatti, nemmeno i piani alti dell'esercito sapevano che fine avrebbero fatto davvero. Avevano calcolato, all'incirca, la zona, ma non c'era precisione nei loro calcoli, un po' perchè non conoscevano bene il territorio, un po' perchè non avevano tenuto conto di variabili climatiche come il vento o la pioggia, ovviamente imprevedibili con molto anticipo. Questo, ovviamente, non faceva altro che amplificare la paura tra i soldati.
Nulla avrebbe potuto salvarlo, ormai. Erano arrivati al punto di lancio. Per dare il buon esempio, si gettò per primo, sperando che il paracadute si aprisse.
Duecento metri a volo d'uccello, senza alcun freno. Lo stomaco in gola, le lacrime agli occhi per il vento. E l'estrema sensazione di libertà. Si sentì sollevato quando il paracadute si aprì con un forte strattone. Il volo gli era piaciuto, ma preferiva la sicurezza. Fu ancora più sollevato quando toccò terra con tutti gli arti a posto. La sicurezza delle loro gambe non era garantita.
Il suo stomaco sussultò un paio di volte per l'impatto, ma per il resto era tutto intero. Perciò, si concesse il lusso di asciugarsi il sudore dalla fronte e guardarsi intorno.
Il paesaggio era piuttosto particolare. Era in quello che pareva un paesotto di campagna, ovviamente deserto a quell'ora. Però, era certo che entro pochi minuti avrebbe avvistato dei soldati.
Non si vedeva a più di cinque metri di distanza, almeno finchè un paio di fari emersero dal fondo della strada. Non aveva fatto in tempo a togliersi il paracadute dalla schiena, figuriamoci nascondersi da qualche parte. Infatti, venne miseramente raggiunto dalla macchina, seguita immediatamente da altre due. Per un folle istante, sperò che fossero macchine qualunque, ma fu subito chiaro che erano militari. Venne abbagliato per un secondo dai fari.
Tutti erano alti, nerboruti e col fisico da militari. Non appena lo videro, lo accerchiarono strillando in italiano, una lingua che lui capiva poco o niente. Andava meglio col francese, ma dubitava che quelli conoscessero il francese. Rapidamente, venne debitamente preso a calci e pugni, preso a spalla da uno di quelli, infine gettato a bordo di un'auto.
Il viaggio era durato un'ora, o cinque minuti, non ne era certo, con tutti quei pensieri molesti che gli pungevano il cervello come tanti calabroni. Qualche taglio sanguinante e un bel po' di lividi e contusioni gli tennero compagnia.
Dopo qualche svolta, si trovarono davanti ad una costruzione bassa, ad un solo piano, con alte pareti di filo spinato intorno. E' una caserma, pensò. Bene, la sua missione era finita prima di cominciare, si era diviso dai suoi uomini, ed era stato catturato da una pattuglia nemica. Peggio di così non poteva andare, e in quel momento provò vera paura.
I soldati nemici lo circondarono, e lo portarono quasi di peso lungo un corridoio. La traversata parve durare secoli, ma probabilmente furono solo pochi minuti. In fondo al corridoio c'era una porta chiusa. Uno degli uomini bussò e aprì.
<< Sergente, abbiamo catturato un soldato nemico... Lo portiamo giù nelle celle per l'interrogatorio o resta qui?>>
Il capitano non capì molto della domanda, solo che volevano interrogarlo e che, forse, l'avrebbero portato altrove. Ma dove fosse questo “altrove”, non ne aveva idea. Comunque, di certo era nei guai, in grossi guai. Interrogatorio, una della poche parole che sapeva in italiano, già l'aveva spaventato.
Il sergente, un uomo non molto alto ma muscoloso e asciutto, coi pochi capelli riportati a sinistra, si alzò e annuì. Si portò subito di fronte a lui e chiese come si chiamava.
Il capitano non capì, e fece no con la testa.
<> Osò dire uno dei soldati presenti, quello che era rimasto vicino alla porta e si era appoggiato allo stipite. << Dall'uniforme mi sembra canadese, quindi forse parla francese. Vado a chiamare Guido, che sa un po' di francese, e vediamo cosa viene fuori.>>
Il sergente annuì, e cercò di spiegare al capitano, con un inglese smozzicato, molto incerto e dal forte accento italiano, cosa aveva intenzione di fare. Era a malapena comprensibile, ma il capitano capì e si rilassò, almeno per il momento. E poi, aveva sempre i suoi fidi occhiali da sole nel taschino: se si fosse agitato troppo, poteva sempre toccarli.
Il soldato di prima tornò con quello che doveva essere il famoso Guido. Costui era un ragazzo giovane, quasi imberbe, e sicuramente fresco di studi. Comunque, da quel momento in poi fece da interprete tra lui e gli italiani. Il sergente non si era sbagliato:  conosceva un po' di francese.
Le domande furono le solite: come ti chiami, da dove vieni, chi sono i tuoi superiori, dove sono i tuoi compagni. A ogni domanda, un paio di schiaffi o calci a mo di incoraggiamento. Lui cercò di dire il meno possibile, senza mentire o sparare panzane troppo grosse. Dette un nome falso, per sicurezza, e aumentò apposta il numero di forze alleate in Italia. Un po' di disinformazione fa sempre comodo, specie se a subirla sono gli altri.
Il sergente non ne fu contento. Si alzò, minaccioso, e l'ennesimo schiaffo partì quasi in automatico.
<< Perchè ti sei fatto catturare da gente come noi?>> Chiese il sergente. Forse lo riteneva abile, o l'aveva preso in simpatia. O, più probabilmente, voleva solo prenderlo in giro.
<< In guerra si va con due bastoni, uno per darle, uno per prenderle.>> Rispose. << In questo momento le sto prendendo, ma non è detto che prima della fine non debba cambiare bastone.>>
Il sergente annuì, soddisfatto. Evidentemente apprezzava gli audaci.
<< Signore, che ne facciamo di lui? Non ci ha detto molto, e dubito che ci sarà utile come ostaggio.>> Disse un altro soldato.
<< Sono convinto che non abbia detto la verità, o che abbia taciuto qualcosa. Portatelo di sotto, e poi decideremo cosa farne. Potremmo anche interrogarlo con le maniere forti, se necessario.>> Fu la risposta. Guido si accinse a tradurre.
Stava per lasciarsi sfuggire un sospiro di sollievo. Lo stavano trattenendo per accertamenti, ma non ci vedeva niente di pericoloso, almeno non nell'immediato. Sì,  era stato malmenato e probabilmente quando era stato catturato gli avevano rotto il naso che continuava a fagli male da allora, ma se  non altro, quella non sarebbe stata la sua ultima notte.

 
  
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