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Autore: susita21    10/09/2014    0 recensioni
"A volte bisogna sperare che ci sia qualcuno nel mondo che vuole solo la tua felicità, e che farebbe tutto per te".
Questa è la storia di alcuni ragazzi, a cui è capitato di incontrarsi e migliorarsi la vita. Sono Jazmine e Theo, Pam e Elijah, Fannie e Jared, Amelia e Nathan.
Racconteremo le loro storie, le vivremo con loro. Le storie di come si sono conosciuti, innamorati, e di come hanno esaudito l'uno i desideri dell'altra, o viceversa.
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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RITORNO AL PASSATO.


[Jared Williams-Fannie Richardson]
 
26 Luglio, 2000.
 
«Papà, quando andiamo a prendere la mamma?»
«Tra poco, Jared».
«Allora mi vado a preparare?»
«Si, ma fai poco rumore».
Era sempre una lotta per me parlare con mio padre. Lui non mi voleva bene, lo sentivo. Ma io a lui gliene volevo, gliene volevo eccome. Salii silenziosamente nella mia cameretta, e accostai la porta.
Volevo vedere la mamma, mi mancava molto, ma non volevo salire in macchina con mio padre. Anche un bambino di quattro anni capisce quando c’è qualcosa che non va, e con mio padre c’era sempre qualcosa che non andava. Ne parlai con la mamma una volta, ma lei mi disse di non badarci e pensare che se mi fossi comportato bene, non ci sarebbero stati problemi.
Mi sedetti rattristato sul letto, e da lì sentii mio padre che urlava contro qualcuno in televisione che non passava la palla. “Odio chi ha inventato la televisione”, pensai. Per un bambino non erano i pensieri giusti da fare, ma con un papà che passava l’intera giornata davanti alla tivù, non si può pensare che questo. Decisi di prepararmi, riscesi le scale, e mi sedetti sull’ultimo gradino. Mio padre finalmente spense la televisione e mi guardò. «Che diavolo vuoi, moccioso?» Nessuna risposta. La mamma mi aveva insegnato a non rispondere quando mi chiamava moccioso. Mi dette una spinta e salì le scale. Ero terrorizzato quando si comportava così, non portava niente di bello.
Qualche minuto dopo, salimmo in macchina. Dal sedile posteriore potevo vedere il riflesso del volto di mio padre sullo specchietto. Non era un bel volto. Aveva i capelli già grigi e qualche ruga sulla fronte. Il colore degli occhi mi piaceva, nero pece, ma emanavano odio e disprezzo. Soprattutto quando erano rivolti verso di me.
Svoltato l’ultimo isolato arrivammo di fronte alla scuola elementare dove insegnava la mamma, e lei ci venne incontro. Salì in macchina, ci salutò e papà ripartì sgommando. Ero convinto che lei lo amasse, anche con tutti i difetti, ma non ero molto convinto che lui provasse gli stessi sentimenti. Si vedeva da come le parlava, da come la guardava. Non si guarda così tua moglie e la madre di tuo figlio.
Eravamo a casa da qualche ora, e mia madre ed io stavamo preparando la cena. Mio padre scese le scale, si affacciò in cucina e con voce rauca ci avvertì che non avrebbe cenato con noi. ”Neanche questa sera..”, pensai. «Dove vai?», gli chiese mia madre. «Non impicciarti di affari che non ti riguardano, donna». Era fastidioso. «Ti lascio la cena in forno?», mio padre non rispose e se ne andò. Lo prendemmo per un no.

Per cena, avevamo preparato un’insalata di riso e dei pomodori e fette. Mentre mangiavamo guardavo la mamma, e mi chiesi come avesse fatto a sposare un uomo come mio padre. «Perché l’hai sposato, mamma?», mia madre mi guardò, ma vidi nei suoi occhi una scintilla di tristezza. «Non voglio che tu dica queste cose, Jared. Io lo amo, e lui ama me. Un giorno proverai anche tu un amore come questo». «Non credo, mamma. Io non chiamerò mai mia moglie “donna”, ma “cara” o “piccola” o “tesoro”. E non chiamerò neanche mio figlio “moccioso”, non è bello». Mi guardò stupita, ma poi mi sorrise. «Vieni qui piccolo mio». Scesi con un salto dalla sedia, e mi sedetti sulle sue ginocchia, appoggiando la testa sul suo petto. Mi piaceva sentire il battito del suo cuore. Era un suono rilassante, e il suo corpo emanava sempre calore. Mi addormentai lì, lasciando il resto della cena sul piatto.
A notte fonda, mi risvegliai nel mio letto, e sentii mio padre rientrare. Salì le scale, e percorse il corridoio verso la sua camera. Ma improvvisamente si bloccò e ritornò di sotto. Udii la porta d’ingresso aprirsi e poi richiudersi. Affacciandomi dalla finestra della mia camera lo vidi uscire in giardino, diretto al cancello del vialetto. Scesi in fretta le scale, cercando di non fare comunque rumore, ed uscii in giardino anch’io. Lui mi sentì, si voltò e sbuffò.
Non avrei voluto davvero scendere le scale e seguirlo, ma non volevo che stesse per fare quello che pensavo. Non sapevo che dire, come sempre. Ma iniziò lui a parlare: «Torna a letto». Aveva lo sguardo duro, e portava una valigia nella mano destra. Fece un gesto con la mano, come per scacciarmi, ma io mi avvicinai ostinato a sapere cosa stesse facendo. Mi sovrastava di moltissimo, e avevo una paura folle che mi picchiasse. Non sarebbe stata la prima volta, ma ora sembrava più pericoloso che mai. 
«Dove stai andando?» chiesi ingenuamente. «Da nessuna parte, faccio una passeggiata». Mi cadde l’occhio sul suo orologio: erano le tre di notte. «Perché fai una passeggiata alle tre di notte?». «Non scocciare, moccioso. Tornatene in camera». Stavo per voltarmi e tornare in casa, mi prese un braccio e mi costrinse a girarmi. «Ora stammi bene a sentire, ragazzo. Tu non mi piaci, e io non ti piaccio. Lo sappiamo bene entrambi..»; «Tu mi piaci», lo interruppi. «Shh, zitto e non mi interrompere», piccola pausa. «Papà sta per andare via –sei abbastanza intelligente da averlo già capito da solo, vero? Quando domani mattina ti alzerai, scendi in cucina e prepara la colazione a tua madre, senza scottarti con il fornello. Poi preparati, ed esci con lei. Andate dove volete, ora che ne avrete la possibilità. Vi lascio la macchina, le chiavi sono nel posacenere all’ingresso». Fece per andarsene, ma lo fermai. «Papà.. Ma tu dove andrai? Il tuo posto non è qui con noi?», mi guardò e gli angoli della bocca sembrarono alzarglisi leggermente. «No, Jared, il mio posto non è più qui con voi». «Ma la mamma ha bisogno di te! Io ho bisogno di te..». Iniziai a piangere e a tremare. «Sii uomo, Jared! Gli uomini non piangono mai. Neanche ai funerali». «Lo zio Clark pianse al funerale del nonno..», un vero sorriso gli spuntò sul volto, il primo dopo tanto tempo. «Lo zio Clark non è vero uomo, allora!».. Mi accarezzò il volto, e mi accorsi che le sue mani erano ruvide e grandi. «Addio Jared». «Addio papà». E se ne andò. Mi lasciò lì, un bambino di quattro anni da solo nel giardino di casa sua alle tre di notte, in lacrime e scalzo. Mentre rientravo in casa, sperai vivamente che quello non fosse un vero addio, ma piuttosto un “arrivederci, a presto”.

 
 
 
29 Settembre, 2004.
 
          Oggi mia madre ed io saremmo dovuti andare al luna-park, se solo lei non avesse scelto di lasciarsi andare, e di abbandonarmi. La casa non era mai stata così piena di persone, alcune che neanche conoscevo. Una nostra vicina di casa mi aveva vestito col vestito buono: era un abito da festa, ma oggi meno che mai avevo voglia di festeggiare. Me ne stavo seduto sulla poltrona che un tempo era di mio padre. Non era stata usata da quel 26 Luglio 2000.

 
Sia io che mio padre, quella sera in giardino, avevamo pensato che senza di lui mia madre sarebbe stata più felice. Ma sbagliavamo, e di grosso. Il giorno dopo del suo abbandono mi alzai di buon’ ora –meglio dire che non avevo dormito affatto- e preparai la colazione a mia madre: latte e caffè, brioche alla marmellata di albicocche e succo alla mela. Amava le colazioni sostanziose.

Si alzò con un sorriso, ma non appena vide l’altra metà del letto vuota, si rattristò. Gli appoggiai il vassoio sulle gambe e subito cercò di non farmi preoccupare del fatto che papà non c’era. Ma ero io che dovevo recitare, per non fare preoccupare lei.
Passammo una settimana allegra insieme. Sembrava aver preso bene il fatto che papà se ne fosse andato. Ma mi sbagliavo. Dopo qualche giorno iniziò a mangiare di meno, parlare di meno, e dormire di più.

           Poco prima di lasciarmi, andai in camera sua e mi sedetti sul letto accanto a lei. «Mamma.. non te ne andare, fallo per me». «Piccolo mio, mi dispiace tanto.. Pensavo di farcela senza tuo padre, ma la verità è che senza di lui, questa casa non va. Anche con le urla, i grugniti e i calci alla tivù, la verità è che questa casa senza tuo padre è il nulla». La guardai sorpreso, come poteva dire una cosa così? Mio padre mia aveva reso l’infanzia un incubo, fino a che non aveva fatto la scelta di andarsene. Per quanto mi riguardava, averlo o no vicino non era molto diverso. «Ma mamma, io credevo.. io e papà credevamo che senza di lui tu saresti meglio, e che avremmo vissuto meglio senza di lui». Vidi nei suoi occhi un lampo di confusione. Non sapeva ancora che quella sera io e papà avevamo parlato e ci eravamo detti addio. «Voi avete parlato prima che se ne andasse?» mi chiese dopo un attimo di incertezza. «Si, il 26 Luglio del 2000, rientrò a casa alle tre, e mi svegliai sentendo la porta chiudersi. Lo raggiunsi in giardino e parlammo per un po’». «Cosa ti disse?». Le presi una mano e le parlai lentamente: «Mi disse che saremmo stati più felici, che quello non era il suo posto, e che la mattina dopo avrei dovuto svegliarmi presto e prepararti la colazione». «Ecco perché eri così carino e gentile»; «Sono sempre stato carino e gentile con te, mammina». «lo so, Jared, lo so. Non è questo che volevo dire. Ti prendevi cura di me, quando sarei dovuta essere io ad occuparmi di te e mi dispiace per non esserti stata vicino. Avevi quattro anni e avevi appena perso tuo padre. Almeno avrei potuto chiederti come stavi, e invece non ho fatto niente». «Non ti preoccupare, mamma», «E invece avrei dovuto preoccuparmi. E’ il dovere di una madre». Scossi la testa in segno di rassegnazione, era impossibile discutere con lei.
Ero ancora su quella poltrona, quando la nostra vicina si avvicinò e mi portò un bicchiere di aranciata. La gente iniziava ad andarsene e la mia vicina mi prese sotto la sua ala e mi portò in giardino. Mi disse che lei, avendo già otto figli e i suoi genitori in casa, non poteva ospitare anche me, ma –mi assicurò- avrebbe davvero voluto.

Così a sette anni, orfano di madre e abbandonato dal padre finii in orfanotrofio dal Signor John Parker. “Passerò qui gran parte della mia vita, probabilmente”.
 
Avevo ragione.
 
 
  
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