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Autore: Rainie    10/09/2014    1 recensioni
[ Basato sull’MV di ‘One Shot’; OT6; cameo di altri artisti kpop ]
In una realtà che si srotola davanti a loro in modo ostile, sei ragazzi cercano riparo gli uni tra gli altri. I B.A.P sono una banda criminale di grande fama sia nel sottosuolo che nel mondo alla luce del sole, sebbene nessuno osi fare il loro nome. Velati dal mistero, sono sulle prime linee della criminalità organizzata, e primi nella lista dei ricercati dalla polizia.
Poi il mondo strappa via un loro compagno, e il resto sa che avrebbe fatto di tutto per riportarlo indietro. Qualunque fosse stato il costo di quell'azione.
Genere: Azione, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Un po' tutti, Yongguk, Youngjae
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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playlist: coma – b.a.p.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Si sentiva accecato e stordito. Dov’era? Cosa stava facendo? La sua mente era un vortice di domande a cui non sapeva dare risposta.

Si guardò intorno – non che ci fosse molto da guardare. Un’apertura sul soffitto gli mostrava un pezzo di cielo notturno costellato da piccoli e luminosi puntini, mentre il resto gli sembrava solo una distesa infinita di bianco. Una sensazione di chiuso lo avvolgeva, e tentò di muoversi, per poi scoprire che non ci riusciva, nonostante non sentisse niente che gli stesse bloccando gli arti.

Non gli restò che attendere, immobile. Ci vollero alcuni momenti perché un’informazione attraversasse la sua mente: il suo nome era Bang Yongguk, e aveva dei compagni. Non ci fu altro.

I minuti passarono lentamente. Poi il vetro sopra di lui si mosse e si ritirò in un’apertura al suo fianco, e a Yongguk parve di riuscire finalmente a respirare. Accorgendosi che ora poteva muoversi dalla sua posizione supina, si mise a sedere. Notò che era stato chiuso in una specie di capsula cilindrica. La metà dove era la parte superiore del suo corpo era stato coperto dal vetro, mentre il resto era formato da un materiale che non riusciva a riconoscere. Un metallo, forse, completamente bianco. Yongguk vide che anche il suo abbigliamento – una semplice canottiera e dei larghi pantaloni da lavoro – non era che bianco.

Ora libero, Yongguk poté dare una migliore occhiata attorno a sé. La cupola che mostrava il cielo sopra di lui racchiudeva un laboratorio circolare. Contro le pareti vi erano diversi armadi e cassettiere, e dei tavoli, su cui giacevano dei fogli scritti fitti e delle penne, erano sparsi per la stanza. Infine, alcuni macchinari di cui lui ignorava la funzione erano in piedi ad una estremità della sua capsula. Il tutto era, ancora una volta, di un candido bianco.

Vide che non era solo. Altre capsule uguali alla sua erano in fila ai suoi fianchi. Le quattro alla sua destra erano ancora coperte dal vetro, e Yongguk si sorprese di come riuscì a riconoscere le persone al suo interno, nonostante fosse la prima volta che li vedesse – Himchan, Daehyun, Jongup, Junhong. I loro occhi erano chiusi.

Voltandosi dall’altra parte, trovò la capsula alla sua sinistra vuota. Yongguk la guardò un po’ confuso, prima di sentire alcuni passi avvicinarsi. Un giovane apparve accanto ad essa, vestito dei suoi stessi indumenti bianchi. Aveva un mezzo sorriso che tirava su un lato della sua bocca, e la mente di Yongguk gli diede automaticamente un nome: Youngjae.

«Hey, hyung,» disse, salutandolo con la mano. Yongguk non sapeva niente del nuovo arrivato, ma c’era qualcosa nella curva del suo sorriso, nella profondità delle sue pupille, o nel modo in cui lo aveva chiamato “hyung”. Qualcosa che gli diceva che non era la prima volta che lo vedeva, che, piuttosto, si conoscevano da molto, molto tempo.

Yongguk si decise di scendere dalla sua capsula. Un brivido gli percorse il corpo quando i suoi piedi nudi toccarono il freddo pavimento. Guardò Youngjae di fronte a lui, e cercò qualcosa sul suo viso che potesse dargli qualche indizio. Poi si accorse che, nel fissarlo, doveva sembrare un completo ebete. «Uh, ciao,» borbottò. Non sapeva davvero cosa fare. Cosa avrebbe dovuto dire a qualcuno che aveva appena incontrato?

Youngjae, probabilmente, colse l’imbarazzo di Yongguk. «Ti va di fare un giro?» disse, indicando col pollice la porta dietro di lui. Quello sciolse, almeno in parte, la tensione.

 

Il corridoio, al quale non sembrava esserci una fine, era confinato da delle pareti dipinte di un candido bianco, prive di imperfezioni. Yongguk non aveva mai visto niente di tanto immacolato – sempre se avesse mai visto qualcosa per davvero.

A parte loro due, vi erano solamente alcune persone vestite con dei camici da laboratorio, i quali li passavano senza dare loro una seconda occhiata. Yongguk e Youngjae camminarono per qualche minuto in un silenzio teso per il primo, tranquillo per il secondo. Sembrava che Youngjae non avesse alcun problema a camminare fianco a fianco con un perfetto sconosciuto, come se fosse naturale.

Yongguk non aveva idea su cosa fare, così decise di dar sfogo a quelle domande che lo stavano tormentando sin da quando si era svegliato. «Senti, mi sai dire cosa– perché ci troviamo… qui?» chiese, sfregandosi i palmi umidi per il sudore. Non sapeva nemmeno se Youngjae ne sapesse più di lui.

Tuttavia, Youngjae sembrò sicuro di quel che avrebbe detto. «Oh, è una domanda difficile,» rispose, con i passi che continuavano a risuonare con un ritmo costante. «Quando mi ero svegliato, ero confuso anch’io. Partiamo dicendo che siamo in un centro chiamato Mato. È una struttura che governa– non chiedermi cosa. Hanno usato dei paroloni assurdi per spiegarmelo. In parole povere, è qualcosa che ha a che fare con come va il mondo, credo.»

Yongguk sbatté le palpebre, confuso dalle sue parole. Non aveva idea di che mondo Youngjae stesse parlando. L’unico mondo che aveva mai conosciuto erano le pareti bianche che li stavano circondando. «E noi…»

«Noi siamo qui perché facciamo parte di un grande progetto,» continuò Youngjae, «e ci sono un altro sacco di persone oltre a noi. Non intendo solo quelli che erano nella nostra stanza; ce ne sono altri milioni, miliardi, che ne fanno parte. Ma non so i dettagli precisi, mi dispiace.»

Quando arrivarono ad un incrocio di corridoi, decisero di svoltare a sinistra. Yongguk continuava a non capire, ma, nonostante ciò, decise semplicemente di accettare quello che Youngjae gli stava dicendo. Magari avrebbe capito più tardi.

«E i quattro che erano insieme a noi?» gli chiese successivamente. Avrebbe voluto chiamarli con il loro nome (che gli sembrava la cosa più giusta da fare), ma pensò che forse Youngjae lo avrebbe preso per folle, sebbene quella situazione gli paresse già folle abbastanza.

Questa volta, l’altro esitò prima di parlare. «Eravamo un gruppo,» spiegò, con un lato della bocca che si tirava su amaramente, «ma è finita male.»

A quelle parole, Yongguk fece un «Oh» sorpreso. Paradossalmente, in quell’assurda spiegazione, quelle parole gli parevano giuste e sensate. Veritiere. Se lo sentiva, così come sentiva che Youngjae e gli altri quattro erano lontani dall’essere degli sconosciuti. L’idea gli suonava particolarmente adatta, e riusciva persino a farsela piacere.

«Quindi, ora siamo bloccati qua?» domandò, dopo aver processato quello gli era stato detto.

Svoltarono di nuovo a sinistra, e si trovarono in un nuovo corridoio. A differenza dei precedenti, questo aveva il soffitto a volta di vetro. Le mille stelle fecero di nuovo capolino nell’interno di quella struttura candida, e Yongguk si sentì rilassato nel poterle vedere di nuovo. Questo, tuttavia, non rallentò i loro passi.

«Non esattamente,» gli rispose Youngjae quando lo guardò negli occhi. Quel contatto durò solo un momento, dato che Youngjae alzò poi lo sguardo al cielo, fissandolo distrattamente. «Siamo finiti male, perché qualcosa è andato storto. È stato un difetto nei macchinari, o forse nella programmazione o nella scaletta che si doveva seguire; non so quali sono i dettagli. Ora stanno decidendo se lasciare tutto così o cambiare quello che ci è andato male. Così mi hanno detto.»

Un silenzio li avvolse. Yongguk sentì che era sbagliato, terribilmente sbagliato, ma cosa, esattamente, era sbagliato? Non conosceva Youngjae – o, almeno, non gli sembrava di averlo mai visto in vita sua. Eppure, perché gli sembrava che quello non fosse il modo in cui quel colloquio doveva andare? Perché gli sembrava di dovergli dire una marea di cose quando la sua mente non sapeva cosa pensare?

Doveva pur esserci qualcosa di sensato in quella conversazione.

«Sembra che tu sappia un sacco di cose, » gli fece con ammirazione, non sapendo che altro dire. Yongguk lo guardò abbassare lo sguardo su di lui, mentre un sorriso gli arricciava i lati della bocca. Quella scena gli sembrò tanto familiare da togliergli il fiato.

«Solo un po’,» rispose in tono imbarazzato. «Sono semplicemente stato trascinato in una stanza, dove ho tenuto un colloquio che mi ha fatto venire la pelle d’oca. So cosa ci è successo, cose del genere.»

«Ti va di raccontarmi?» gli domandò Yongguk. Sperava che, nella sua risposta, avrebbe trovato quel qualcosa che stava cercando di capire.

Lo sguardo di Youngjae si sciolse appena, impercettibilmente. Poi gli lanciò un sorriso rilassato. «Perché no?»

Youngjae gli raccontò la storia di sei ragazzi. Sembrava che ad ogni parola il suo sguardo vagasse ad un ricordo invecchiato, sepolto, lontano. Ma lui sorrideva ogniqualvolta arrivava ad un episodio divertente, come quando uno di loro aveva fatto una battuta particolarmente brutta, come quando uno di loro dovette offrire il pranzo a tutti quanti perché era stato ingannato.

Gli raccontò di come si erano conosciuti, delle loro circostanze, dei loro alti e bassi. Gli raccontò di tutto quello che doveva essere saputo e mai più dimenticato.

Yongguk lo ascoltava, affascinato. Ogni frase pronunciata da Youngjae veniva scolpita nella sua mente, e quasi riusciva a sentire i ricordi fiorire in lui. Un cocktail di voci, immagini e odori sembrava risalire in superficie automaticamente, se Yongguk avesse provato a spingere la sua immaginazione un po’ più in là. Non sapeva come, ma c’era qualcosa di particolarmente rassicurante in quella storia. Non la conosceva, ma gli sembrava di vederne tutti i dettagli anche solo grazie al racconto di Youngjae.

Avrebbe voluto sognare quelle parole tutto il tempo. Yongguk si chiese se fosse stato un sognatore.

«E poi voi siete venuti a salvarmi,» disse infine Youngjae, quando raggiunsero una porta. Yongguk si accorse che erano ritornati alla loro stanza. «Avete dato loro i soldi, ma poi– poi mi hanno sparato lo stesso. Un colpo. Bang. E voi eravate sconvolti. Avete cominciato a sparare, ma è finita male. Sembra che non sia sopravvissuto nessuno.»

«E quindi, eccoci qui,» concluse Yongguk. L’altro gli lanciò un sorriso.

«Eccoci qui.»

«Senti Youngjae – ti chiami Youngjae, vero? – pensi che io sia una cattiva persona?»

Il più giovane lo guardò, confuso dalla sua domanda. Yongguk si sentì improvvisamente imbarazzato per averglielo chiesto. Cominciò a gesticolare (decise che, probabilmente, non era mai stato bravo a parlare). «Suona come una domanda stupida, vero? Non lo so, volevo– volevo chiedertelo; sembra che io abbia fatto tante cose crudeli, e credo che devo sapere se–»

Si sentiva un idiota per avergli chiesto una domanda del genere. Non sapeva nemmeno come esprimersi. Forse voleva solo avere una conferma. «Insomma. È stato istintivo, scusa. Probabilmente non ero fatto per una vita da criminale. Se avessi scelto di fare il maestro d’asilo, forse sarei riuscito a vivere in pace.»

Yongguk avrebbe voluto schiaffeggiarsi per quanto stupido stava sicuramente sembrando. Invece, sentì Youngjae ridere, e non gli suonava come una risata canzonatoria. Lo guardò, comunque imbarazzato.

«Sei divertente, hyung,» disse Youngjae. «Penso che ora so perché ci piaceva starti attorno.»

Yongguk gli sorrise impacciatamente. «Dici? Io non penso di esserlo per niente.»

«Voglio dire che non c’è nessuno al mondo che si preoccuperebbe per una situazione passata e finita. Hyung, tu batti tutti quanti, credimi. Per risponderti, no, non penso che tu sia una cattiva persona. Va bene, ora?»

Yongguk roteò gli occhi, ridendo. «Non mi sembri per niente convinto.»

Youngjae gli lanciò invece un sorriso d’intesa, mentre afferrava la maniglia della porta. «Vedi? Per questo sei divertente.»

Con un sospiro, il più anziano accettò le parole dell’altro. Non era esattamente quello che si voleva sentire, ma forse aveva ragione, quando diceva che era l’unico che si sarebbe preoccupato per qualcosa del genere. Decise che Youngjae sapeva scegliere bene le parole da usare.

Quando aprirono la porta ed entrarono nella stanza, videro che le quattro capsule non erano ancora aperte, e che i loro compagni erano ancora stesi dentro di esse, le palpebre abbassate in un sonno rilassato. Tuttavia, oltre a loro, ora c’era un uomo vestito con un camice bianco, che stava leggendo i fogli sparsi sul tavolo con un’espressione concentrata.

Yongguk lo guardò, perplesso. L’uomo alzò lo sguardo, accorgendosi della loro presenza. «Oh, siete tornati,» disse con tranquillità. «Giusto in tempo. Sdraiatevi di nuovo nelle vostre postazioni, fra un minuto ci sarà il rewind.» E, una volta dato l’ordine, si avviò verso di loro ed uscì dalla stanza, lasciando i due spaesati e disorientati dalle sue parole.

Youngjae fu il primo a parlare. «Sembra che non vogliano lasciar passare liscia questo contrattempo,» commentò, con un ghigno sarcastico sulle labbra. Non sapendo che altro fare, i due si prepararono a coricarsi nelle loro rispettive posizioni.

Fu quando Youngjae si mise supino nella propria capsula che si voltò verso Yongguk e gli regalò nuovamente un mezzo sorriso, ma genuino. «Hyung, grazie per essere venuti a salvarmi,» gli disse, proprio mentre i vetri delle loro capsule si chiudevano su di loro.

Yongguk si sorprese alle sue parole. “Perché dovresti ringraziarmi?” avrebbe voluto chiedergli, ma si sentiva già le palpebre pesanti chiudersi. Si limitò a ricambiargli il sorriso.

«Fra un po’,» disse, sebbene fosse sicuro che Youngjae ora non riusciva più a sentirlo, «ci vediamo fra un po’.» Pensò che, francamente, non c’era bisogno di altre parole. La sensazione di turbamento di quando si era svegliato era sparita, e ora poteva dire che quella loro conversazione era andata proprio come doveva andare.

Mentre guardava quel pezzo di cielo stellato che aveva di fronte, il sonno si impossessò di lui.

 

 

Yongguk sbatté le palpebre un paio di volte, ritornando alla realtà e scacciando via quella visione spaventosa dei suoi compagni morire.

Guardò Youngjae ancora di fronte a lui, che gli si stava avvicinando con quello stesso sorriso indecifrabile che aveva visto su di lui la prima volta che lo aveva incontrato. Ma non era più importante, ora Youngjae era al sicuro, e Yongguk gli venne incontro, rilasciando il respiro che non si era accorto di aver tenuto fino ad allora. Circondò, rassicurante, le sue spalle con un braccio perché ora era a casa, ora non dovevano più fare niente.

Era questo quello che Yongguk pensò, prima di sentire un po’ troppo presto la familiare sirena della polizia in lontananza ed innumerevoli passi sulle scale alle sue spalle aumentare di volume.

 

Youngjae percorse il corridoio in silenzio. Da alcune stanze provenivano voci, ronzii di fax e stampanti, risate. Di tanto in tanto, da una porta usciva un suo collega, e si scambiavano un veloce saluto. Oltre a ciò, vi era solo il rumore dei suoi passi a riempire i canali delle sue orecchie.

Si fermò davanti ad una porta con una targhetta dorata: l’ufficio del sovrintendente. Senza attendere altro tempo, picchiò sul legno un paio di volte, ed aspettò fino a quando dall’interno non gli diedero il permesso di entrare prima di girare la maniglia.

Una volta dentro l’ufficio, si assicurò di chiudere la porta per bene, voltandosi poi verso l’interno della stanza. Seduto alla scrivania di mogano, che aveva solamente un PC posizionato da un lato ed un paio di documenti stesi al centro, vi era un uomo sulla quarantina, con i capelli neri striati di fili argentati, pettinati all’indietro in modo immacolato, e l’uniforme privo di disordinate pieghe. Questi alzò lo sguardo dal foglio che stava esaminando, lanciandogli un mezzo sorriso. «Prego, accomodati pure,» gli disse gentilmente, mostrandogli con la mano la sedia di fronte. Youngjae obbedì con un cenno del capo.

«Francamente, non ho mai prestato attenzione al tuo curriculum fino a poco tempo fa,» gli riferì, abbassando lo sguardo sul documento in mano. «Yoo Youngjae. Diplomato speciale all’accademia di polizia con il massimo dei crediti a diciassette anni. Membro del dipartimento anticrimine, membro temporaneo della squadra S.W.A.T., partecipazione ad un confronto armato ed un arresto ad alto rischio… questo in soli dieci mesi di servizio?»

«Sì, signore,» rispose Youngjae, con l’espressione impassibile. Alle sue orecchie, quelle parole non suonavano nemmeno lontanamente come qualcosa di cui essere fieri, ma erano, piuttosto, dei semplici conseguimenti di vita.

Il commissario fece dei lenti cenni con il capo, impressionato. Ritornò con lo sguardo sul suo curriculum.«Leggo che la tua specialità è lo spionaggio, ed hai portato a termine diverse operazioni senza fallire; confermi?»

«Confermo, signore.»

«Benissimo. Allora mi aspetto che tu abbia le capacità per completare questo incarico che sto per illustrarti.»

Youngjae inclinò lievemente la testa di lato, perplesso. L’ispettore suo capo gli aveva semplicemente detto che il commissario sovrintendente lo cercava, con un tono misterioso nella voce, senza dargli nessun dettaglio. Sapeva già che si sarebbe trattato di qualche nuovo compito, ma si chiese perché non fosse stato assegnato ad un agente più veterano invece che a lui.

Il suo superiore posò il suo curriculum sulla scrivania e si appoggiò solennemente allo schienale della sua poltrona girevole. «È un’operazione di spionaggio molto rischiosa,» lo informò, «e si protrarrà probabilmente per molti mesi, forse un anno o più. Hai il diritto di rifiutare, se non te ne senti all’altezza; provvederò ad affidare questo compito a qualcun altro. Ma spero che tu accetti.»

Youngjae fu lievemente sorpreso dall’ultima parte. Non gli era mai capitato di poter avere una parola sugli ordini a lui dati nei dieci mesi precedenti. «Vorrei saperne prima i dettagli, se è possibile,» rispose.

Il commissario annuì. «Certo, ovviamente.» Allungò la mano verso un cassetto alla destra della scrivania, e ne tirò fuori una busta giallognola, che gli porse. Youngjae la prese con calma e alzò la linguetta che la sigillava; dentro trovò un sottile fascicolo di non più di dieci pagine. Sulla copertina lesse “B.A.P”, stampato a caratteri maiuscoli sotto il numero del documento.

«Sicuramente ne avrai sentito parlare,» gli disse. «Sono in giro da qualche anno; due, per essere precisi. Tutto quel che conosciamo di loro si può contare sulle dita delle mani. Non sappiamo niente sul loro passato, né quali sono i loro nomi o la loro età esatta. Inizialmente, erano un gruppo di quattro persone, ma alcuni mesi dopo sono diventati cinque. Questo è quello che sappiamo di certo. Questo, e il fatto che stanno facendo cadere questa città nel degrado.»

Youngjae lesse velocemente i crimini di cui erano sospettati o che avevano commesso. Si passava da furti di opere di valore a traffici illegali, violenza di gruppo, sfociando persino in diversi assassinii – una nota puntualizzava che si speculava si trattasse di una banda mercenaria. Nonostante tutto, non era niente con cui Youngjae non fosse familiare.

Le pagine da esaminare finirono presto, così chiuse il fascicolo e lo appoggiò sulla scrivania.

«Vuole che io penetri tra loro e li colga sul fatto?» chiese al suo superiore. Quello si staccò dallo schienale della poltrona e si piegò in avanti, appoggiando gli avambracci sulla scrivania e tenendo nella mano sinistra il pugno destro. Il suo sguardo si era fatto più duro di prima.

«Voglio che tu entri a far parte di questo circolo di criminalità organizzata. Parteciperai ad aste clandestine e mercati neri, sarai considerato un criminale da tutti i cittadini e sarai costretto a contare solo su te stesso e sulla tua esperienza. Dovrai costruirti una strada per entrare tra i B.A.P. A quel punto, dovrai fidarti solo di loro, ma non del tutto. Quel che basta perché loro si fidino di te; immagino che tu capisca cosa intendo. Nel mentre, non solo ci procurerai informazioni su di loro, ma anche sugli altri criminali, cosicché possiamo arrestarne il più possibile.» Il tono con cui gli disse tutto ciò fu aspro e pungente, quasi con una punta di disprezzo, ma Youngjae non batté ciglio.

Il commissario gli sorrise lievemente, ironico. «Lo ammetto io stesso, è un’operazione che fa davvero schifo. Ma è l’unica soluzione più o meno efficiente che abbiamo trovato, e che non abbiamo ancora provato a mettere in atto. Voglio che abbia successo.

«Sei giovane, dovresti avere più o meno la loro età. Riuscirete a comunicare sullo stesso piano. Sei un genio, avranno per forza qualcosa per la quale sarai utile. E sei una spia. Hai esperienza di operazioni di spionaggio, sai cosa pensare e come agire. Per questo penso che tu sia all’altezza di questo compito.»

Youngjae fece un cenno di comprensione. Non era niente di che, la durata dell’operazione era un più lunga del solito, ma niente a cui non potesse abituarsi. In testa aveva quel mantra che si era ripetuto negli ultimi anni – giustizia, giustizia, ho bisogno di sapere, giustizia – e non esitò per un altro momento. «Accetto con piacere l’incarico. Può fidarsi di me,» rispose con un sorriso confidente.

Lo sguardo del commissario rimase immutato. «Ne sei sicuro? Puoi sempre rifiutare.»

«Rifiutare non avrebbe significato, uno di noi agenti dovrà comunque farlo. E, con la buona parola che ha messo su di me, mi sentirei in imbarazzo se non accettassi.»

Il suo superiore annuì. «Bene. Allora do subito l’ordine di iniziare i preparativi. Comincerai tra un mese.»

Youngjae mantenne quel sorriso affabile sulle labbra. «Sissignore.»

Dopo aver sentito la sua risposta, il suo superiore gettò un’altra occhiata al curriculum. Rimase per qualche secondo in silenzio, prima di parlare ancora. «Qui è scritto che hai avuto un passato turbolento. Tua madre… un vostro parente e tuo padre la uccisero quando eri davvero giovane. Sono ancora a piede libero, e probabilmente conducono affari clandestini.» Si fermò fino a lì, guardando il giovane ed aspettando la sua risposta.

Youngjae sospirò stancamente al ricordo. Non aveva idea su come fosse finito sul suo profilo, ma si disse di non farci caso. Perlomeno, grazie a quello, aveva imparato che nessuno era genuinamente buono, nemmeno lui. Era una lezione di vita che lo aveva aiutato ad acquistare la mentalità di spia perfetta: non fidarsi di nessuno e tradire la fiducia al momento giusto.

No, non era proprio una buona persona. «Se mi permette, signore, preferirei non parlare dell’accaduto.»

Il commissario sembrò insoddisfatto, ma non si permise di andare oltre. «Certo, capisco. Allora, potresti approfittare dell’occasione per indagare anche su di loro, ed usarli come scusa per non destare sospetti. Di solito, molti dei criminali hanno un passato abbastanza oscuro.»

«Lo terrò a mente, signore, la ringrazio per il consiglio.»

«Va bene. Per ora, sei congedato.»

Si alzarono entrambi in piedi, e il commissario gli tese una mano, che lui afferrò prontamente. «Siamo nelle tue mani, agente Yoo.»

Youngjae gli sorrise cordiale. «Certo. Porterò a termine l’incarico senza intoppi.»

 

Erano passati poco più di due anni da quando era sceso negli affari del sottosuolo, ma Youngjae non si era mai dimenticato del suo obiettivo principale. Fino ad ora, i suoi rapporti circa i criminali richiesti dai suoi superiori non erano mai stati resi tanto pubblici nel quartier generale, e gli arresti erano stati fatti in silenzio, spesso senza che nemmeno lui lo sapesse. In tal modo, nessuno aveva potuto sospettare di lui.

Tuttavia, era conscio che, con la fine dei B.A.P, sarebbe terminato anche il suo compito.

Non credeva che sarebbe stato tanto stancante. Così, quando la sua squadra entrò frettolosamente nella stazione, circondando i due gruppi criminali, Youngjae credette che le sue gambe avrebbero ceduto per l’estenuazione. Invece, ebbe ancora la forza di staccarsi da Yongguk e di fare un paio di passi all’indietro, in modo da riuscire a vedere tutti i B.A.P in faccia. Nei loro sguardi che slittavano da una parte all’altra lesse del genuino panico, ma niente poteva essere comparato all’espressione confusa che gli rivolsero quando lui lanciò loro un ghigno malevolo e stanco.

Incontrò gli occhi di Yongguk, che sembrava star mettendo i pezzi del puzzle insieme. Un membro della sua squadra si avvicinò a loro e salutò Youngjae, che congedò il saluto con un cenno del capo. Il suo collega estrasse il familiare distintivo argentato da una tasca del suo giubbotto, e glielo consegnò. Alle sue spalle sentì Daehyun borbottare, confuso e sconcertato.

Prendendo il suo distintivo, Youngjae rimase qualche momento a contemplare il metallo scintillare cupamente alla luce delle lampade, poi lo mostrò ai membri dei B.A.P. «Yoo Youngjae, capo della quinta divisione del dipartimento anticrimine, membro speciale della squadra S.W.A.T., specializzato nello spionaggio ad alto rischio, al vostro servizio,» recitò, ricordando la sua prima introduzione a loro.

Il viso di Yongguk si fece livido.

«Youngjae,» lo chiamò Himchan in tono tradito, «dimmi che è uno dei tuoi scherzi di cattivo gusto. Come hai potuto? Sapevi che avremmo–»

«Fatto di tutto per salvarmi?» lo interruppe Youngjae, impassibile. «Certo, che lo sapevo. Per questo è stato tanto facile ingannare sia voi che quei pivelli dei COB.ra. Ho detto loro che volevo farvi fuori perché non mi andavate più a genio, e hanno subito abboccato. Due piccioni con una fava; geniale, giusto?»

Dall’altro lato della banchina della stazione, Haejong gli gridò insulti, e dovette essere fermato dalla polizia con la forza. Youngjae lo ignorò. «Piuttosto, dovreste ringraziami. Quelli là avevano intenzione di ammazzarvi una volta che avreste voltato loro le spalle. Vi ho risparmiato una brutta fine.»

«Tu hai detto– ci hai detto che dovevi– quando ti abbiamo preso con noi– tua madre–» farfugliò Daehyun, completamente disorientato dalla situazione. Guardò Youngjae, il quale gli ricambiò l’occhiata senza mostrare alcuna emozione.

«Oh, quello,» gli rispose, «quello era vero, hyung. Non vi ho mentito. Dovevo, in effetti, cercare informazioni sulla mia famiglia personalmente. Ho solo pensato di approfittare bene dell’occasione, come mi era stato consigliato. Niente di che.»

Sui loro visi, Youngjae riusciva perfettamente a vedere come la sua rivelazione avesse effetti devastanti sui B.A.P. Era quel tipo di espressione che aveva visto ormai svariate volte, di cui oramai non si sorprendeva più. Era fatta, e sapeva che, da ora in poi, loro non lo avrebbero più visto come una volta.

Neanche lui era una persona buona, dopotutto.

«Mi sono divertito con voi,» disse a loro onestamente – e forse la sua espressione dura e impassibile si attenuò in modo impercettibile – «davvero. È stato un bel periodo. Ma voi siete dei criminali, ed io ho degli obblighi e doveri da mantenere in quanto ho giurato su di esse. Per legge, dovete finire in carcere, tutto qui.»

Quando vide che non c’era nient’altro da dire – ora i B.A.P lo guardavano accusatori e pieni di odio – indossò di nuovo il suo mezzo sorriso. «Qui ho finito. Ci vediamo in giro,» e si portò la mano destra sulla fronte, regalando loro un saluto ironico.

Voltò loro le spalle e si fece strada tra la sua squadra, nonostante il corpo gli stesse dolendo. I volti dei B.A.P sarebbero stati un altro paio di incubi che si sarebbero aggiunti al suo sonno, pensò, ma non era niente che non poteva sopportare.

 

Himchan aveva un ricordo limpido di molti anni fa, prima di incontrare Yongguk e prima di diventare un assistente in un’officina di zona.

Ricordava sua madre ritornare nel loro modesto appartamento dopo il suo “lavoro” e raccontargli di come avesse incontrato dei bei giovani, alcuni persino le offrivano il loro cuore (Himchan provò pena per loro, perché lei offriva il suo corpo ad una miriade di altre persone); parlava di tutto, ma ignorava completamente la sua esistenza.

Himchan si era chiesto come si potesse donare un amore incondizionato a chiunque e qualunque cosa, fuorché al proprio figlio. Si sentiva tradito, dimenticato, solo; avrebbe voluto così tanto che sua madre si accorgesse di lui, così da donargli quel poco di affetto che gli serviva. Lo desiderava più di ogni altra cosa, davvero; ma quando se ne andò di casa e la incontrò nuovamente anni dopo, lei gli disse solo che assomigliava ad una certa persona e gli chiese, ammiccante, se avesse voglia di passare la notte con lei. Quella sera, quando Yongguk andò in officina, lo aveva trovato vomitare e piangere lacrime incontrollabili.

Ora, quel groppo in gola si era presentato di nuovo alla vista delle spalle di Youngjae. Himchan non riusciva a spiegarselo, gli aveva donato tutto quello che poteva, perché non si sentisse come si era sentito lui stesso e Youngjae–

Lui aveva deciso di lasciarli.

«Youngjae,» disse annaspando, guardando i suoi compagni e indicandolo con un dito tremante, «lo avevo detto. Non dovevamo fidarci.»

Quando Yongguk si mosse, Himchan non poté non seguirlo, sentendosi di nuovo tradito e dimenticato e dannatamente solo. Avrebbe voluto raggiungere quel lurido bastardo e prenderlo per la collottola e sputargli addosso tutto quello che aveva – avevano – fatto per lui.

Invece, le sue mani vennero bloccate dalla presa ferrea di un membro della S.W.A.T., e fu sbattuto violentemente contro il duro cemento della parete.

 

La vita di Daehyun era stata un mix di alti e bassi – francamente, più bassi, che alti. I bassi erano il tempo passato nella solitudine della sua stanza, un’adozione troppo fredda e distante perché potesse essere felice; gli alti, i quattro brevi, preziosi anni passati con i B.A.P.

Col tempo, aveva imparato che solo a poche e privilegiate persone spettava un lieto fine, e lui non era tra quelle. Tuttavia, poté illudersi di esserne una quando incontrò gli altri quattro membri. Nonostante non fossero i migliori modelli da seguire, in quel gruppo aveva trovato la serenità che aveva potuto solo sognare. Daehyun poteva finalmente dire che sì, a lui spettava una fine davvero lieta.

Tutto questo lo raccontò a Youngjae una sera di pochi mesi prima, il quale aveva annuito e sorriso. Daehyun aveva pensato, in quell’occasione, che quello era uno dei sorrisi più genuini che lo aveva visto rivolgergli.

Tuttavia, ora, vedendosi circondato da un’intera squadra pronta a sparare a loro nel momento in cui avessero fatto un passo falso, aveva cominciato a dubitare di tutto quello che aveva conosciuto di lui. Dove finiva il Youngjae sincero e iniziava quello che ora era solo un traditore?

Daehyun trovò quella situazione estremamente divertente. Emise un grido frustrato, e prima che potesse lasciarsi verso Youngjae – una parte della cosa più vicina ad una “casa” che avesse mai conosciuto – venne sbattuto per terra, tastando sangue nella sua bocca.

«Yoo Youngjae!» gli urlò comunque, «ritorna qui, brutto stronzo! RITORNA QUI!»

Le sue grida rimbalzarono nel vuoto, sulle pareti della stazione.

 

Jongup aveva avuto una vita difficile, e lo sapeva. Era nato in una famiglia sbagliata e aveva fatto scelte sbagliate, e sapeva anche questo.

Ogni giorno era ritornato da scuola per trovare suo padre che lo portava nel seminterrato della loro casa, dove si trovavano equipaggiamenti ed armi di ogni tipo, e lo spronava a provare, provare, provare; un pugno un rovescio un calcio uno sparo un pugno un rovescio un calcio uno sparo. Non smettevano fino a quando Jongup non si accasciava a terra e non si sentiva troppo esausto per continuare. La routine era continuata per diversi anni – Jongup si dimenticò persino del momento in cui aveva cominciato a seguirla. Gli sembrava di non aver fatto altro nella vita.

Entrando nei B.A.P, era una macchina da guerra pronta per essere utilizzata. Pensava di aver lasciato alle sue spalle tutta la sua compassione, ma si dovette ricredere quando Yongguk e Himchan lo trattarono come un ragazzo normale. Jongup era stato sopraffatto da quel loro comportamento, dal momento che quasi nessuno si era rivolto a lui con un tono tanto informale.

Desiderò di aver mantenuto quella sua mentalità calcolatrice quando Youngjae si era presentato a loro. Ma con le mani bloccate dolorosamente dietro la schiena da un paio di manette, poteva solo guardare la schiena di Youngjae voltata verso loro; lo stesso Youngjae che lo aveva visto come un normale teenager, scherzando e parlando casualmente con lui, facendogli dimenticare momentaneamente che era il guerriero dei B.A.P per eccellenza.

Quella fu un’altra delle sue scelte sbagliate.

«Hyung!» riuscì solo a gridare con voce roca. «Hyung! Perché ci stai facendo questo?!»

 

Junhong aveva tredici anni quando si trascinò nell’officina Kim, che era stata aperta da poco. Doveva essergli sembrato davvero patetico perché Himchan avesse deciso di tenerlo con sé e farlo diventare suo assistente.

Prima di allora, per un anno aveva tentato di sopravvivere per le strade dopo essere scappato da una casa che gli dava solo incubi, rubando ed aggregandosi a certi gruppi poco affidabili che gli avevano offerto un tetto sotto cui dormire per pochi mesi. Quell’anno gli aveva dato la consapevolezza di vivere in un mondo duro, di dover adattarsi, ma come poteva far ciò quando tutto quello che riusciva a ricordare era il terrore? Come poteva far ciò quando i suoi sogni erano infestati dagli orrendi lividi che comparivano sulla pelle di sua madre?

Dopo che i B.A.P si formarono, dopo che Yongguk e Jongup gli avevano insegnato come contrastare la realtà ostile, dopo tutto quello, Youngjae gli disse che andava bene se certe volte era solo Junhong (giovane e pieno di vitalità e ingenuo) e non Zelo (spietato e freddo e robotico), e andava bene se certe volte smetteva di tenere tutte la sua stanchezza e le sue lacrime dentro di sé.

Non era come se il resto dei B.A.P non glielo avesse detto, loro erano stati solo più discreti ed impliciti a proposito. Ma Junhong ne fu sorpreso, in parte perché non credeva che lo hyung lo avrebbe visto sotto quella luce, in parte perché fino ad ora era stato solo Zelo. Ma ne fu, in un certo senso, felice.

Fu quindi Junhong, e non Zelo, che ricordò quel giorno quando venne forzato in ginocchio e guardò Youngjae mentre si allontanava, e fu sempre Junhong che sentì il proprio cuore essere spaccato in mille pezzi, gridando al cielo.

 

Una parte di Yongguk forse aveva sempre saputo che, prima o poi, i B.A.P sarebbero finiti in questo modo. Aveva voluto invece spingere quella piccola voce maligna in un angolo della sua mente, volendo solo vivere quei momenti con i suoi membri serenamente.

Tuttavia, mai aveva immaginato che sarebbe stato uno di loro a spingerli fino a lì. Gli era piaciuto credere che Youngjae non avesse davvero cattive intenzioni, perché da quando era entrato nel gruppo tutto era migliorato ancora di più, ed erano diventati persino più vicini di prima.

Che qualcosa del genere succedesse era assolutamente inimmaginabile.

Yongguk ricordava il sorriso imbarazzato e disarmante che Youngjae gli aveva rivolto quando gli aveva detto di non avere idea di come avevano fatto i B.A.P a sopravvivere senza il suo cervello.

E ancora, Yongguk ricordava quando, appena cinque mesi prima, Youngjae era ritornato all’officina l’ultimo dell’anno con sacchetti pieni di cibo e fuochi d’artificio, che accesero appena scoccò la mezzanotte, tingendo il cielo fuori dal garage di fiori variopinti.

Sul serio, Yongguk avrebbe voluto ridere per come erano stati ingannati facilmente. Sperava che questo fosse un altro scherzo della sua immaginazione, ma il dolore era vero e la polizia li stava arrestando, e lui poteva solo guardare Youngjae che non si degnava di assistere alla loro fine.

Con le braccia bloccate dietro la schiena, si dimenò per liberarsi come meglio poté, imprecando contro di lui – «Sei un bastardo, Yoo Youngjae!», «Abbiamo rischiato tutto per venire a salvarti!», «Ci fidavamo tutti di te!», «Come hai potuto ingannarci in questo modo?!».

Il suo petto stava per esplodere per tutto il dolore che sentiva. Desiderava chiedergli se tutto quello che i B.A.P gli avevano offerto non fosse stato abbastanza perché lui decidesse di pugnalarli alle spalle comunque.

Dovette essere forzato a terra, ma, nonostante tutti i suoi arti fossero bloccati, i suoi occhi traditi erano costantemente attaccati alla schiena di una delle persone a cui aveva affidato ciecamente tutto di sé.

Eppure, nonostante le grida straziate dei B.A.P, Youngjae non si voltò indietro nemmeno una volta.

 

[ part 4: please hold onto my hand so that i can wake up, please don’t go. ]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

N/A: e con questo, si conclude questa fanfiction. Applausi a me, dato che non riesco mai a finire le storie a più capitoli. Clap clap.

Non voglio che vediate Youngjae nel ruolo del cattivo. Voglio dire, noi non ci affidiamo alla polizia perché i criminali vengano catturati? Non pensiamo che stiano facendo la cosa giusta? Questa è la stessa cosa. (E non considero il resto dei B.A.P cattivi, ma non voglio nemmeno glorificare i criminali, sia chiaro. Non fate cose che vi faranno andare in prigione, bambini!)

Ho spezzato quest’ultima parte in due perché non mi piaceva la parte iniziale, e l’ho letteralmente riscritta tutta. Così è venuta molto più lunga di prima lmao. La playlist del capitolo precedente vale anche per questo (e vedo “Back” degli Infinite molto più adatta all'inizio di questa seconda parte lmao).

Se volete qualcosa di più preciso sul centro Mato, è praticamente un edificio fuori dall’universo (????? Allora perché si vedono le stelle??? Lmao non lo so ok) che regola gli universi paralleli. Francamente, non so spiegarlo bene in poche parole sob se volete, posso mandarvi un MP per una spiegazione più dettagliata.

E ora, un paio di numeri e curiosità: ho scritto la fanfiction su un unico documento Word, dato che la considero una long shot. La storia ha in totalità più di 25.500 parole (senza contare le parole dei titoli e delle playlist), e pesa più di 120 kilobyte. Incredibile, eh? È una delle storie più lunghe che abbia scritto e a cui sono più affezionata. Ho persino fatto una linea del tempo per quanto ne sono ossessionata ahahah sob potete vederla qui: CLICK!

Infine, vorrei ringraziare tutti voi lettori che mi avete sopportata. Sono felice di avere concluso questa storia! Spero di poterne pubblicare un’altra in un futuro prossimo. Per ora, passo e chiudo. Ancora una volta, grazie per aver letto fino ad ora!

Rainie

P.S.: Sarò al prossimo KPOP Voice Contest a Fumettopoli! Riuscirete a trovarmi? ;)

   
 
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