playlist:
coma – b.a.p.
Si
sentiva accecato e stordito. Dov’era? Cosa stava facendo? La
sua
mente era un vortice di domande a cui non sapeva dare risposta.
Si
guardò intorno – non che ci fosse molto da
guardare. Un’apertura sul
soffitto gli mostrava un pezzo di cielo notturno costellato da piccoli
e
luminosi puntini, mentre il resto gli sembrava solo una distesa
infinita di
bianco. Una sensazione di chiuso lo avvolgeva, e tentò di
muoversi, per poi scoprire
che non ci riusciva, nonostante non sentisse niente che gli stesse
bloccando
gli arti.
Non
gli restò che attendere, immobile. Ci vollero alcuni momenti
perché
un’informazione attraversasse la sua mente: il suo nome era
Bang Yongguk, e
aveva dei compagni. Non ci fu altro.
I
minuti passarono lentamente. Poi il vetro sopra di lui si mosse e si
ritirò in un’apertura al suo fianco, e a Yongguk
parve di riuscire finalmente a
respirare. Accorgendosi che ora poteva muoversi dalla sua posizione
supina, si
mise a sedere. Notò che era stato chiuso in una specie di
capsula cilindrica.
La metà dove era la parte superiore del suo corpo era stato
coperto dal vetro,
mentre il resto era formato da un materiale che non riusciva a
riconoscere. Un
metallo, forse, completamente bianco. Yongguk vide che anche il suo
abbigliamento – una semplice canottiera e dei larghi
pantaloni da lavoro – non
era che bianco.
Ora
libero, Yongguk poté dare una migliore occhiata attorno a
sé. La
cupola che mostrava il cielo sopra di lui racchiudeva un laboratorio
circolare.
Contro le pareti vi erano diversi armadi e cassettiere, e dei tavoli,
su cui
giacevano dei fogli scritti fitti e delle penne, erano sparsi per la
stanza.
Infine, alcuni macchinari di cui lui ignorava la funzione erano in
piedi ad una
estremità della sua capsula. Il tutto era, ancora una volta,
di un candido
bianco.
Vide
che non era solo. Altre capsule uguali alla sua erano in fila ai
suoi fianchi. Le quattro alla sua destra erano ancora coperte dal
vetro, e
Yongguk si sorprese di come riuscì a riconoscere le persone
al suo interno,
nonostante fosse la prima volta che li vedesse – Himchan,
Daehyun, Jongup,
Junhong. I loro occhi erano chiusi.
Voltandosi
dall’altra parte, trovò la capsula alla sua
sinistra vuota.
Yongguk la guardò un po’ confuso, prima di sentire
alcuni passi avvicinarsi. Un
giovane apparve accanto ad essa, vestito dei suoi stessi indumenti
bianchi.
Aveva un mezzo sorriso che tirava su un lato della sua bocca, e la
mente di
Yongguk gli diede automaticamente un nome: Youngjae.
«Hey,
hyung,» disse, salutandolo con la mano. Yongguk non sapeva
niente
del nuovo arrivato, ma c’era qualcosa nella curva del suo
sorriso, nella
profondità delle sue pupille, o nel modo in cui lo aveva
chiamato “hyung”.
Qualcosa che gli diceva che non era la prima volta che lo vedeva, che,
piuttosto,
si conoscevano da molto, molto tempo.
Yongguk
si decise di scendere dalla sua capsula. Un brivido gli percorse
il corpo quando i suoi piedi nudi toccarono il freddo pavimento.
Guardò
Youngjae di fronte a lui, e cercò qualcosa sul suo viso che
potesse dargli
qualche indizio. Poi si accorse che, nel fissarlo, doveva sembrare un
completo
ebete. «Uh, ciao,» borbottò. Non sapeva
davvero cosa fare. Cosa avrebbe dovuto
dire a qualcuno che aveva appena incontrato?
Youngjae,
probabilmente, colse l’imbarazzo di Yongguk. «Ti va
di fare un
giro?» disse, indicando col pollice la porta dietro di lui.
Quello sciolse,
almeno in parte, la tensione.
Il
corridoio, al quale non sembrava esserci una fine, era confinato da
delle pareti dipinte di un candido bianco, prive di imperfezioni.
Yongguk non
aveva mai visto niente di tanto immacolato – sempre se avesse
mai visto
qualcosa per davvero.
A
parte loro due, vi erano solamente alcune persone vestite con dei
camici da laboratorio, i quali li passavano senza dare loro una seconda
occhiata. Yongguk e Youngjae camminarono per qualche minuto in un
silenzio teso
per il primo, tranquillo per il secondo. Sembrava che Youngjae non
avesse alcun
problema a camminare fianco a fianco con un perfetto sconosciuto, come
se fosse
naturale.
Yongguk
non aveva idea su cosa fare, così decise di dar sfogo a
quelle
domande che lo stavano tormentando sin da quando si era svegliato.
«Senti, mi
sai dire cosa– perché ci troviamo…
qui?» chiese, sfregandosi i palmi umidi per
il sudore. Non sapeva nemmeno se Youngjae ne sapesse più di
lui.
Tuttavia,
Youngjae sembrò sicuro di quel che avrebbe detto.
«Oh, è una
domanda difficile,» rispose, con i passi che continuavano a
risuonare con un
ritmo costante. «Quando mi ero svegliato, ero confuso
anch’io. Partiamo dicendo
che siamo in un centro chiamato Mato. È una struttura che
governa– non
chiedermi cosa. Hanno usato dei paroloni assurdi per spiegarmelo. In
parole
povere, è qualcosa che ha a che fare con come va il mondo,
credo.»
Yongguk
sbatté le palpebre, confuso dalle sue parole. Non aveva idea
di
che mondo Youngjae stesse parlando. L’unico mondo che aveva
mai conosciuto
erano le pareti bianche che li stavano circondando. «E
noi…»
«Noi
siamo qui perché facciamo parte di un grande
progetto,» continuò
Youngjae, «e ci sono un altro sacco di persone oltre a noi.
Non intendo solo
quelli che erano nella nostra stanza; ce ne sono altri milioni,
miliardi, che
ne fanno parte. Ma non so i dettagli precisi, mi dispiace.»
Quando
arrivarono ad un incrocio di corridoi, decisero di svoltare a
sinistra. Yongguk continuava a non capire, ma, nonostante
ciò, decise
semplicemente di accettare quello che Youngjae gli stava dicendo.
Magari
avrebbe capito più tardi.
«E
i quattro che erano insieme a noi?» gli chiese
successivamente.
Avrebbe voluto chiamarli con il loro nome (che gli sembrava la cosa
più giusta
da fare), ma pensò che forse Youngjae lo avrebbe preso per
folle, sebbene
quella situazione gli paresse già folle abbastanza.
Questa
volta, l’altro esitò prima di parlare.
«Eravamo un gruppo,»
spiegò, con un lato della bocca che si tirava su amaramente,
«ma è finita
male.»
A
quelle parole, Yongguk fece un «Oh» sorpreso.
Paradossalmente, in
quell’assurda spiegazione, quelle parole gli parevano giuste
e sensate.
Veritiere. Se lo sentiva, così come sentiva che Youngjae e
gli altri quattro
erano lontani dall’essere degli sconosciuti. L’idea
gli suonava particolarmente
adatta, e riusciva persino a farsela piacere.
«Quindi,
ora siamo bloccati qua?» domandò, dopo aver
processato quello
gli era stato detto.
Svoltarono
di nuovo a sinistra, e si trovarono in un nuovo corridoio. A
differenza dei precedenti, questo aveva il soffitto a volta di vetro.
Le mille
stelle fecero di nuovo capolino nell’interno di quella
struttura candida, e
Yongguk si sentì rilassato nel poterle vedere di nuovo.
Questo, tuttavia, non
rallentò i loro passi.
«Non
esattamente,» gli rispose Youngjae quando lo
guardò negli occhi.
Quel contatto durò solo un momento, dato che Youngjae
alzò poi lo sguardo al
cielo, fissandolo distrattamente. «Siamo finiti male,
perché qualcosa è andato
storto. È stato un difetto nei macchinari, o forse nella
programmazione o nella
scaletta che si doveva seguire; non so quali sono i dettagli. Ora
stanno
decidendo se lasciare tutto così o cambiare quello che ci
è andato male. Così
mi hanno detto.»
Un
silenzio li avvolse. Yongguk sentì che era sbagliato,
terribilmente
sbagliato, ma cosa, esattamente, era sbagliato? Non conosceva Youngjae
– o,
almeno, non gli sembrava di averlo mai visto in vita sua. Eppure,
perché gli
sembrava che quello non fosse il modo in cui quel colloquio doveva
andare?
Perché gli sembrava di dovergli dire una marea di cose
quando la sua mente non
sapeva cosa pensare?
Doveva
pur esserci qualcosa di sensato in quella conversazione.
«Sembra
che tu sappia un sacco di cose, » gli fece con
ammirazione,
non sapendo che altro dire. Yongguk lo guardò abbassare lo
sguardo su di lui,
mentre un sorriso gli arricciava i lati della bocca. Quella scena gli
sembrò
tanto familiare da togliergli il fiato.
«Solo
un po’,» rispose in tono imbarazzato.
«Sono semplicemente stato
trascinato in una stanza, dove ho tenuto un colloquio che mi ha fatto
venire la
pelle d’oca. So cosa ci è successo, cose del
genere.»
«Ti
va di raccontarmi?» gli domandò Yongguk. Sperava
che, nella sua
risposta, avrebbe trovato quel qualcosa
che stava cercando di capire.
Lo
sguardo di Youngjae si sciolse appena, impercettibilmente. Poi gli
lanciò
un sorriso rilassato. «Perché no?»
Youngjae
gli raccontò la storia di sei ragazzi. Sembrava che ad ogni
parola il suo sguardo vagasse ad un ricordo invecchiato, sepolto,
lontano. Ma lui
sorrideva ogniqualvolta arrivava ad un episodio divertente, come quando
uno di
loro aveva fatto una battuta particolarmente brutta, come quando uno di
loro
dovette offrire il pranzo a tutti quanti perché era stato
ingannato.
Gli
raccontò di come si erano conosciuti, delle loro
circostanze, dei
loro alti e bassi. Gli raccontò di tutto quello che doveva
essere saputo e mai
più dimenticato.
Yongguk
lo ascoltava, affascinato. Ogni frase pronunciata da Youngjae
veniva scolpita nella sua mente, e quasi riusciva a sentire i ricordi
fiorire
in lui. Un cocktail di voci, immagini e odori sembrava risalire in
superficie
automaticamente, se Yongguk avesse provato a spingere la sua
immaginazione un
po’ più in là. Non sapeva come, ma
c’era qualcosa di particolarmente
rassicurante in quella storia. Non la conosceva, ma gli sembrava di
vederne
tutti i dettagli anche solo grazie al racconto di Youngjae.
Avrebbe
voluto sognare quelle parole tutto il tempo. Yongguk si chiese
se fosse stato un sognatore.
«E
poi voi siete venuti a salvarmi,» disse infine Youngjae,
quando
raggiunsero una porta. Yongguk si accorse che erano ritornati alla loro
stanza.
«Avete dato loro i soldi, ma poi– poi mi hanno
sparato lo stesso. Un colpo. Bang.
E voi eravate sconvolti. Avete
cominciato a sparare, ma è finita male. Sembra che non sia
sopravvissuto
nessuno.»
«E
quindi, eccoci qui,» concluse Yongguk. L’altro gli
lanciò un sorriso.
«Eccoci
qui.»
«Senti
Youngjae – ti chiami Youngjae, vero? – pensi che io
sia una
cattiva persona?»
Il
più giovane lo guardò, confuso dalla sua domanda.
Yongguk si sentì
improvvisamente imbarazzato per averglielo chiesto. Cominciò
a gesticolare
(decise che, probabilmente, non era mai stato bravo a parlare).
«Suona come una
domanda stupida, vero? Non lo so, volevo– volevo chiedertelo;
sembra che io
abbia fatto tante cose crudeli, e credo che devo sapere
se–»
Si
sentiva un idiota per avergli chiesto una domanda del genere. Non
sapeva nemmeno come esprimersi. Forse voleva solo avere una conferma.
«Insomma.
È stato istintivo, scusa. Probabilmente non ero fatto per
una vita da
criminale. Se avessi scelto di fare il maestro d’asilo, forse
sarei riuscito a
vivere in pace.»
Yongguk
avrebbe voluto schiaffeggiarsi per quanto stupido stava
sicuramente sembrando. Invece, sentì Youngjae ridere, e non
gli suonava come
una risata canzonatoria. Lo guardò, comunque imbarazzato.
«Sei
divertente, hyung,» disse Youngjae. «Penso che ora
so perché ci
piaceva starti attorno.»
Yongguk
gli sorrise impacciatamente. «Dici? Io non penso di esserlo
per
niente.»
«Voglio
dire che non c’è nessuno al mondo che si
preoccuperebbe per una
situazione passata e finita. Hyung, tu batti tutti quanti, credimi. Per
risponderti, no, non penso che tu sia una cattiva persona. Va bene,
ora?»
Yongguk
roteò gli occhi, ridendo. «Non mi sembri per
niente convinto.»
Youngjae
gli lanciò invece un sorriso d’intesa, mentre
afferrava la
maniglia della porta. «Vedi? Per questo sei
divertente.»
Con
un sospiro, il più anziano accettò le parole
dell’altro. Non era
esattamente quello che si voleva sentire, ma forse aveva ragione,
quando diceva
che era l’unico che si sarebbe preoccupato per qualcosa del
genere. Decise che
Youngjae sapeva scegliere bene le parole da usare.
Quando
aprirono la porta ed entrarono nella stanza, videro che le
quattro capsule non erano ancora aperte, e che i loro compagni erano
ancora
stesi dentro di esse, le palpebre abbassate in un sonno rilassato.
Tuttavia,
oltre a loro, ora c’era un uomo vestito con un camice bianco,
che stava
leggendo i fogli sparsi sul tavolo con un’espressione
concentrata.
Yongguk
lo guardò, perplesso. L’uomo alzò lo
sguardo, accorgendosi della
loro presenza. «Oh, siete tornati,» disse con
tranquillità. «Giusto in tempo. Sdraiatevi
di nuovo nelle vostre postazioni, fra un minuto ci sarà il
rewind.» E, una
volta dato l’ordine, si avviò verso di loro ed
uscì dalla stanza, lasciando i
due spaesati e disorientati dalle sue parole.
Youngjae
fu il primo a parlare. «Sembra che non vogliano lasciar
passare
liscia questo contrattempo,» commentò, con un
ghigno sarcastico sulle labbra.
Non sapendo che altro fare, i due si prepararono a coricarsi nelle loro
rispettive posizioni.
Fu
quando Youngjae si mise supino nella propria capsula che si
voltò
verso Yongguk e gli regalò nuovamente un mezzo sorriso, ma
genuino. «Hyung,
grazie per essere venuti a salvarmi,» gli disse, proprio
mentre i vetri delle
loro capsule si chiudevano su di loro.
Yongguk
si sorprese alle sue parole. “Perché dovresti
ringraziarmi?”
avrebbe voluto chiedergli, ma si sentiva già le palpebre
pesanti chiudersi. Si
limitò a ricambiargli il sorriso.
«Fra
un po’,» disse, sebbene fosse sicuro che Youngjae
ora non riusciva
più a sentirlo, «ci vediamo fra un
po’.» Pensò che, francamente, non
c’era
bisogno di altre parole. La sensazione di turbamento di quando si era
svegliato
era sparita, e ora poteva dire che quella loro conversazione era andata
proprio
come doveva andare.
Mentre
guardava quel pezzo di cielo stellato che aveva di fronte, il
sonno si impossessò di lui.
Yongguk
sbatté le palpebre un
paio di volte, ritornando alla realtà e scacciando via
quella visione
spaventosa dei suoi compagni morire.
Guardò
Youngjae ancora di
fronte a lui, che gli si stava avvicinando con quello stesso sorriso
indecifrabile che aveva visto su di lui la prima volta che lo aveva
incontrato.
Ma non era più importante, ora Youngjae era al sicuro, e
Yongguk gli venne
incontro, rilasciando il respiro che non si era accorto di aver tenuto
fino ad
allora. Circondò, rassicurante, le sue spalle con un braccio
perché ora era a
casa, ora non dovevano più fare niente.
Era questo
quello che Yongguk
pensò, prima di sentire un po’ troppo presto la
familiare sirena della polizia
in lontananza ed innumerevoli passi sulle scale alle sue spalle
aumentare di
volume.
Youngjae
percorse il corridoio in silenzio. Da alcune stanze
provenivano voci, ronzii di fax e stampanti, risate. Di tanto in tanto,
da una
porta usciva un suo collega, e si scambiavano un veloce saluto. Oltre a
ciò, vi
era solo il rumore dei suoi passi a riempire i canali delle sue
orecchie.
Si
fermò davanti ad una porta con una targhetta dorata:
l’ufficio
del sovrintendente. Senza attendere altro tempo, picchiò sul
legno un paio di
volte, ed aspettò fino a quando dall’interno non
gli diedero il permesso di
entrare prima di girare la maniglia.
Una volta
dentro l’ufficio, si assicurò di chiudere la porta
per
bene, voltandosi poi verso l’interno della stanza. Seduto
alla scrivania di
mogano, che aveva solamente un PC posizionato da un lato ed un paio di
documenti stesi al centro, vi era un uomo sulla quarantina, con i
capelli neri
striati di fili argentati, pettinati all’indietro in modo
immacolato, e
l’uniforme privo di disordinate pieghe. Questi
alzò lo sguardo dal foglio che
stava esaminando, lanciandogli un mezzo sorriso. «Prego,
accomodati pure,» gli
disse gentilmente, mostrandogli con la mano la sedia di fronte.
Youngjae obbedì
con un cenno del capo.
«Francamente,
non ho mai prestato attenzione al tuo curriculum fino
a poco tempo fa,» gli riferì, abbassando lo
sguardo sul documento in mano. «Yoo
Youngjae. Diplomato speciale all’accademia di polizia con il
massimo dei crediti
a diciassette anni. Membro del dipartimento anticrimine, membro
temporaneo
della squadra S.W.A.T., partecipazione ad un confronto armato ed un
arresto ad
alto rischio… questo in soli dieci mesi di
servizio?»
«Sì,
signore,» rispose Youngjae, con l’espressione
impassibile. Alle
sue orecchie, quelle parole non suonavano nemmeno lontanamente come
qualcosa di
cui essere fieri, ma erano, piuttosto, dei semplici conseguimenti di
vita.
Il commissario
fece dei lenti cenni con il capo, impressionato.
Ritornò con lo sguardo sul suo curriculum.«Leggo
che la tua specialità è lo
spionaggio, ed hai portato a termine diverse operazioni senza fallire;
confermi?»
«Confermo,
signore.»
«Benissimo.
Allora mi aspetto che tu abbia le capacità per
completare questo incarico che sto per illustrarti.»
Youngjae
inclinò lievemente la testa di lato, perplesso.
L’ispettore
suo capo gli aveva semplicemente detto che il commissario
sovrintendente lo
cercava, con un tono misterioso nella voce, senza dargli nessun
dettaglio.
Sapeva già che si sarebbe trattato di qualche nuovo compito,
ma si chiese
perché non fosse stato assegnato ad un agente più
veterano invece che a lui.
Il suo
superiore posò il suo curriculum sulla scrivania e si
appoggiò solennemente allo schienale della sua poltrona
girevole. «È
un’operazione di spionaggio molto rischiosa,» lo
informò, «e si protrarrà
probabilmente per molti mesi, forse un anno o più. Hai il
diritto di rifiutare,
se non te ne senti all’altezza; provvederò ad
affidare questo compito a qualcun
altro. Ma spero che tu accetti.»
Youngjae fu
lievemente sorpreso dall’ultima parte. Non gli era mai
capitato di poter avere una parola sugli ordini a lui dati nei dieci
mesi precedenti.
«Vorrei saperne prima i dettagli, se è
possibile,» rispose.
Il commissario
annuì. «Certo, ovviamente.»
Allungò la mano verso un
cassetto alla destra della scrivania, e ne tirò fuori una
busta giallognola,
che gli porse. Youngjae la prese con calma e alzò la
linguetta che la
sigillava; dentro trovò un sottile fascicolo di non
più di dieci pagine. Sulla copertina
lesse “B.A.P”, stampato a caratteri maiuscoli sotto
il numero del documento.
«Sicuramente
ne avrai sentito parlare,» gli disse. «Sono in giro
da
qualche anno; due, per essere precisi. Tutto quel che conosciamo di
loro si può
contare sulle dita delle mani. Non sappiamo niente sul loro passato,
né quali
sono i loro nomi o la loro età esatta. Inizialmente, erano
un gruppo di quattro
persone, ma alcuni mesi dopo sono diventati cinque. Questo è
quello che
sappiamo di certo. Questo, e il fatto che stanno facendo cadere questa
città
nel degrado.»
Youngjae lesse
velocemente i crimini di cui erano sospettati o che
avevano commesso. Si passava da furti di opere di valore a traffici
illegali,
violenza di gruppo, sfociando persino in diversi assassinii –
una nota
puntualizzava che si speculava si trattasse di una banda mercenaria.
Nonostante
tutto, non era niente con cui Youngjae non fosse familiare.
Le pagine da
esaminare finirono presto, così chiuse il fascicolo e
lo appoggiò sulla scrivania.
«Vuole
che io penetri tra loro e li colga sul fatto?» chiese al suo
superiore. Quello si staccò dallo schienale della poltrona e
si piegò in avanti,
appoggiando gli avambracci sulla scrivania e tenendo nella mano
sinistra il
pugno destro. Il suo sguardo si era fatto più duro di prima.
«Voglio
che tu entri a far parte di questo circolo di criminalità
organizzata. Parteciperai ad aste clandestine e mercati neri, sarai
considerato
un criminale da tutti i cittadini e sarai costretto a contare solo su
te stesso
e sulla tua esperienza. Dovrai costruirti una strada per entrare tra i
B.A.P. A
quel punto, dovrai fidarti solo di loro, ma non del tutto. Quel che
basta
perché loro si fidino di te; immagino che tu capisca cosa
intendo. Nel mentre,
non solo ci procurerai informazioni su di loro, ma anche sugli altri
criminali,
cosicché possiamo arrestarne il più
possibile.» Il tono con cui gli disse tutto
ciò fu aspro e pungente, quasi con una punta di disprezzo,
ma Youngjae non
batté ciglio.
Il commissario
gli sorrise lievemente, ironico. «Lo ammetto io
stesso, è un’operazione che fa davvero schifo. Ma
è l’unica soluzione più o
meno efficiente che abbiamo trovato, e che non abbiamo ancora provato a
mettere
in atto. Voglio che abbia successo.
«Sei
giovane, dovresti avere più o meno la loro età.
Riuscirete a
comunicare sullo stesso piano. Sei un genio, avranno per forza qualcosa
per la
quale sarai utile. E sei una spia. Hai esperienza di operazioni di
spionaggio,
sai cosa pensare e come agire. Per questo penso che tu sia
all’altezza di
questo compito.»
Youngjae fece
un cenno di comprensione. Non era niente di che, la
durata dell’operazione era un più lunga del
solito, ma niente a cui non potesse
abituarsi. In testa aveva quel mantra che si era ripetuto negli ultimi
anni – giustizia,
giustizia, ho bisogno di sapere,
giustizia – e non esitò
per un altro
momento. «Accetto con piacere l’incarico.
Può fidarsi di me,» rispose con un
sorriso confidente.
Lo sguardo del
commissario rimase immutato. «Ne sei sicuro? Puoi
sempre rifiutare.»
«Rifiutare
non avrebbe significato, uno di noi agenti dovrà comunque
farlo. E, con la buona parola che ha messo su di me, mi sentirei in
imbarazzo
se non accettassi.»
Il suo
superiore annuì. «Bene. Allora do subito
l’ordine di iniziare
i preparativi. Comincerai tra un mese.»
Youngjae
mantenne quel sorriso affabile sulle labbra.
«Sissignore.»
Dopo aver
sentito la sua risposta, il suo superiore gettò
un’altra
occhiata al curriculum. Rimase per qualche secondo in silenzio, prima
di
parlare ancora. «Qui è scritto che hai avuto un
passato turbolento. Tua madre…
un vostro parente e tuo padre la uccisero quando eri davvero giovane.
Sono
ancora a piede libero, e probabilmente conducono affari
clandestini.» Si fermò
fino a lì, guardando il giovane ed aspettando la sua
risposta.
Youngjae
sospirò stancamente al ricordo. Non aveva idea su come
fosse finito sul suo profilo, ma si disse di non farci caso. Perlomeno,
grazie
a quello, aveva imparato che nessuno era genuinamente buono, nemmeno
lui. Era
una lezione di vita che lo aveva aiutato ad acquistare la
mentalità di spia
perfetta: non fidarsi di nessuno e tradire la fiducia al momento giusto.
No, non era
proprio una buona persona. «Se mi permette, signore,
preferirei non parlare dell’accaduto.»
Il commissario
sembrò insoddisfatto, ma non si permise di andare
oltre. «Certo, capisco. Allora, potresti approfittare
dell’occasione per
indagare anche su di loro, ed usarli come scusa per non destare
sospetti. Di
solito, molti dei criminali hanno un passato abbastanza
oscuro.»
«Lo
terrò a mente, signore, la ringrazio per il
consiglio.»
«Va
bene. Per ora, sei congedato.»
Si alzarono
entrambi in piedi, e il commissario gli tese una mano,
che lui afferrò prontamente. «Siamo nelle tue
mani, agente Yoo.»
Youngjae gli
sorrise cordiale. «Certo. Porterò a termine
l’incarico
senza intoppi.»
Erano passati
poco più di due
anni da quando era sceso negli affari del sottosuolo, ma Youngjae non
si era
mai dimenticato del suo obiettivo principale. Fino ad ora, i suoi
rapporti
circa i criminali richiesti dai suoi superiori non erano mai stati resi
tanto
pubblici nel quartier generale, e gli arresti erano stati fatti in
silenzio,
spesso senza che nemmeno lui lo sapesse. In tal modo, nessuno aveva
potuto
sospettare di lui.
Tuttavia, era
conscio che,
con la fine dei B.A.P, sarebbe terminato anche il suo compito.
Non credeva
che sarebbe stato
tanto stancante. Così, quando la sua squadra
entrò frettolosamente nella
stazione, circondando i due gruppi criminali, Youngjae credette che le
sue
gambe avrebbero ceduto per l’estenuazione. Invece, ebbe
ancora la forza di
staccarsi da Yongguk e di fare un paio di passi all’indietro,
in modo da riuscire
a vedere tutti i B.A.P in faccia. Nei loro sguardi che slittavano da
una parte
all’altra lesse del genuino panico, ma niente poteva essere
comparato
all’espressione confusa che gli rivolsero quando lui
lanciò loro un ghigno
malevolo e stanco.
Incontrò
gli occhi di Yongguk,
che sembrava star mettendo i pezzi del puzzle insieme. Un membro della
sua
squadra si avvicinò a loro e salutò Youngjae, che
congedò il saluto con un
cenno del capo. Il suo collega estrasse il familiare distintivo
argentato da
una tasca del suo giubbotto, e glielo consegnò. Alle sue
spalle sentì Daehyun
borbottare, confuso e sconcertato.
Prendendo il
suo distintivo,
Youngjae rimase qualche momento a contemplare il metallo scintillare
cupamente
alla luce delle lampade, poi lo mostrò ai membri dei B.A.P.
«Yoo Youngjae, capo
della quinta divisione del dipartimento anticrimine, membro speciale
della
squadra S.W.A.T., specializzato nello spionaggio ad alto rischio, al
vostro
servizio,» recitò, ricordando la sua prima
introduzione a loro.
Il viso di
Yongguk si fece
livido.
«Youngjae,»
lo chiamò Himchan
in tono tradito, «dimmi che è uno dei tuoi scherzi
di cattivo gusto. Come hai
potuto? Sapevi che avremmo–»
«Fatto
di tutto per
salvarmi?» lo interruppe Youngjae, impassibile.
«Certo, che lo sapevo. Per
questo è stato tanto facile ingannare sia voi che quei
pivelli dei COB.ra. Ho
detto loro che volevo farvi fuori perché non mi andavate
più a genio, e hanno
subito abboccato. Due piccioni con una fava; geniale, giusto?»
Dall’altro
lato della
banchina della stazione, Haejong gli gridò insulti, e
dovette essere fermato
dalla polizia con la forza. Youngjae lo ignorò.
«Piuttosto, dovreste
ringraziami. Quelli là avevano intenzione di ammazzarvi una
volta che avreste
voltato loro le spalle. Vi ho risparmiato una brutta fine.»
«Tu
hai detto– ci hai detto
che dovevi– quando ti abbiamo preso con noi– tua
madre–» farfugliò Daehyun,
completamente disorientato dalla situazione. Guardò
Youngjae, il quale gli ricambiò
l’occhiata senza mostrare alcuna emozione.
«Oh,
quello,» gli rispose,
«quello era vero, hyung. Non vi ho mentito. Dovevo, in
effetti, cercare
informazioni sulla mia famiglia personalmente. Ho solo pensato di
approfittare
bene dell’occasione, come mi era stato consigliato. Niente di
che.»
Sui loro visi,
Youngjae
riusciva perfettamente a vedere come la sua rivelazione avesse effetti
devastanti sui B.A.P. Era quel tipo di espressione che aveva visto
ormai
svariate volte, di cui oramai non si sorprendeva più. Era
fatta, e sapeva che,
da ora in poi, loro non lo avrebbero più visto come una
volta.
Neanche lui
era una persona
buona, dopotutto.
«Mi
sono divertito con voi,»
disse a loro onestamente – e forse la sua espressione dura e
impassibile si
attenuò in modo impercettibile –
«davvero. È stato un bel periodo. Ma voi siete
dei criminali, ed io ho degli obblighi e doveri da mantenere in quanto
ho
giurato su di esse. Per legge, dovete finire in carcere, tutto
qui.»
Quando vide
che non c’era
nient’altro da dire – ora i B.A.P lo guardavano
accusatori e pieni di odio –
indossò di nuovo il suo mezzo sorriso. «Qui ho
finito. Ci vediamo in giro,» e
si portò la mano destra sulla fronte, regalando loro un
saluto ironico.
Voltò
loro le spalle e si
fece strada tra la sua squadra, nonostante il corpo gli stesse dolendo.
I volti
dei B.A.P sarebbero stati un altro paio di incubi che si sarebbero
aggiunti al
suo sonno, pensò, ma non era niente che non poteva
sopportare.
Himchan aveva
un ricordo
limpido di molti anni fa, prima di incontrare Yongguk e prima di
diventare un
assistente in un’officina di zona.
Ricordava sua
madre ritornare
nel loro modesto appartamento dopo il suo “lavoro”
e raccontargli di come
avesse incontrato dei bei giovani, alcuni persino le offrivano il loro
cuore
(Himchan provò pena per loro, perché lei offriva
il suo corpo ad una miriade di
altre persone); parlava di tutto, ma ignorava completamente la sua
esistenza.
Himchan si era
chiesto come
si potesse donare un amore incondizionato a chiunque e qualunque cosa,
fuorché
al proprio figlio. Si sentiva tradito, dimenticato, solo; avrebbe
voluto così tanto che
sua madre si accorgesse
di lui, così da donargli quel poco di affetto che gli
serviva. Lo desiderava
più di ogni altra cosa, davvero; ma quando se ne
andò di casa e la incontrò
nuovamente anni dopo, lei gli disse solo che assomigliava ad una certa
persona
e gli chiese, ammiccante, se avesse voglia di passare la notte con lei.
Quella
sera, quando Yongguk andò in officina, lo aveva trovato
vomitare e piangere
lacrime incontrollabili.
Ora, quel
groppo in gola si
era presentato di nuovo alla vista delle spalle di Youngjae. Himchan
non
riusciva a spiegarselo, gli aveva donato tutto quello che poteva,
perché non si
sentisse come si era sentito lui stesso e Youngjae–
Lui aveva
deciso di
lasciarli.
«Youngjae,»
disse annaspando,
guardando i suoi compagni e indicandolo con un dito tremante,
«lo avevo detto.
Non dovevamo fidarci.»
Quando Yongguk
si mosse,
Himchan non poté non seguirlo, sentendosi di nuovo tradito e
dimenticato e dannatamente solo.
Avrebbe voluto
raggiungere quel lurido bastardo e prenderlo per la collottola e
sputargli
addosso tutto quello che aveva – avevano
– fatto per lui.
Invece, le sue
mani vennero
bloccate dalla presa ferrea di un membro della S.W.A.T., e fu sbattuto
violentemente contro il duro cemento della parete.
La vita di
Daehyun era stata
un mix di alti e bassi – francamente, più bassi,
che alti. I bassi erano il
tempo passato nella solitudine della sua stanza, un’adozione
troppo fredda e
distante perché potesse essere felice; gli alti, i quattro
brevi, preziosi anni
passati con i B.A.P.
Col tempo,
aveva imparato che
solo a poche e privilegiate persone spettava un lieto fine, e lui non
era tra
quelle. Tuttavia, poté illudersi di esserne una quando
incontrò gli altri
quattro membri. Nonostante non fossero i migliori modelli da seguire,
in quel
gruppo aveva trovato la serenità che aveva potuto solo
sognare. Daehyun poteva
finalmente dire che sì, a lui spettava una fine davvero
lieta.
Tutto questo
lo raccontò a
Youngjae una sera di pochi mesi prima, il quale aveva annuito e
sorriso.
Daehyun aveva pensato, in quell’occasione, che quello era uno
dei sorrisi più
genuini che lo aveva visto rivolgergli.
Tuttavia, ora,
vedendosi
circondato da un’intera squadra pronta a sparare a loro nel
momento in cui avessero
fatto un passo falso, aveva cominciato a dubitare di tutto quello che
aveva
conosciuto di lui. Dove finiva il Youngjae sincero e iniziava quello
che ora era
solo un traditore?
Daehyun
trovò quella
situazione estremamente divertente. Emise un grido frustrato, e prima
che
potesse lasciarsi verso Youngjae – una parte della cosa
più vicina ad una
“casa” che avesse mai conosciuto – venne
sbattuto per terra, tastando sangue
nella sua bocca.
«Yoo
Youngjae!» gli urlò
comunque, «ritorna qui, brutto stronzo! RITORNA
QUI!»
Le sue grida
rimbalzarono nel
vuoto, sulle pareti della stazione.
Jongup aveva
avuto una vita
difficile, e lo sapeva. Era nato in una famiglia sbagliata e aveva
fatto scelte
sbagliate, e sapeva anche questo.
Ogni giorno
era ritornato da
scuola per trovare suo padre che lo portava nel seminterrato della loro
casa,
dove si trovavano equipaggiamenti ed armi di ogni tipo, e lo spronava a
provare, provare, provare; un pugno un rovescio un calcio uno sparo un
pugno un
rovescio un calcio uno sparo. Non smettevano fino a quando Jongup non
si
accasciava a terra e non si sentiva troppo esausto per continuare. La
routine
era continuata per diversi anni – Jongup si
dimenticò persino del momento in
cui aveva cominciato a seguirla. Gli sembrava di non aver fatto altro
nella
vita.
Entrando nei
B.A.P, era una
macchina da guerra pronta per essere utilizzata. Pensava di aver
lasciato alle
sue spalle tutta la sua compassione, ma si dovette ricredere quando
Yongguk e
Himchan lo trattarono come un ragazzo normale. Jongup era stato
sopraffatto da
quel loro comportamento, dal momento che quasi nessuno si era rivolto a
lui con
un tono tanto informale.
Desiderò
di aver mantenuto
quella sua mentalità calcolatrice quando Youngjae si era
presentato a loro. Ma
con le mani bloccate dolorosamente dietro la schiena da un paio di
manette,
poteva solo guardare la schiena di Youngjae voltata verso loro; lo
stesso
Youngjae che lo aveva visto come un normale teenager, scherzando e
parlando
casualmente con lui, facendogli dimenticare momentaneamente che era il
guerriero
dei B.A.P per eccellenza.
Quella fu
un’altra delle sue
scelte sbagliate.
«Hyung!»
riuscì solo a
gridare con voce roca. «Hyung! Perché ci stai
facendo questo?!»
Junhong aveva
tredici anni
quando si trascinò nell’officina Kim, che era
stata aperta da poco. Doveva
essergli sembrato davvero patetico perché Himchan avesse
deciso di tenerlo con
sé e farlo diventare suo assistente.
Prima di
allora, per un anno
aveva tentato di sopravvivere per le strade dopo essere scappato da una
casa
che gli dava solo incubi, rubando ed aggregandosi a certi gruppi poco
affidabili che gli avevano offerto un tetto sotto cui dormire per pochi
mesi.
Quell’anno gli aveva dato la consapevolezza di vivere in un
mondo duro, di
dover adattarsi, ma come poteva far ciò quando tutto quello
che riusciva a
ricordare era il terrore? Come poteva far ciò quando i suoi
sogni erano
infestati dagli orrendi lividi che comparivano sulla pelle di sua madre?
Dopo che i
B.A.P si
formarono, dopo che Yongguk e Jongup gli avevano insegnato come
contrastare la
realtà ostile, dopo tutto quello, Youngjae gli disse che
andava bene se certe
volte era solo Junhong (giovane e pieno
di vitalità e ingenuo) e non Zelo (spietato
e freddo e robotico), e andava bene se certe volte smetteva
di tenere tutte
la sua stanchezza e le sue lacrime dentro di sé.
Non era come
se il resto dei
B.A.P non glielo avesse detto, loro erano stati solo più
discreti ed impliciti
a proposito. Ma Junhong ne fu sorpreso, in parte perché non
credeva che lo
hyung lo avrebbe visto sotto quella luce, in parte perché
fino ad ora era stato
solo Zelo. Ma ne fu, in un certo senso, felice.
Fu quindi
Junhong, e non
Zelo, che ricordò quel giorno quando venne forzato in
ginocchio e guardò
Youngjae mentre si allontanava, e fu sempre Junhong che
sentì il proprio cuore
essere spaccato in mille pezzi, gridando al cielo.
Una parte di
Yongguk forse
aveva sempre saputo che, prima o poi, i B.A.P sarebbero finiti in
questo modo.
Aveva voluto invece spingere quella piccola voce maligna in un angolo
della sua
mente, volendo solo vivere quei momenti con i suoi membri serenamente.
Tuttavia, mai
aveva
immaginato che sarebbe stato uno di loro a spingerli fino a
lì. Gli era
piaciuto credere che Youngjae non avesse davvero cattive intenzioni,
perché da
quando era entrato nel gruppo tutto era migliorato ancora di
più, ed erano
diventati persino più vicini di prima.
Che qualcosa
del genere
succedesse era assolutamente inimmaginabile.
Yongguk
ricordava il sorriso
imbarazzato e disarmante che Youngjae gli aveva rivolto quando gli
aveva detto
di non avere idea di come avevano fatto i B.A.P a sopravvivere senza il
suo
cervello.
E ancora,
Yongguk ricordava
quando, appena cinque mesi prima, Youngjae era ritornato
all’officina l’ultimo
dell’anno con sacchetti pieni di cibo e fuochi
d’artificio, che accesero appena
scoccò la mezzanotte, tingendo il cielo fuori dal garage di
fiori variopinti.
Sul serio,
Yongguk avrebbe
voluto ridere per come erano stati ingannati facilmente. Sperava che
questo
fosse un altro scherzo della sua immaginazione, ma il dolore era vero e
la
polizia li stava arrestando, e lui poteva solo guardare Youngjae che
non si
degnava di assistere alla loro fine.
Con le braccia
bloccate
dietro la schiena, si dimenò per liberarsi come meglio
poté, imprecando contro
di lui – «Sei un bastardo, Yoo
Youngjae!», «Abbiamo rischiato tutto per venire
a salvarti!», «Ci fidavamo tutti di te!»,
«Come hai potuto ingannarci in questo
modo?!».
Il suo petto
stava per
esplodere per tutto il dolore che sentiva. Desiderava chiedergli se
tutto
quello che i B.A.P gli avevano offerto non fosse stato abbastanza
perché lui
decidesse di pugnalarli alle spalle comunque.
Dovette essere
forzato a
terra, ma, nonostante tutti i suoi arti fossero bloccati, i suoi occhi
traditi
erano costantemente attaccati alla schiena di una delle persone a cui
aveva affidato
ciecamente tutto di sé.
Eppure,
nonostante le grida
straziate dei B.A.P, Youngjae non si voltò indietro nemmeno
una volta.
[ part 4: please hold onto my hand
so that i can wake up, please don’t go. ]
N/A:
e con questo, si conclude questa fanfiction. Applausi a me, dato che
non riesco
mai a finire le storie a più capitoli. Clap clap.
Non voglio che
vediate
Youngjae nel ruolo del cattivo. Voglio dire, noi non ci affidiamo alla
polizia
perché i criminali vengano catturati? Non pensiamo che
stiano facendo la cosa
giusta? Questa è la stessa cosa. (E non considero il resto
dei B.A.P cattivi,
ma non voglio nemmeno glorificare i criminali, sia chiaro. Non fate
cose che vi
faranno andare in prigione, bambini!)
Ho spezzato
quest’ultima
parte in due perché non mi piaceva la parte iniziale, e
l’ho letteralmente
riscritta tutta. Così è venuta molto
più lunga di prima lmao. La playlist del
capitolo precedente vale anche per questo (e vedo
“Back” degli Infinite molto
più adatta all'inizio di questa seconda parte lmao).
Se volete
qualcosa di più
preciso sul centro Mato, è praticamente un edificio fuori
dall’universo (????? Allora
perché si vedono le stelle??? Lmao non lo so ok) che regola
gli universi
paralleli. Francamente, non so spiegarlo bene in poche parole sob se
volete,
posso mandarvi un MP per una spiegazione più dettagliata.
E ora, un paio
di numeri e
curiosità: ho scritto la fanfiction su un unico documento
Word, dato che la
considero una long shot. La storia ha in totalità
più di 25.500 parole (senza
contare le parole dei titoli e delle playlist), e pesa più
di 120 kilobyte. Incredibile,
eh? È una delle storie più lunghe che abbia
scritto e a cui sono più
affezionata. Ho persino fatto una linea del tempo per quanto ne sono
ossessionata ahahah sob potete vederla qui: CLICK!
Infine, vorrei
ringraziare
tutti voi lettori che mi avete sopportata. Sono felice di avere
concluso questa
storia! Spero di poterne pubblicare un’altra in un futuro
prossimo. Per ora,
passo e chiudo. Ancora una volta, grazie per aver letto fino ad ora!
Rainie
P.S.: Sarò al prossimo KPOP Voice Contest a Fumettopoli! Riuscirete a trovarmi? ;)