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Autore: Chaotic Alaska    10/09/2014    6 recensioni
~ Prima classificata al contest "Tell me a secret" indetto da passiflora91 ~
'In quei pochi istanti, conobbi la paura, quella vera, che non è il brivido che ti corre lungo la schiena quando torni a casa di notte, immerso nel buio.
Non sono le mani davanti agli occhi mentre guardi un film horror. Non sono le urla di terrore, non è la fuga disperata.
E’ più simile a una calma perfetta.
Ad un singolo istante che diventa eternità, col cuore che si ferma, il silenzio che ricopre ogni cosa.
Tutto si ferma.'
Genere: Horror, Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fate in fretta





All’inizio, non era stata che una strana sensazione, una sorta di brivido sulla schiena, quando la donna ci aveva aperto la porta.
“Siete qui per vedere l’appartamento?” domandò, con un sorriso. Doveva avere circa sessant’anni, il fisico asciutto, i lunghi capelli, di un bianco che sembrava argento, raccolti in una treccia.
Annuimmo. Jack, molto più a suo agio rispetto a me in queste situazioni, spiegò la nostra situazione: eravamo due studenti universitari al secondo anno di corso, cercavamo un appartamento vicino alla nostra facoltà, possibilmente abbastanza grande e non troppo costoso.
La donna ci squadrò dalla testa ai piedi, come a volersi assicurare che non fossimo due maniaci psicopatici, poi il suo volto si illuminò in un sorriso: doveva essere giunta alla conclusione che non fossimo pericolosi.
“Molto bene, il mio appartamento farà proprio al caso vostro, allora. In ogni caso, io sono la signora Marina Basile, piacere di conoscervi” disse, stringendoci la mano.
“Io sono Jack, e lui è il mio amico Diego”
“Jack? Sei straniero?”
“Beh, sono nato in America, ma vivo qui in Italia da anni ormai. Se non fosse per il mio nome, nessuno capirebbe che sono americano” rispose lui, con il suo solito sorrisetto furbo stampato in faccia.
La signora Marina afferrò un mazzo di chiavi da una mensola nell’ingresso e chiuse dietro di sé il portone del suo appartamento, facendoci strada su per le scale del condominio.
“L’appartamento in affitto è esattamente sopra il mio. Prima vivevo lì, ma dopo la morte dei miei genitori, ho deciso di trasferirmi a casa loro” commentò la donna, scegliendo una chiave nel mazzo ed aprendo la porta dell’appartamento.
Pensai che fosse una scelta abbastanza strana, ma rimasi in silenzio.
La signora Marina ci fece da guida, mostrandoci le varie stanze e rispondendo alle nostre domande sull’affitto, le spese condominiali e altri dettagli del genere.
L’appartamento era decisamente molto grande, tagliato in due da un corridoio, con due ampie camere da letto da una parte, la cucina e il bagno dall’altra. In fondo al corridoio, si apriva un piccolo salotto. Le stanze erano ben arredate, forse i mobili erano un po’ vecchi, ma non avevamo motivo di lamentarci, visto il costo basso dell’affitto.
Però, c’era qualcosa che non tornava.
“Signora Marina, mi scusi. Nel corridoio, tra la cucina ed il bagno, c’è un’altra stanza, o sbaglio? Passando, ho visto una porta chiusa” domandai.
“Oh, sì, giusto. Scusatemi. Quella era la stanza di mia figlia, ho chiuso la porta a chiave perché ci sono ancora alcuni suoi effetti personali, lì dentro. Ho preferito non buttarli, non si sa mai che le servano” spiegò la donna “Preferirei che voi non entraste là dentro. E’ una stanza molto piccola, in ogni caso, e non vi sarebbe di alcuna utilità”
“Certamente, non c’è alcun problema” affermò Jack.
Non mi faceva impazzire l’idea di avere una stanza chiusa a chiave dentro casa mia, ma, d’altra parte, non era nulla di così grave: il costo dell’affitto era irrisorio, l’appartamento enorme. Che problema poteva esserci?

Poco dopo, eravamo di nuovo in strada, nel caldo torrido di fine agosto.
Avevamo preso accordi con la signora Marina per la firma del contratto, ora non ci restava che chiuderci in un McDonald’s, a goderci aria condizionata e untissimi hamburger.
Alzai lo sguardo verso il terzo piano, cercando le finestre del nostro appartamento; nonostante il caldo, il sangue mi si ghiacciò nelle vene quando riconobbi il profilo della signora Marina, che ci osservava da dietro i vetri del balconcino della cucina.
Esitante, alzai un braccio per salutarla, ma lei era già scomparsa.
Poco più in là rispetto al balcone, si apriva la finestrella del bagno: in mezzo, in corrispondenza della stanza di sua figlia, nulla.

“Ti sembra normale non mettere finestre nella stanza di tua figlia? Dai!” sbottai, buttando giù un morso di panino.
Eravamo seduti in un McDonald’s, circondati dal chiacchiericcio della folla, e stavamo divorando il nostro pranzo, discutendo animatamente dell’appartamento e della signora Marina.
“Diego, quanto sei impressionabile, e che Cristo! Quella stanza non aveva finestre, e allora? Magari non era proprio la stanza di sua figlia, solo un ripostiglio per i suoi oggetti. Non farne un dramma” mi liquidò Jack, divorando patatine come se non mangiasse da giorni.
“Jack, quella donna ha qualcosa di strano. Ci stava spiando dalla finestra e, appena si è accorta che la fissav..”
“Ci stava guardando, c’è una bella differenza. Una non può neanche affacciarsi alla finestra, che tu pensi male? Sei leggermente paranoico” replicò il mio amico, tracciando delle virgolette in aria per sottolineare il “leggermente”.
“Beh, in ogni caso. Ho una strana sensazione”
“Al diavolo, Diego. Quell’appartamento è perfetto, le lezioni cominciano tra pochi giorni e ci serve un posto dove dormire”
Purtroppo, Jack aveva ragione. Erano giorni che setacciavamo la città alla ricerca di agenzie immobiliari e volantini “AFFITTASI”, ma non avevamo trovato neanche un appartamento che facesse al caso nostro: non potevamo lasciarci sfuggire quell’occasione.

Le prime settimane nel nostro nuovo appartamento passarono tranquillamente: le lezioni erano iniziate e passavamo pochissimo tempo in casa, preferendo studiare in biblioteca, assieme ai nostri amici.
All’inizio, evitavo accuratamente anche solo di avvicinarmi alla porta chiusa a chiave. Jack sbuffava e alzava gli occhi al cielo ogni volta che, attraversando il corridoio, la fissavo nervosamente, come se avessi paura che si spalancasse all’improvviso e mi inghiottisse.
La mia iniziale paura nei confronti di quella porta chiusa si trasformò lentamente in curiosità: era come se mi chiamasse a sé, ed era inutile ripetersi che si trattava di un semplice ripostiglio, pieno di oggetti vecchi e impolverati. Era un richiamo troppo forte.
Arrivai al punto di fermarmi in mezzo al corridoio, immobile, fissando quella porta con intensità, come se il mio sguardo potesse trapassarla e permettermi di vedere al di là.
Un giorno, non riuscendo più a trattenermi, accesi il mio portatile, deciso a fare qualche ricerca sulla nostra padrona di casa: digitai “Marina Basile” nella barra di ricerca di Google e cliccai Invio.
Lo schermo, sorprendentemente, si riempì di risultati. Smisi di respirare e, con le mani tremanti, aprii quello che sembrava un articolo di giornale.
“J-Jack” riuscii ad articolare, dopo qualche minuto di silenziosa lettura.
Il mio amico, buttato sul divano con un libro di Chimica tra le mani, mi guardò, perplesso.
“Diego, che ti prende? Sei pallido da far paura”
“Leggi” mi limitai a sussurrare, spingendo il portatile verso di lui.
“Tremendo incidente stradale.. quattro vittime, tra cui una bambina di dieci anni.. la signora Marina Basile, in macchina con il marito e la figlia, si è salvata per miracolo.. Nel secondo veicolo coinvolto, viaggiavano.. oh, cazzo”
La storia aveva dell’incredibile: la famiglia Basile, partita per andare a trascorrere le vacanze estive nel paesino dei genitori di lei, era rimasta coinvolta in un incidente. Il signor Stefano Basile aveva perso il controllo dell’auto, che era andata a schiantarsi contro un veicolo proveniente dalla direzione opposta. Stefano e Lidia, la figlia della coppia, erano morti sul colpo. La signora Marina era uscita miracolosamente illesa dei resti della loro vettura.
Trasportata in ospedale, in stato di shock, aveva ricevuto una sconvolgente notizia.
Nell’altra auto, viaggiavano i suoi genitori.

Quella sera, cenammo in silenzio, assorti nelle nostre riflessioni.
Jack continuava a passarsi le mani tra i corti capelli biondi, cosa che faceva solo quand’era davvero nervoso, ovvero quasi mai.
Mentre lavavo i piatti, trovai il coraggio di sollevare la questione.
“Nessuno esce sano di mente da una situazione simile”
Le mie parole restarono per un po’ a galleggiare in mezzo a noi, prima che Jack alzasse lo sguardo dalle sue dita intrecciate.
“Lo so”
“Sua figlia è morta. Perché ha detto che conservava le sue cose nel caso le fossero servite ancora? Capisco che magari non voglia vederle, per non dover pensare a lei, ma da qui a lasciarle chiuse in un appartamento in cui neanche vive..”
“E se ci fosse qualcos’altro, lì dentro?” domandò Jack, e l’ennesimo brivido mi corse lungo la schiena.
“Cosa vuoi che ci sia? Se ci fosse qualcosa di più.. sinistro, non avrebbe mai affittato l’appartamento” replicai, con la sensazione che stessi cercando di autoconvincermi di questo.
“Diego.. Se davvero è matta, non credo che le importi più di tanto. Dobbiamo provare ad aprire quella porta e, nel caso, rivolgerci alla polizia” Jack sembrava aver recuperato la sua consueta determinazione.
All’improvviso, il campanello d’ingresso suonò: quasi lanciai un urlo, mentre Jack scattava in piedi, spaventato quanto me.
“Dobbiamo. Darci. Una. Calmata” sussurrai, gesticolando “E’ solo una cazzo di porta chiusa. Magari non è nemmeno lei la Marina Basile dell’articolo, foto non ce n’erano. E’ solo una nostra supposizione. E anche fosse lei, se fosse così matta, sarebbe chiusa in un manicomio, certo non affitterebbe appartamenti a studenti universitari”
Jack annuì, tranquillizzato, e insieme andammo ad aprire la porta.
“Oh, buonasera! Non speravo proprio di trovarvi a casa”
La signora Marina, braccia conserte e sorrisetto divertito, ci osservava, ferma sulla soglia della porta: sembrava quasi che ci leggesse negli occhi i nostri timori.
“Ehmm.. buonasera, signora. Ha.. ha bisogno di qualcosa?” domandai.
“A dire il vero, sì. Ho finito il sale, ne avreste un po’ da darmi?”
Mentre Jack andava a riempire un barattolo di sale, rimasi lì, le mani affondate nelle tasche, cercando di evitare il suo sguardo.
“Tutto bene, Diego?”
“Oh, ehmm, sì, certo. Signora Marina, mi perdoni la domanda, ma.. Come mai ha deciso di trasferirsi nell’appartamento dei suoi genitori?”
L’avevo chiesto davvero?
La donna mi regalò uno dei suoi sorrisi a trentadue denti.
“Tesoro, non vedo come possa interessarti. E’ una storia molto noiosa. Diciamo solo che sotto avevo già l’attrezzatura per il mio lavoro e, invece di spostarla qui, ho preferito trasferirmi io” rispose lei.
“Ah, beh, immagino sia più comodo così.. Ho chiesto solo perché.. perché.. sa, pensavo che, trasferendosi a casa dei suoi genitori, potesse sentire di più la loro mancanza, ecco”
“Assolutamente no, mio caro Diego. Loro sono sempre con me!” esclamò lei. E sarebbe potuta sembrare un’affermazione normale, se non fosse stato per lo sguardo folle ed esaltato che l’aveva accompagnata.
Dopo quelle parole se ne andò, senza aspettare il sale. Chiusi la porta d’ingresso a chiave, tremando in maniera incontrollabile.
“Dobbiamo aprire la porta” dissi a Jack, che era appena tornato col barattolo di sale.
“Cosa? Come? Adesso?”
Gli raccontai il breve scambio di battute tra me e la donna, mentre correvo in corridoio e provavo ad aprire la porta: niente, era chiusa.
Cercammo ovunque la chiave, ma niente. Stavamo già per arrenderci all’idea che la portasse sempre con sé, quando Jack ebbe un’illuminazione.
“Il sale!”
“Che c’entra il sale?”
“Diego, andiamo. E’ venuta a chiederci il sale ed è scappata via prima che glielo portassimo. Se le fosse servito davvero, sarebbe già tornata, rendendosi conto di averlo dimenticato. Forse, c’è qualcosa nel barattolo del sale e lei voleva assicurarsi che non l’avessimo trovato”
“Jack, cazzo, hai letto troppi gialli. E’ un’assurdità” commentai, ridacchiando, mentre il mio amico svuotava il barattolo del sale nel lavandino “Domani vai tu a ricomprarl..”
Una chiave cadde sul piano della cucina e Jack la afferrò al volo, voltandosi a guardarmi con aria trionfante: “Dicevi?”
Davanti alla porta chiusa, esitammo. Solo in quel momento, realizzai che, dall’altro lato della porta, poteva esserci qualsiasi cosa.
Se davvero avevamo a che fare con una psicopatica, dovevamo essere pronti a tutto.
“Diego. Qualsiasi cosa ci sia lì dietro, noi domani da qui ce ne andiamo” sussurrò Jack, stringendo la chiave tra le dita sudate.
“Assolutamente sì” risposi, prendendo delicatamente la chiave dalle sue mani, infilandola nella serratura e girandola, con qualche difficoltà.
La porta si aprì e la luce del corridoio vi si riversò dentro, illuminando una porzione della stanza, completamente vuota.
Afferrai la mano di Jack ed entrammo.
In quei pochi istanti, conobbi la paura, quella vera, che non è il brivido che ti corre lungo la schiena quando torni a casa di notte, immerso nel buio.
Non sono le mani davanti agli occhi mentre guardi un film horror. Non sono le urla di terrore, non è la fuga disperata.
E’ più simile a una calma perfetta. Ad un singolo istante che diventa eternità, col cuore che si ferma, il silenzio che ricopre ogni cosa. Tutto si ferma.
La stanza era piena di volti, pallidi come la morte, gli occhi chiusi, di corpi privi di vita, le mani abbandonate contro i fianchi. Erano sdraiati, o seduti, o appoggiati contro le pareti.
Non gridammo, restammo semplicemente lì, fermi, mano nella mano. Il mio cervello sembrava girare a vuoto, non riuscivo a concentrarmi, a capire cos’avrei dovuto fare.
“Bambole” fu il sussurro di Jack, incredulo.
E poi capii. Erano bambole. Delle semplicissime, stra maledette bambole.
“Diego, sono bambole”
Era impossibile che un cadavere non fosse già andato in decomposizione, dopo tutto quel tempo. Erano bambole, le bambole di due anziani signori, un uomo, una bambina, alcuni ragazzi..
E una donna ferma sulla soglia della porta, lo sguardo divertito, le braccia conserte.
“Oh oh” ridacchiò la signora Marina “A quanto pare, ho commesso un piccolo errore, con la storia del sale. Non mi aspettavo che capiste il mio giochetto. Avevo lasciato la chiave dentro quel maledetto barattolo e temevo che l’avreste trovata”
L’aria si era fatta talmente gelida da far male.
“Se solo voi giovani cucinaste un po’ di più, invece che ordinare pizza e altre schifezze. Forse, avreste finito il sale e trovato la chiave prima, quando potevate ancora salvarvi” commentò la donna, scuotendo la testa.
Avevamo davvero creduto, anche solo per un attimo, che fossero davvero bambole? Il nostro cervello aveva voluto negare la realtà fino a quel punto?
“Lei non può farci nulla” trovai il coraggio di replicare “I nostri genitori sanno che siamo qui”
“Oh, sì, anche i loro genitori lo sapevano” commentò la signora Marina, con un sorriso, indicando i corpi dei ragazzi “Purtroppo, miei cari, sul contratto d’affitto è segnato un altro indirizzo, non certo questo. Corrisponde ad un appartamento vuoto da anni, il proprietario è morto. Di fatto, avete firmato un contratto con un fantasma. Non troveranno nulla laggiù e penseranno che siete scappati via, o che vi sia successo qualcosa, a chi importa. Non verranno mai a cercarvi qui”
Avevo una percezione sempre più vaga del mondo circostante. Le parole della donna mi arrivavano da sempre più lontano, come se mi trovassi sul fondo dell’oceano. La mano di Jack, l’unica àncora che mi legava alla terraferma, stava lentamente scivolando via.
“Ah, Diego, a proposito” la donna si rivolse a me “Mio padre era un imbalsamatore. Sotto ho tutta la sua attrezzatura, non sarei mai riuscita a portarla qui da sola, e certo non potevo chiedere aiuto ai vicini. Il mio primo esperimento di imbalsamazione è stato proprio su di lui, dopo aver portato via i loro corpi dal cimitero, e devo dire che è riuscito benissimo. E’ stato così facile! A parte rubare i corpi, certo, ma aiuta abbastanza il lavorare come custode al cimitero”
Jack cadde in ginocchio, gli occhi spalancati, come a voler trovare un senso a quell’assurdità.
Era una scherzo, doveva essere così. Quella donna poteva essere pazza, ma non era un’assassina. Non sarebbe finita così. No. No.
“Un’ultima cosa. Fate in fretta a morire, va bene? Non vorrei che vi rovinaste troppo. Sarete una magnifica aggiunta alla mia collezione”
Uscì dalla stanza e chiuse la porta dietro di sé. Potemmo sentire la chiave girare nella serratura.
Il buio ci inghiottì, come una coperta gettata sul mondo.
   
 
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