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Autore: M4RT1    10/09/2014    4 recensioni
[The Maze Runner]
[The Maze Runner]Alby&Newt | 1154 words | Songfic [Keep Holding On - Avril Lavigne]
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La prima volta che si videro, da bambini.
La prima volta che parlarono.
La prima volta che videro il Labirinto.
I ricordi che persero.
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Alby era più alto e robusto, la testa ricoperta da una folta capigliatura riccia e scura; Newt era mingherlino e nervoso, i capelli biondi che gli ricadevano in ciuffi scomposti sugli occhi neri. Erano gli unici in quella stanza. Erano soli. Erano terrorizzati. E avevano solo sei anni.
Genere: Introspettivo, Slice of life, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'And I would have stayed up with you all night'
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You’re not alone

Together we stand

I’ll be by your side

You know I’ll take your hand

 
Alby e Newt si conobbero il primo giorno in cui misero piede alla sede operativa della C.A.T.T.I.V.O., un piovoso lunedì, il primo di una lunga serie.

Erano seduti l’uno di fianco all’altro in un’enorme sala d’attesa bianca: sguardi spaventati, manine chiuse a pugno, piedi che sfioravano soltanto il pavimento. Alby era più alto e robusto, la testa ricoperta da una folta capigliatura riccia e scura; Newt era mingherlino e nervoso, i capelli biondi che gli ricadevano in ciuffi scomposti sugli occhi neri. Erano gli unici in quella stanza. Erano soli. Erano terrorizzati. E avevano solo sei anni.

― Credo che vogliano farci una puntura ― sussurrò a un certo punto Newt, la vocina acuta. Sedeva diritto, la schiena rigida e le braccia tese. Alby non parlava. ― Mi chiamo Newt, comunque ― continuò. Non era il suo vero nome, ma gli era stato ordinato di non dirlo mai a nessuno.

― Okay ― rispose finalmente l’altro, lo sguardo fisso davanti a sé. Indossava un paio di pantaloni marroni e una tshirt giallo chiaro tutta stropicciata; i segni del cuscino su cui aveva riposato erano ancora impressi sulle guance paffute.

― Sai, non mi piacciono le punture ― proseguì Newt, voltandosi verso l’altro. Ora si tormentava il lembo della camicia con le dita, nervoso. ― Non voglio farne una.

Alby sospirò, alzando gli occhi al cielo.

― Devi ― disse solo.

Il tempo passò. Newt continuava a muoversi, dondolando avanti e indietro e giocherellando con qualunque cosa gli capitasse a tiro. Alby, invece, sembrava piuttosto tranquillo. Erano trascorsi quasi quindici minuti quando, sussurrando, Newt mormorò:

― Non voglio entrare lì dentro.

Aveva il visino rivolto verso l’altro, gli occhi spalancati e il labbro inferiore che tremava in maniera preoccupante. Ma soprattutto, teneva un dito di Alby stretto nella sua mano. L’altro accennò un sorriso – per la prima volta da mesi, da quando la sua mamma era impazzita e il suo papà aveva cominciato a comportarsi in modo strano.

― Nemmeno io vorrei ― disse con tono solenne. ― Ma il mio papà ha detto di fidarmi di loro. E adesso lasciami il dito ― aggiunse, tirandolo via con uno strattone.

― Oh, scusa ― balbettò l’altro. La sua pelle pallida si tinse di rosa mentre abbozzava un sorriso; gli mancavano due incisivi.

― Comunque sono Newt!

― Lo so, me l’hai già detto.

― E tu?

― Io cosa?

― Come ti chiami?

― Mi chiamo Ni- Alby.

― Oh, d’accordo. Non hai paura delle siringhe?
 
 
Keep holding on

‘cause you know we’ll make it through

We’ll make it through
 
― Sembra spaventoso, no?

La prima volta in cui Newt e Alby videro il Labirinto avevano quasi quindici anni. La struttura – austera, immensa, spaventosa – troneggiava in bella mostra in un plastico al centro di un grosso tavolo che fungeva da espositore. Era notte.

― Forse non saremmo dovuti venire qui ― borbottò Alby, passandosi una mano sui capelli rasati di fresco. Indossava i soliti abiti della C.A.T.T.I.V.O. – pantaloni grigi, tshirt nera e scarpe da ginnastica, ma nella poca luce diffusa dalle luci d’emergenza si confondevano con il buio circostante.

― Volevo vederlo, prima di entrarci ― lo contraddisse l’amico, sospirando. Lui indossava il pigiama, quello celeste chiaro dato in dotazione a tutti loro.

Aveva la schiena curva, il viso a pochi centimetri dal plastico, l’aria a metà tra l’estasiato e il terrorizzato. ― E’ proprio bello.

― E spaventoso ― aggiunse Alby. Era la prima volta che lo diceva ad alta voce, ma era l’unico pensiero che gli riempiva il cervello da settimane.

― Tu hai ― Newt si schiarì la voce. ― Hai paura? Cioè, stiamo facendo la cosa giusta… giusto?

Alby fece una smorfia. Aveva paura? Certo che ne aveva. Ne aveva così tanta che si svegliava nel cuore della notte e sentiva l’impulso di urlare, terrorizzato. Si calmava solo sentendo il respiro regolare degli altri del Dormitorio, accanto a lui – Newt a destra, Minho a sinistra.

― Noi saremo insieme, anche lì ― provò. ― Non c’è da aver paura, se siamo insieme.

― Ma non ci ricorderemo l’uno dell’altro.

― No. Ma torneremo amici, ne sono sicuro.

― Qualunque cosa ci capiti, dobbiamo giurare che la faremo insieme.

Quella notte, Newt scrisse il suo nome sulla spalla di Alby e l’altro fece lo stesso su quella dell’amico. Quando si sarebbero svegliati e avrebbero trovato il nome dell’altro, magari avrebbero ricordato, o almeno si sarebbero avvicinati l’uno all’altro.

 
Just stay strong

‘cause you know I’m here for you

I’m here for you
 
Alby e Newt si conobbero il primo giorno alla Radura, un soleggiato giorno uguale a cento altri.

Erano sdraiati l’uno di fianco all’altro, nella piccola Scatola di metallo: sguardi spaventati, mani chiuse a pugno, piedi che toccavano le scarpe degli altri venti. Alby era alto e robusto, la testa ricoperta da scuri capelli appena ricresciuti; Newt era mingherlino e spaesato, i capelli biondi che gli ricadevano in ciuffi scomposti sugli occhi neri. Erano in venti nella Scatola. Ma erano soli. Erano terrorizzati. E avevano solo quindici anni.

― Dove siamo? ― sussurrò a un certo punto Newt, spezzando il silenzio. Sedeva diritto, la schiena rigida e le braccia tese. Alby non parlava. ― Mi chiamo Newt, comunque ― continuò. Non ne conosceva il motivo, ma era l’unica cosa che ricordava.

― Okay ― rispose finalmente l’altro, lo sguardo fisso davanti a sé. Indossava un paio di pantaloncini scuri e una tshirt stropicciata; i segni del metallo freddo rigavano la sua faccia.

― Non ricordo nulla ― proseguì Newt tremante, voltandosi verso l’altro. Ora si tormentava il lembo della maglietta con le dita, nervoso. ― Ho paura.

Alby sospirò, alzando gli occhi al cielo.

― Non ci capisco niente ― disse solo.

Il tempo passò. Newt continuava a muoversi, dondolando avanti e indietro e giocherellando con qualunque cosa gli capitasse a tiro. Alby, invece, sembrava piuttosto tranquillo. Gli altri ragazzi a stento respiravano, si agitavano debolmente e biascicavano parole senza senso. Erano trascorsi quasi quindici minuti quando, sussurrando, Newt mormorò:

― Dove siamo?

Aveva il viso rivolto verso l’altro, gli occhi spalancati e il labbro inferiore che tremava in maniera preoccupante. Ma soprattutto, si accorse di avere la mano stretta in quella dell’altro. Si affrettò a tirarla via.

― Non ne ho idea ― disse Alby con tono solenne. ― Ma se siamo qui ci sarà un motivo.

― Lo so ― balbettò l’altro. Trattenne a stento un singhiozzo, strofinandosi le mani sugli occhi umidi.
― Comunque sono Newt!

― Lo so, me l’hai già detto.

― E tu?

― Io cosa?

― Come ti chiami?

― Mi chiamo Alby.

― Oh, d’accordo. Andiamo a vedere che c’è fuori?

 
Hear me when I say, when I say I believe

Nothing’s gonne change, nothing’s gonna change destiny

Whatever’s meant to be will work out perfectly.


 
  
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