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Autore: HannibalLecter    10/09/2014    1 recensioni
A lei piace lui e lei piace a lui.
A lui piace lei e lui piace a lei.
Perfetto no?
Peccato che entrambi si ostinino ad ignorare questa faccenda continuando tranquillamente il loro percorso che si snoda lungo due rette parallele destinate a non allontanarsi mai ma neanche ad incrociarsi mai, o forse no?
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Tornare nel mio ufficio non si rivelò il lieto evento prospettato da Alfredo e da Francesco.
Lavorare fianco a fianco con Alessandro mi procurava sensazioni contrastanti che riuscivo ad arginare solo allontanandomi da quella stanza soffocante. Non riuscivo a capire se in me prevalesse l'offesa di essere stata illusa oppure la curiosità di scoprire cosa lo avesse spinto ad allontanarsi dalle mie labbra.
«Cara GinGin apri al tuo prode cavaliere», gracchiò la voce di Francesco attraverso il citofono.
Sorridendo ciabattai fino alla porta di ingresso che si aprì ancor prima che allungassi una mano verso la maniglia.
«Eccomi qui», esclamò schiacciandomi un bacio sulla guancia.
Mi porse due cartoni della pizza ancora caldi e si sfilò il cappotto scuro e le scarpe.
Mi diressi con il mio prezioso bottino verso il divano, che avevo ricoperto con un telo, ben sapendo che solitamente questi pizza party si concludevano con qualcuno che macchiava la candida pelle color panna del mio sofà.
«Che onore poter mangiare qui», esclamò il mio amico spaparanzandosi sul divano.
«Già, puoi dirlo forte», asserii infagottandomi nella mia amata coperta di pile rosso, «come ricompensa mi basterà mangiare anche metà della pizza».
Francesco afferrò il suo cartone e lo aprì.
«Accontentati delle olive», mi rimbeccò lui divorando un pezzo di pizza fumante.
La teoria delle olive. Alessandro. Los Angeles.
Ho sempre odiato quando magicamente, senza che niente e nessuno gli chieda di farlo, il mio cervello prende l’iniziativa e avvalendosi del metodo delle libere associazioni mentali riporti alla ribalta spiacevoli episodi che avevo cercato in tutti i modi di rimuovere, nascondendoli in un cassetto e perdendone la chiave.
Francesco odiava da sempre le olive e io da sempre mangiavo le olive che lui tanto detestava e avanzava sempre nel piatto. Mi facevano pena, lì sole solette, e così finiva sempre che allungavo la mia forchetta e le infilzavo condannandole ad un destino forse peggiore della solitudine.
Mangiai la mia pizza in silenzio; non ero brava a mantenere un segreto e, non avendo ancora deciso se rivelargli del famoso bacio, preferivo tacere ed aspettare che fosse lui a fare la prima mossa.
Avrei dovuto prevedere che Francesco e il suo dannatissimo ed infallibile intuito sarebbero arrivati più presto del previsto alla conclusione che qualcosa non andava.
«Gin, non hai mangiato le olive che ho avanzato», osservò indicando il suo cartone ormai quasi vuoto, «e non mi hai raccontato nulla del tuo viaggio. Cosa succede?», mi domandò fissandomi preoccupato.
«Fra…tu credi alla teoria delle olive? Credi che se uno le odia e uno le ama, questi formino una coppia perfetta?», chiesi fissando la mia pizza ormai fredda.
Perché mi importava così tanto di quella stupida teoria? Perché dovevo sempre farmi fermare dalle mille paranoie che mi creavo da sola?
«Non lo so e sai benissimo che io, con la mia vita sentimentale inesistente, non sono la persona migliore a cui chiedere ciò», rispose stringendosi nelle spalle dispiaciuto.
«Ad Alessandro non piacciono, proprio come a te…», mormorai appoggiando il capo contro lo schienale del divano.
Francesco non fiatò e pazientò, conscio del fatto che mi serviva tempo e silenzio ma che presto mi sarei confidata con lui.
«Non so cosa pensare; tutto sembrava più bello là e io per un momento mi sono sentita nuovamente felice, felice come non mi sentivo da tanto tempo. C’erano le stelle, c’era il mare e poi c’era lui con questa maledetta storia delle olive e…», chiusi gli occhi ricordando il viso sofferente di Alessandro mentre raccontava di quel padre che lo considerava un fallito, di quel padre che aveva cercato in tutti i modi di ostacolare i suoi progetti, di quel padre che non si era mai comportato da padre.
Quasi inconsciamente decisi di custodire quel racconto doloroso e di non condividerlo con il mio amico, cullandomi nell’egoistica convinzione che fosse un segreto tra me e Alessandro, segreto che andava a rafforzare il pallido filo che già ci univa.
«Gli ho raccontato di Nicola…», ammisi infine.
Sentii Francesco trattenere il fiato sorpreso. Lui, più di tutti gli altri, sapeva quanta sofferenza, quante notti insonni e quanti singhiozzi erano legati a quel nome. Lui sapeva quanto odiassi ritornare con la mente al periodo buio che avevo attraversato lo scorso anno. Lui lo sapeva perché era stato lui a prendermi per mano e a farmi rivedere la luce.
«Cos’è successo poi?», chiese cauto.
Bella domanda. Cos’era accaduto? Nulla. Non era successo nulla e io dovevo smetterla di dare vita a mille idee che poi si agitavano per giorni nella mia testa minando la mia serenità da poco ritrovata.
«Ci siamo baciati, lui si è staccato blaterando che non poteva, che era sbagliato e bla bla bla, le solite scuse da due soldi che inventate voi uomini, e stop», conclusi categorica rialzando il viso e fissandolo in volto.
Francesco mi fissò dubbioso per un tempo interminabile prima di darmi un buffetto sulla guancia ed esclamare sorridendo: «Tanto lo scoprirò prima o poi».
Sbuffai e mi allungai ad abbracciarlo.
A volte mi sorprendevo quasi di fronte all’affetto sconfinato che provavo per lui.
«Noi saremmo una coppia perfetta insieme, indipendentemente dalle olive», mormorai contro il suo collo.
Lo sentii irrigidirsi per un momento dopo la mia affermazione e un attimo più tardi sciolse la stretta che mi tratteneva al suo petto.
«Lo so», sussurrò malinconicamente.
 
 
«Non possiamo regalarle un’iguana!»
«Un boa constrictor?»
«Siete pazze?»
«Chiara, che ne dici di un serpente a sonagli?», esclamai indicandole entusiasta lo schermo del piccolo notebook.
«Ottimo!», approvò saltando sul letto e battendo le mani.
Cecilia ci riservò uno sguardo allucinato: «Credo che Veronica apprezzerebbe molto di più una borsa in coccodrillo che un vero rettile!», affermò arricciando il naso di fronte all’immagine del serpente che la fissava dal desktop.
Io e Chiara ci fissammo allibite negli occhi prima di voltarci verso di lei e urlare: «EH?!»
Cecilia era iscritta a GreenPeace, WWF, Lipu e qualsiasi associazione dichiarasse di proteggere e salvaguardare gli animali. Teneva talmente tanto alla sua causa che, probabilmente, se le avessero chiesto di fare una donazione per proteggere le pulci lei l’avrebbe fatta.
Lei si strinse nelle spalle e ci guardò rassegnata: «A volte l’affetto che si prova per una persona è capace di farti trasgredire i principi e le scelte di vita fatte», ci spiegò passandosi nervosa le dita tra i capelli, «E poi diciamocela tutta: Vero impazzirebbe per una borsa o una cintura in vera pelle di coccodrillo».
Non potemmo contraddirla. Veronica lavorava nel campo della moda ed era una stilista alle prime armi. Il suo passatempo preferito consisteva nello scovare in internet offerte imperdibili in grandi store o outlet, raggiungere i posti individuati anche a costo di percorrere chilometri e chilometri di autostrada e fare incetta di ogni capo di abbigliamento presente. Poi, una volta giunta nel suo loft/laboratorio di idee/sartoria/boutique, si divertiva a tagliuzzare, decorare e incollare per fare in modo che semplici abiti insignificanti, prodotti in serie per i grandi magazzini, venissero trasformati in pezzi unici ed originali. E non si poteva negare il fatto che la ragazza avesse gusto.
«Oppure potremmo regalarle dei biglietti per assistere ad una sfilata; se non sbaglio tra poco ci sarà la Milano Fashion Week con la presentazione della nuova collezione autunno inverno», propose Chiara segnando su un foglietto le varie proposte.
«Ottima idea!», assentii convinta cercando su google come procurarsi i biglietti, «Apprezzerebbe moltissimo e potrebbe essere un’esperienza molto utile per lei».
Cecilia si allungò sul letto in modo da sbirciare la schermata del pc da sopra la mia spalla.
«E per quanto riguarda la festa?», chiese la nostra amica maestra, intenta ad abbuffarsi di biscotti al cioccolato.
«Ceci sicura di non essere incinta?», le chiesi scherzando. La sua fame da lupi mi sorprendeva perché solitamente mangiava come un uccellino, come testimoniava la sua figura esile.
Lei cessò all’istante di sgranocchiare il biscotto che aveva in bocca e mi guardò spaventata: «Potrebbe essere un sintomo della gravidanza?», chiese in apprensione.
Ridacchiai davanti alla sua espressione preoccupata: «Sei fidanzata con un medico, direi che potresti chiederlo a lui, no?».
Alberto era un ginecologo e, per quanto potesse risultare imbarazzante, aveva in cura tutto il magico quartetto. A Cecilia non importava ma all’inizio era stata dura convincere me, Veronica e Chiara a farci visitare dalla stessa persona con cui uscivamo in compagnia durante il weekend.
Cecilia si fissò le mani intrecciate tra loro e mormorò piano: «In verità ho un ritardo di due settimane ma non ho osato fare alcun test per accertarmi delle mie condizioni».
Improvvisamente non mi importava più della festa di Veronica. La fissai senza parole mentre Chiara per la sorpresa fece cadere il suo cellulare in terra. Il tonfo del telefono sul pavimento non interruppe quel momento di irreale quiete.
Cecilia forse aspettava un bambino. Forse aspettava un bambino. Aspettava un bambino. Un bambino. UN BAMBINO?!
«Ceci! Ma se fosse vero non sarebbe meraviglioso?», esclamò entusiasta Chiara.
La nascita di un piccolo bebè è sempre un lieto evento, no? Cecilia però non sembrava molto felice, anzi, il suo viso era tutt’altro che allegro.
«Qual è il problema Ceci?», le domandai premurosa.
Conoscevo le mie amiche da più di vent’anni e sapevo decifrare le loro espressioni ancora meglio delle loro parole. Cecilia amava così tanto i bambini da decidere di dedicare loro tutta la sua vita intraprendendo la missione dell’insegnamento. E la tristezza che si leggeva nei suoi occhi era assolutamente fuori posto. Cecilia era provvista di un innato senso materno, a volte quasi soffocante, e che spesso esercitava anche nei nostri confronti o in quelli di Alberto. E la notizia di una sua possibile gravidanza avrebbe dovuto renderla piena di gioia ed aspettativa all’idea di avere un piccolo frugoletto tutto suo di cui prendersi cura. Invece sembrava preoccupata e non faceva altro che accarezzarsi la pancia con lo sguardo fisso nel vuoto.
«Alberto se n’è andato», sussurrò con voce incolore.
Mi congelai sul posto e fissai smarrita Chiara. Noi tre avevamo avuto vite sentimentali caratterizzate da costanti alti e bassi, costellate di storie finite male e forse mai veramente iniziate. Cecilia e Alberto stavano insieme da dieci anni, da quando si conobbero sui banchi di scuola, lei appena quindicenne e lui ventenne. Loro avevano rappresentato un punto di riferimento della mia vita, erano la testimonianza che forse il vero amore esisteva davvero, nascosto da qualche parte nel mondo.
Invece anche il loro amore non era bastato.
«Quando è successo?», chiese in un sussurro Chiara.
Quasi non la sentii tanto la notizia mi aveva colta impreparata.
Non riuscivo a non pensare a quanto, in fondo, tutto ciò che incontriamo lungo il cammino della vita sia fugace e precario. Tutto passa. Passa il tempo e passano anche le persone che hanno significato tanto per noi. Tutto è temporaneo, appeso ad un sottile filo che prima o poi sarà destinato a spezzarsi.
Mi avvicinai a Cecilia, che mai prima d’ora mi era parsa così vulnerabile, e la strinsi tra le mie braccia.
Il suo dolore doveva essere dieci volte più forte e tenace di quello che avevo provato io dopo la fine della mia storia con Nicola, durata solamente due anni.
«Una settimana fa. Ha detto che era stanco di essere trattato come se fosse uno dei miei alunni. Mi ha baciata e, dopo avermi detto che così non poteva funzionare, se n’è andato», mormorò piano Cecilia guardando dritto davanti a sé e stringendo spasmodicamente tra le dita le lenzuola color lilla del letto di Chiara.
Le sollevai il viso e le asciugai le lacrime silenziose che erano scivolate lungo le sue guance: «Cecilia tu, dopo la rottura con Nicola, mi hai ripetuto per settimane che dietro le nuvole c’è sempre il sole. Quindi ora noi facciamo un test per scoprire se presto avremo un nipotino e poi vedremo come aggiustare le cose con Alberto, ok?», le domandai facendole un sorriso.
Non potevamo e non dovevamo dimostrarci deboli; in quel momento Cecilia aveva bisogno di affetto e premure e noi, mostrandoci forti, potevamo aiutarla a rialzare il capo e ad affrontare la situazione.
Lei annuì debolmente mentre io mi alzavo dal letto e mi dirigevo verso l’ingresso, dove avevo lasciato le scarpe e il cappotto. Chiara mi raggiunse rapida.
«Cerco una farmacia aperta. Tu nel frattempo preparale una tisana. Durante il tragitto proverò a contattare Alberto», elencai velocemente mentre afferravo le chiavi dell’auto.
Trovare una farmacia aperta a quell’ora di notte non fu semplice e ancor più difficile fu tentare di mettersi in contatto con Alberto. Lo chiamai tre volte ma non rispose mai, allora, gli mandai un messaggio pregandolo di richiamarmi il prima possibile.
Una volta giunta nuovamente all’appartamento di Chiara, parcheggiai e salii frettolosamente le scale.
«Come sta?», chiesi mentre mi sfilavo il cappotto e lo appendevo all’appendiabiti.
«Sembra calma ma non parla molto», mi rispose lei indicandomi Cecilia, seduta con aria assente sul bordo della vasca.
La raggiunsi in bagno e dopo averle letto le istruzioni sulla confezione la lasciai sola, assecondando la sua richiesta.
Io e Chiara ci sedemmo sul letto in attesa, con gli occhi fissi sulla porta chiusa del bagno.
Non volevo saltare subito a conclusioni drastiche ma la situazione non prometteva nulla di buono.
Cecilia forse era incinta e non aveva un uomo accanto, dato che Alberto aveva scelto il momento meno opportuno per lasciarla.
Uno spiraglio di luce uscì dal bagno e la sottile figura di Cecilia fece capolino dalla soglia.
Teneva gli occhi puntati a terra e si torturava le mani.
Fu un sussurro quasi impercettibile: «Aspetto un bambino».
 
 
 


SURPRISE!
Presto nel cast di Rette Parallele ci sarà una new entry: un piccolo bebè strillante! Questo capitolo è molto molto deprimente e ne sono perfettamente consapevole quindi farò in modo che il prossimo sia più leggero e vivace senza cuori infranti o madri abbandonate. Forse è un po’ corto ma ho avuto poco tempo e mi sono detta che forse, piuttosto che farvi aspettare ulteriormente, era meglio pubblicare questo capitolo sebbene ridotto. Voi cosa preferite? Capitoli lunghi e sostanziosi postati in tempi più lunghi o aggiornamenti rapidi e capitoli meno corposi? Fatemi sapere :)
Sto portando avanti parallelamente due storie e mi sono promessa di scrivere un capitolo di questa ff e uno dell’altra (New Girl per chi fosse interessato :)), in modo da alternarli e da aggiornare rapidamente entrambe.
Niente, che dire ancora? Al prossimo capitolo!
Recensioni sempre moooolto gradite.
Baci,
S.
  
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