V Capitolo.
L’avvolsi fra le mie braccia.
Il profumo
impalpabile, così lontano, diverso fra tutti.
I capelli neri che
coprivano la visuale.
Le lacrime che
rigavano il volto.
Parole pesanti che mi
corrodevano dentro.
E la consapevolezza di
avere qualcuno accanto che mi amava.
Era tutto questo lei.
L’angelo che mi
afferrava quando inciampavo e che mi donava
le sue ali invisibile quando ne avevo
bisogno.
.
-Sono a casa!.- urlai, lanciando nel mobiletto le chiavi del portone. Mi
tolsi le scarpe lentamente e rimasi con le calzette.
Durante il tragitto avevo
pensato, come ormai mi capitava da troppo tempo, a quello che il fato mi aveva
concesso.
Avevo una vita perfetta,
avevo una famiglia unita e il ragazzo che amavo. Come diceva Angelica –che continuava
a violare la mia privacy leggendo i miei pensieri- non avevo nessun motivo per
lamentarmi.
Non dovevo, non era lecito.
Suppongo che doveva essere
una clausola del patto invisibile che mi legava a quella nuova vita.
Eppure mi sentivo
incompleta, perché era la mia vita ad essere cambiata non io.
Percepivo le
stesse sensazione che provavo prima.
Mi passai una mano fra i
capelli e mi diressi verso la cucina. Dove mamma, papà e Jesse mi aspettavano
per pranzare.
-Perché non sei tornata a
casa con me e Cris?- domandò Jesse a bocca piena.
-Sei disgustoso, non parlare
mentre mangi.- risposi rivoltata, rigirandomi la domanda. Non aveva voglia di
rispondere e soprattutto non volevo fare la domanda a me.
Non sapevo la risposta.
-Ma sta…-
-Jesse, smettila. Tua
sorella ha ragione.- ci interruppe mia mamma, solare,
era da molto che non la vedevo così.
-Scusaci.- sussurrammo in
coro io e mio fratello.
Mio padre sorrise divertito
e mi fece segno di sedermi accanto a lui, sorrisi a mia volta e mi sedetti.
-Allora racconta com’è
andata oggi?- mi domandò mio padre e io gli raccontai
tutto- sorvolando su alcuni punti, naturalmente- .
Assaggiai la minestra calda
e mi bruciai la lingua, sentivo il dolore diffondersi nelle papille gustative.
Afferrai velocemente il bicchiere d’acqua che avevo riempito precedentemente
e bevetti l’acqua.
Jesse rise e io lo fulminai con gli occhi.
-Era calda, vero?- mi disse
papà trattenendo a fatica le risate.
Io annuì incavolata. Tipico
di papà e Jesse, ridevano delle mie disgrazie.
Dopo che guardai male sia
mio padre che mio fratello scoppiai a ridere. Eravamo
uniti, e questo bastava ad eclissare tutti i miei
problemi.
-Angelica a cosa pensi?- Di
solito non ero da me fare quelle domande, era lei che
cercava di psicoanalizzarmi.
Eravamo entrambe sdraiate
nel mio letto, indossavo una maglietta a mezze maniche attillata rosa che di
solito usavo per casa e dei pantaloncini che mi arrivavano un po’ più sopra del
ginocchio.
L’estate stava arrivando
portandosi con se il freddo e dando il benvenuto al
caldo.
-A niente, sul serio.- mi
rispose, rigirandosi nel letto.
-A me non sembra.-
insistetti, in fondo non era giusto che lei sapesse tutto di me e io così poco di lei.
-Lascia
perdere.-
-per favore.- la pregai,
stranamente ero davvero curiosa di sapere quello che la preoccupava.
-Bhè oggi se fossi ancora
viva avrei compito ottantasei anni.- mi disse,
guardandomi negli occhi.
Sussultai, e mi alzai un
po’, sostenendo il mio corpo con gli avambracci.
-Mi racconti come è successo?- domandai sotto voce, avevo paura di averla
turbata. Di solito è difficile parlare della morte di un caro figuriamoci della propria morte.
-Sono morta
durante la seconda guerra mondiale, in quel periodo avevo vent’anni ed ero
un’ebrea. Penso che questo spieghi tutto, la mia famiglia fu portata al campo
di concentramento di Auschwitz, se non ricordo male
sono morta 2 giorni dopo mia madre, in una camera a gas.- parlava con un tono
neutrale, come qualcuno che sta indicando la via a un turista. Era il mio
stesso tono con cui parlavo della morte degli altri, ma io a differenza di lei
facevo così perché non era una cosa che mi apparteneva, non faceva parte della
mia storia.
Quando morì mia nonna mi
dispiacque molto davvero, ma non piansi, non ero legata a lei, non me la ricordavo
nemmeno.
Ma lei a differenza di me, aveva vissuto tutto quello,
nella sua pelle. Le immagine erano impresse nella sua
mente.
-Mio fratello aveva sei
anni, lui si salvò, adesso è papà e nonno. Sai una sua figlia
si chiama come me. Angelica.- continuava a racconta, bella e eterna fissava la persiana
delle finestre. Non volevo interromperla ma la mie
sete di curiosità era troppa.
-Sei triste vero?Intendo
dire non volevi…-
-Morire?- rise di gusto.
-Perché esiste qualcuno che
lo vuole? Non volevo, ma era il mio destino. Se fossi nata ora, per esempio
sarei stata libera di vivere, ma è stato così. Non siamo noi che decidiamo e
nessuno mi aveva dato l’opportunità di avere una vita perfetta.-
Ecco, era questo
quello che cercava di dirmi sta mattina a scuola, io mi lamentavo quando
invece lei era stata strappata alla sua vita così violentemente.
-Scusami…-
-Ma non pensare che io
adesso non sia felice.- mi interruppe, forse nemmeno
ascoltò le mie scuse.
-Essere
tristi, insoddisfatti non fa parte
della mia natura, io la mia vita l’ho conclusa, adesso tu devi solo occuparti
della tua. Fai le tue scelte tesoro, falle. Perché io
ho visto molte persone arrendersi e non voglio che tu lo faccia. Ti conosco
benissimo e so che vorresti mollare tutti e tutto. Non fermarti mai
all’apparenza.-
Annuì, incapace di dire
altro.
Lentamente mi mossi con le
ginocchia vicino a lei, avvolgendola in un abbraccio. Sentivo il suo profumo
dall’odore indefinibile, le sue braccia tendersi verso i miei fianchi, il sapore
salato delle mie lacrime che copiose scendevano verso le labbra.
Quando ero nervosa, piangevo
sempre. Era una mia caratteristica e lei lo sapeva, mi conosceva. Così come io inconsciamente conoscevo il mio angelo custode.
Adesso mi sentivo al sicuro,
sapevo che anche in questa vita avevo un’amica.
-Svegliati dormigliona.- La
voce di Angelica mi fece mugugnare di frustrazione.
Avevo ancora sonno.
Quella notte mi ero
addormentata tranquillamente, stranamente con il sorriso fra le labbra.
Ero consapevole che fra
pochi minuti avrei rivisto Christian ma non m’importava. Quella strana
sensazione che provavo quando lui era con me doveva scomparire. E anche in
fretta.
Non dovevo complicarmi la
vita, non questa.
-Devo buttarti giù dal
letto?- l’ennesimo commento di Angelica mi diede la spinta
per svegliarmi.
-Ok, ok,
mi sveglio. Stai calma.-
Quando mi alzai le sorrisi.
-E ora vestiti, sei in
ritardo per la scuola.-
Annuì e cercai di togliermi
il di sopra del pigiama, rimasi per un secondo incastrata
ma poco dopo riuscì a far scivolare via l’indumento.
Rimasi in reggiseno.
Concentrata com’ero non mi ero accorta che qualcuno aveva aperto la porta,
alzai gli occhi e quando vidi chi era urlai.
-Merda. Cosa ci fai tu qui?-
Davanti a me c’era l’ultima
persona che avrei voluto vedere: Christian.
Dal diario di un angelo.
Scendi nel giardino, ogni
tuo passo è calibrato, ogni giorno che passa sei sempre più lenta
e non te ne accorgi.
Perdi le forze e fai finta
di non saperlo.
Ti vedo mentre raccogli una
rosa bianca dalla tua aiola privata, ogni volta hai paura di pungerti. Non
sopporti la vista del sangue.
Come sempre conti i minuti
che ti separano da lui, continui a fissare la rosa mentre ascolti attentamente
il rumore del cancello arrugginito della villa accanto a te che si apre.
Sai chi sta per uscire, lo sai sempre, conosci il modo in cui lui apre la porta. Ha un
modo tutto suo. Pensi che sicuramente Layla non conosce
questo dettaglio, e allora ti arrabbi, e ti chiedi perché lei può avere lui mentre
tu puoi solo bearti del rumore di una grata che si apre.
Una spina si conficca nella
tua pelle, liscia, trasparente e che
senza il tuo permesso diventa sbiadita e opaca.
Vedi un rivolo di sangue che
risalta come una goccia di rugiada e senti la testa girarti, la tua vista si
appena di pallini neri e oscilli un po’.
Stringi involontariamente la
rosa selvatica nella mano, mentre altro sangue scende dalle tue mani.
Sono questi i momenti in cui
ti odi profondamente, quando riesci a pensare a quello che stai facendo, quando
capisci la portata delle tue azioni.
Lo sai che quando hai i
capogiri non è colpa del sangue che scorre, lo sai, ma chiudi gli occhi e
sorridi.
James suona il campanello, è
arrivato, nascondi la mano pulsante nella tasca dei pantaloni, non sopporti il
contatto della pelle ruvida e sporca con il tessuto dei jeans ma non fiati e
raggiungi timidamente il ragazzo che ti sta aspettando.
Quando lo vedi, il tuo cuore
inizia a battere forte, avvolte pensi che il tuo corpo
non riesca a reggere tutto il peso di quell’amore.
-Ciao Jamie, stai andando
agli allenamenti?- domandi, anche se sai a conoscenza della risposta.
E’ martedì e lui va sempre a
scuola di sera per giocare a basket.
-Si, sono passato per
salutarti. E’ anche questo il bello di essere vicini di casa.-
Sorridi, il tuo dolce Jamie,
solo lui riesce a farti dimenticare solo per un attimo dell’essere orribile che
sei.
Quell’ammasso di forme che è
il tuo corpo.
-Quando pensi di ritornare a
casa?-
-Sta sera, avevo pensato ti
va di andare in pizzeria? Invito anche a Layla e gli
altri.-
Sorridi ma già sai che dirai
no.
-Non posso, magari un’altra
volta, ok?-
Lui annuisce e ti guarda e
abbassi gli occhi, odi quando lui ti fissa. Lo odi perché è di lui che temi un
giudizio.
-Ok, ma stai diventando
scheletrica. Ma mangi a casa?-
Ti blocchi un attimo. Per un
attimo non sai che dire, ma poi alzi lo sguardo e sorridi.
-Certo che mangio, Oggi ho mangiato anche un elefante.- ridi, nascondendo i sensi di
colpa.
-Allora devo stare attento?
Pensi che potresti mangiare anche me?-
-Ah non lo so, ma se rimani qui è anche possibile. Dai è tardi, vai a scuola.-
Lui guarda l’orologio. Fa
una faccia strana, si sarà accorto che se non si muove il mister gli farà una
bella ramanzina.
Mi scocca un bacio nella
guancia, vorresti che quelle labbra rimanessero per sempre li, solo per sentire
quell’accenno di barba che ti pizzica la pelle.
Si volta, rimani lì. Senti
la ghiaia sotto i suoi piedi che si muove insieme alla sua corsa sfrenata.
La sua figura scompare
lentamente, diventa sempre più piccola fin quando non riesci più a vederlo.
Chiudi la porta e torni alla
tua aiuola.
Ti accasci per terra,
consapevole di star sporcando i jeans nuovi. Ma non
hai le forze sufficienti per raggiungere la poltrona di casa.
Lo stomaco brontola, hai
fame, insinui le mani, sia quella sporca di sangue che
l’altra nel terriccio. Le unghie ti fanno male e ti deconcentrano dalla fame
che ti assale.
Appena riuscirai a
riprendere le forze andrai a bere l’acqua.
Continui a fissare le tue
mani mentre io scuoto la testa.
Cosa stai combinando, Clizia?
SPAZIO AUTRICE.
Eccomi scusate l’attesa, ma
ho dovuto riprendere il mio ritmo. Con l’inizio della scuola, danza e altre
rotture varie non ho proprio avuto tempo di scrivere.
Per fortuna che esiste
questa benedetta domenica.
Ringrazio ancora tutti
quelli che hanno recensito(scusate se non vi
ringrazio, ma devo scappare) e le 16 persone che hanno “Falling Star” nei
preferiti.
Grazie davvero.
Ps: Oddio… non si capisce
davvero la parte del diario di Clizia, per me ha senso, perché in fondo io so
la trama e quindi la cosa è diversa.
Se volete
posso toglierla, ma essendo che è un personaggio abbastanza particolare non
riuscivo a dargli il suo giusto spazio dal punto di vista di Layla. Ma se non
vi piace ditelo subito!
Un bacio a tutti.
Ilenia.