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Autore: Roxar    11/09/2014    2 recensioni
Tornare a casa è un processo lungo e lento, ma costante.
Perchè esistono molti modi di tornare a casa e Makoto e Haruka lo sanno – lo hanno imparato sulla propria pelle.
[SPOILER 2X11]
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Haruka Nanase, Makoto Tachibana
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Warnings: Hurt/Comfort, Angst, Spoiler

Crew&Ship: Makoto Tachibana, Haruka Nanase | MakoHaru

Note: consideratela un lenitivo al dolore doloroso che è stata l'ultima puntata. La KyoAni mi riempie di angst? Bon, io rispondo così (battaglia persa e svolgimento improbabile, ma facciamo finta che vada bene comunque).

 

 

 

___

 

 

 

Tornare a casa è logorante.

Logorante, con le lacrime che inciampano tra le scarpe; con i passi che non conoscono più la strada; con i capelli che sobbalzano sulla fronte, assecondando un ritmo più viscerale e impalpabile; con le mani che tremano, accompagnate dalla monotona colonna sonora delle chiavi che tintinnano.

Logorante, con la testa bassa e gli occhi ciechi; con il piede che inciampa nello scalino e l'equilibrio che vacilla mentre la sua mano si tende alla cieca e strofina contro il muro, portandosi via una patina del suo colore.

Logorante, con la memoria rotta, fratturata, scomposta in migliaia di fotogrammi senza casa. Immagini vagabonde, orfane di un filo rosso, vedove di una coerenza. E suoni disarticolati, che fischiano nelle orecchie, che somigliano all'agonia dell'apnea - è l'agonia dell'apnea, questa stanza senza aria.

Questo momento senza Haru.

Che poi, a ben pensarci, non sono forse stati sempre la stessa cosa?

Tornare a casa è insensato.

Insensato, come il suo corpo rattrappito sotto una coperta azzurra; come i suoi vestiti sul pavimento, che si è strappato di dosso quando avrebbe voluto strappare ogni altra cosa, anche e soprattutto quel nodo che gli schiaccia la gola, le cui code serpeggiano in petto, avvoltolandosi per acquisire una consistenza sgradita e sgradevole, come il sapore amaro di un cibo disgustoso.

Insensato, come quello che gli ha detto chi, più di chiunque altro avrebbe dovuto capire, offrendogli parole usate, di seconda mano.

Offrendogli parole nuove di zecca, che gli sono rimaste appiccicate addosso e ancora lo punzecchiano, picchiandogli da qualche parte vicino allo stomaco - nauseanti.

Chi era quella persona? Chi era quel ragazzo la cui mano, per un attimo, ha sfiorato appena la sua, trattenendolo per sempre, lasciandolo per sempre? E dov'è finito quel bambino che ogni mattina lo aspettava seduto all'angolo della scala, discreto e piccolissimo, come se non volesse recare disturbo al mondo?

Che cosa sono diventati, lui e Makoto?

Tornare a casa è insopportabile.

Insopportabile è il campanello che trilla e gli perfora i timpani, stringendo il cerchio d’acciaio alla testa e quel nodo che, dopo una notte lunga e travagliata, è ancora allacciato intorno alla gola, come un boccone storto che lì si è piantato e non ha intenzione di scendere.

Insopportabile è scansare la coperta azzurra e vacillare sulle ginocchia molli, sulle articolazioni anchilosate dall’immobilità prolungata, imposta, salvifica quando ogni cosa tremava e sentiva di non avere appigli, quando la nausea rotolava su e giù, dallo stomaco vuoto alla gola, e non c’era niente di cui liberarsi – c’era tutto di cui liberarsi.

Insopportabili sono il pugno di passi stanchi necessari a raggiungere la porta, spalancarla e lasciarsi sorprendere per un attimo dall’espressione vagamente annoiata di Rin.

Insopportabile è la curva del suo sorriso che per un secondo è riuscita a stendere un velo bianco sugli accadimenti della sera prima e che immediatamente si stralcia, si sfalda e distrugge l’illusione.

Insopportabile è la sfrontatezza nella sua voce che, senza chiedere, gli dice di sbrigarsi, che devono andare, adesso.

“Andare dove?”

Insopportabile è l’irritante ovvietà che emana da lui.

“Ma in Australia, naturalmente.”

Insopportabile è la corsa all’aeroporto, l’aereo che si stacca dal suolo per scaraventarsi nello spazio sterminato del cielo, delimitato da frontiere labili e invisibili, che basta varcarle per ritrovarsi all’ultimo confine del mondo.

Insopportabile è sapere che sarà tutto inutile, che un sogno non si può trovare come un oggetto smarrito o un vestito perfetto per un’occasione importante. Che Makoto---

Insopportabile è l’oceano che si schiude davanti a loro, insopportabile è il suo azzurro terso che lo abbaglia e, per la prima volta dopo molto tempo, smuove qualcosa, smuove quel boccone incastrato che cambia angolazione e sembra sul punto di precipitare, liberare la gola.

Insopportabile è Rin che gli getta addosso un asciugamano e gli dice, “Nuota”.

Posso farlo?

Tornare a casa è penoso.

Non riuscire a svoltare l’angolo; limitarsi a scrutare la punta del tetto da lontano, come se fosse molto più distante di così; stringere i denti fino a sentirli compressi, fino a sentire la mascella far male, fino a sentire la pressione strisciare fin nel cervello e diventare un piccolissimo motivo di distrazione – ci sono così tante cose.

Sapere che la porta sarà chiusa a chiave; che la vasca è asciutta e il porta panni vuoto; che Haru è da qualche parte a est, che ha messo ulteriore distanza tra loro, riempiendola di tutte quelle stronzate che si sono urlati addosso e che sono rimaste irrisolte, orfane di una spiegazione, di una scusa d’obbligo.

Sentire il cellulare contro la gamba e ritrovarsi a concentrare tutta l’attenzione tattile su quell’unica porzione di pelle, aspettando la vibrazione di una chiamata, o di un messaggio; rileggere nella testa l’ultimo sms di Rin, che ha risposto alla sua richiesta d’aiuto, che gli ha solo detto, “Lasciami fare”; ricordare di aver chiuso gli occhi, indirizzando una muta preghiera a chiunque potesse ascoltarla – non c’è mai egoismo, nelle sue suppliche, perché Makoto non prega mai per se stesso.

È penoso questo e tutto quello che resta. E tornare a casa è come girare alla cieca, perché la sua bussola deve essersi rotta e punta solo ad est.

Tornare a casa richiede sforzi fino ad ora impensabili.

Quelli dei suoi muscoli, che si scrollano la ruggine di dosso e, bracciata a bracciata, ritrovano il loro passo, le loro perfette contrazioni, i loro tempi.

Quelli delle sue braccia e delle sue gambe, che scavano, graffiano, fendono – è una guerra che non vuole perdere, è un proiettile che deve trovare il coraggio di esplodere.

Quelli della sua mente, costretta a vuotarsi, a liberarsi di chi ha lasciato indietro – ma solo per poterlo ritrovare.

Tornare a casa richiede sforzi fino ad ora impensabili, ma Haru pensa che, per la prima volta nella vita, ne valga la pena.

Tornare a casa è un processo lungo e lento, ma costante.

Makoto sa che c’è una scadenza, sa che manca poco al ritorno di Haru.

Vive in funzione di quell’attimo e, per la prima volta, di se stesso. Delle scelte che ha preso, di quelle che sente giuste e di quelle che, invece, sente deboli, cedevoli al peso del dubbio. Rimugina, cammina molto. Si siede sulla spiaggia e si lascia vezzeggiare dallo scialacquio dell’oceano, che è balsamo sui suoi nervi stanchi e tirati. Progetta discorsi di scuse; cerca di ignorare quella parte di sé, piccola e oscura, che lo punzecchia, che gli domanda candidamente di cosa debba scusarsi, che gli ricorda sfacciatamente che non è stato lui a spintonare Haru, che non è stato lui a urlargli in faccia quelle parole che ancora bruciano, da qualche parte, braci di un focolare mai sopito.

Scuote la testa, perché le colpe stanno sempre nel mezzo.

Con la sabbia che gli sporca i pantaloni, Makoto aspetta di poter tornare a casa.

Tornare a casa è catartico.

Riconoscere e accettare; farsi riconoscere e farsi accettare. Stabilire un reciproco contatto.

Ritrovare l’armonia che si è perduta, infilandosi negli spiragli stretti tra una paura e l’altra.

Le medaglie, i trofei, la gloria, l’euforia di chi esalta un talento eccezionale: niente di tutto questo gli appartiene. Non è questo il suo sogno.

L’acqua, ogni singola molecola che si intreccia alle sue, la libertà: questo è il suo sogno. Nuotare per l’acqua, nuotare per nuotare.

È sempre stato questo, è sempre stato tutto qui. Makoto aveva ragione: il suo sogno aspettava solo di essere trovato. Riesumato dalla tomba di aspettative in cui era stato sepolto. Farlo risorgere, potente e glorioso e libero.

Tornare a casa è catartico, ma resta un ultimo legaccio che Haru deve tagliare via.

Tornare a casa è definitivo.

L’aria di Iwatobi sulla pelle; la brezza pregna di salsedine e umidità; il profumo di biscotti e lavanda che filtra da sotto la porta di Makoto e lo accoglie come un cucciolo che gli inciampa tra le gambe, scodinzolando, pieno di nostalgia.

Casa.

Ayumi Tachibana gli indirizza un sorriso pieno di sollievo e sospira lentamente, come se adesso fosse finalmente in pace. Senza dire niente, si scosta e gli libera il passaggio, gli apre la strada fino alla sua casa.

La porta è aperta e Makoto è seduto sul letto, a gambe incrociate, una brochure tra le mani e molte altre sparpagliate intorno a lui. I suoi occhi la sondano con attenzione, concentrati e alienati; le dita, di quando in quando, si contraggono e stringono il bordo del libriccino, come in preda ad una forte paura, salvo poi rilassarsi, accompagnate da un sospiro lievissimo.

“Makoto.”

Le sue spalle sobbalzano e i letto cigola; la brochure cade a faccia in giù e si mescola alle altre. L’incredulità è scolpita tra un lineamento e l’altro e pulsa negli occhi sgranati in un eterno stupore.

Lo sguardo che corre tra loro è qualcosa di totalmente, definitivamente nuovo; è pieno di cose che non hanno bisogno di voce, è pieno di scoperte nuove, è pieno di scuse.

Haru, per la prima volta nella sua vita, gli sta domandando perdono e le sue palpebre sfarfallano troppo spesso, tradendo il ritmo frenetico di un cuore che pulsa di impazienza e desiderio.

Desiderio di essere perdonato, salvato. Liberato.

Ma Makoto non ha alcun sorriso per lui, stavolta. La sua bocca, superato il muro di stupore, è tesa in una linea rigida, accompagnata alle spalle contratte. Per la prima volta, Haru non riesce a leggere cosa c’è sul suo viso; è un foglio bianco, vergato con inchiostro simpatico e non c’è alcuna luce ad illuminare i caratteri nascosti.

Perdonami, Makoto.

Liberami, Makoto.

Ma Makoto non si muove. E non parla. E non lo guarda più.

E Haru sente il nodo riavvolgersi intorno alle gola, le lunghe coda avviluppate intorno allo stomaco, che serrano e strangolano e il ogni battito del suo cuore ha solo un nome ripetuto all’infinito, come se avesse un senso ben preciso.

“Makoto,” ripete e la sente, la sente la propria voce che trema, che vacilla sull’ultima sillaba. Da qualche parte, la tempesta sta rombando. I fulmini si stanno schiantando e si fanno sempre più vicini.

“Haru,” lo chiama dopo quelle che gli sono sembrate tre vite di immobilità e silenzio e sentire la sua voce dopo una settimana intera è proprio come varcare la soglia di casa, sentire il profumo di casa, essere a casa.

All’improvviso, le brochure stanno volteggiando nell’aria, sferzate via dal gesto brusco di Makoto, che balza in piedi, che quasi inciampa e cade. Che lo chiude nell’anello stretto delle sue braccia e infossa una mano tra i suoi capelli, premendogli la faccia contro la sua spalla – contro la maglietta che odora di Makoto e questa deve per forza essere casa.

Si permette di sorridere contro la stoffa morbida, di sollevare le braccia e chiuderle sulla sua schiena, mentre il silenzio cola su ogni ferita e lava via il sangue e unisce i lembi di pelle infetta e non resta che una cicatrice lunga e pallida che servirà loro per tornare a casa.

   
 
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