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Autore: Arepo Pantagrifus    11/09/2014    0 recensioni
"Così la vista dei loro occhi è stata adattata a questa luce, e la luce del cielo è oscurità per loro. Quindi non vedono più nulla quando escono dai loro antri. [...] Vi sono anche dei deserti dove tutto è sterile e sabbioso; anche qui vi sono caverne nelle rocce e capanne."
E. Swedenborg, De coelo et inferno, 584-586, 1758
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi svegliai nuovamente, dopo essermi accidentalmente addormentato, forse per la stanchezza o forse per la noia di aspettare. Stavolta mi sentivo decisamente più fresco e, in qualche maniera, ristorato. Mi alzai subito, al primo tentativo, senza che niente mi dolesse o che mi recasse fastidio.

Mi alzai, dunque, facendo la massima attenzione, e tastando, saggiando l’aria con le mani tutto intorno a me, come un cieco o un bambino ai primi passi, arrancai non conoscendo affatto le dimensione della stanza, e se c’erano altri oggetti. Quando raggiunsi la posizione eretta, non avendo incontrato alcun ostacolo sopra e intorno a me cominciai, o almeno ci provai, a dare un’occhiata in giro. Quello che vidi la prima volta che aprii gli occhi in questo posto non cambiava di molto da quello che vedevo, ora, vicino a me. Ero letteralmente circondato dalle tenebre più fitte e nere. Alzai il braccio per guardarmi la mano, ma riconobbi che anche io appartenevo totalmente allo stesso buio che mi accerchiava.

Rabbrividii all’impressione che ebbi quando alzai il mio braccio destro (ero convinto di averlo alzato), eppure tutto è in dubbio in assenza dei sensi, anche le più banali azioni diventano inquietantemente sospette. Avanzai l’ipotesi che fosse notte, e che quindi il buio nella stanza fosse difeso anche dall’esterno. Ma scoprii in seguito che per quanto si aspettasse, malgrado l’impossibilità di determinare un tempo o un qualsiasi intervallo di riferimento, non si riusciva mai a distinguere alcuna variazione di luce, o di oscurità. «Forse sono veramente nascosto in un posto remotissimo, e profondissimo…» pensai, ma scartai momentaneamente l’ipotesi convenendo che l’aria che si respirava era totalmente asciutta e priva di umidità. Mi accorsi poi del profondissimo silenzio che regnava in quel luogo. Tesi le orecchie in cerca di indizi sonori, ma nulla, assolutamente nulla si riusciva a percepire oltre a quel silenzio sepolcrale e il mio respiro. Quanto più scoprivo su quel posto, tanto più la mia preoccupazione, i miei timori e le mie paure aumentavano. Dall’oscurità più fitta cominciavano ad affacciarsi spettri di ipotesi crudeli e malefiche che torturavano la mia mente. Senza perdere il poco autocontrollo che mi rimaneva e raccogliendo tutto il coraggio che avevo in corpo feci qualche passo, con le braccia distese per scongiurare eventuali ostacoli, e strascicando i piedi per sicurezza. Il suolo, potei notare, era regolare, ovvero sembrava quello di un pavimento liscio, perfettamente livellato. Andai avanti così per molto, convinto che ben presto avrei incontrato un muro, una parete, o una qualsiasi barriera che chiudesse la stanza, e per questo ero sempre pronto all’imminente impatto. Impatto che non avvenne. Stremato dall’attesa senza fine, continuavo ad andare avanti a vuoto, nel vuoto che mi circondava. Infine decisi di fermarmi, dopo aver avanzato per chissà quanto tempo. Mi buttai a terra e guardai in alto (il cielo o il soffitto, quello che era), cercando un perché a tutto quanto. Attendendo la risposta mi addormentai.

Fu la prima volta che sognai di forme confuse, colori, luci e suoni di felicità, gioia e contentezza. Non ricordo quale fosse il soggetto del sogno, ma i sentimenti che provai al risveglio, in forte contrasto con quelli appena sognati, furono di una profonda depressione e tristezza. Con questo peso nell’anima (che me lo tenni per tutta la giornata, o nottata… ancora non so) mi alzai, e mi riaccucciai per esaminare la natura del pavimento. Tastando con le mani individuai dei solchi, che procedevano dritti, incrociandosi parallelamente con altri a circa un metro di distanza ciascuno. Potevano essere mattonelle, pavimentazioni artificiali, progettate, costruite, e quindi certa opera umana. Mi trovavo in un sotterraneo, un grande magazzino sotterraneo, le cui dimensioni dovevo ancora scoprire, ma ero certo che non appena avrei trovato una parete, seguendola sarei risalito alla porta, che usarono chi mi ha portato dentro, e che mi farà uscire. Rinfrancato e rincuorato mi misi subito alla ricerca. «In fondo… Non può essere tanto lontano, ormai. Forse non ho fatto altro che girare in tondo…» Scelsi una direzione e prestai la massima attenzione ad andare sempre dritto, le braccia tese, i piedi sempre paralleli, così, avanti verso l’ignoto. Finalmente una luce di speranza si accese nel mio cuore per scaldare ed illuminare quel luogo triste e agghiacciante. Fiducioso camminai a lungo, guardandomi intorno ormai con superiorità l’oscurità, non era poi così cattiva, ora che stavo per abbandonarla. Era solo un fenomeno, un semplice evento, un caso, una fatalità che sia buio… Ma presto avrei trovato l’uscita!

Camminai a lungo, a tempo soggettivo mi sembrò qualche ora, ma continuai, pronto, sicuro che entro poco avrei toccato la parete. Camminai diverse ore e mi convinsi di essere sempre più vicino. Se era un grande magazzino sotterraneo le sue pareti non erano affatto lontane. Camminai ancora finché la stanchezza a entrambe le gambe non mi costrinse a fermarmi. Ero sicuro di farcela, non potevo aspettare ancora. Non appena avrei riposato, sarei stato di nuovo pronto. «In fondo, pensai, potrebbe essere proprio qui accanto a me e non vederlo». Di nuovo ricominciai a camminare, ma stavolta liberamente, cambiando direzione quando mi sembrava di essere più vicino. Giravo, cambiavo, correvo, tastavo, ora freneticamente, ora più cautamente, ma ancora non riuscivo a trovarlo. Dovevo esserci quasi, dovevo per forza! Camminai altre ore sempre più senza meta, avevo perso la strada. Non sapevo più se stavo andando nella stessa direzione di prima, o se magari mi stessi allontanando dal muro (forse vicino). Non dovevo pensarci, altrimenti solo il pensiero  di allontanarmi dalla libertà mi soffocava. Sempre più indeciso, camminai, camminai e camminai ancora, finché dopo ore ed ore mi buttai a terra,  stremato e mi arresi.

   
 
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